di Bruno Venturi.
Come l’uomo può imparare il bene fino a farlo diventare naturale come il respiro
«Quando il bene smette di apparirci come un dovere imposto dall’alto e diventa un gesto spontaneo, diventa una quieta armonia dell’essere. Questo testo è un viaggio nella formazione interiore della virtù: un cammino fatto di consapevolezza, esercizio e misura, attraverso cui la volontà impara a riconoscere il vero bene e a seguirlo senza sforzo, come un atleta che agisce con naturale perfezione».
C’è un momento, nella vita di ogni uomo, in cui la domanda sul bene smette di essere un esercizio teorico e diventa un’urgenza. Non si tratta più di sapere che cosa sia il bene, ma di capire come abitare quel fragile equilibrio tra ciò che appare desiderabile e ciò che davvero ci compie.
La filosofia antica partiva da un presupposto tanto semplice quanto vertiginoso: la volontà tende naturalmente al bene. Nessuno, dicevano Platone e Aristotele, sceglie il male in quanto male. Anche l’errore più grave nasce dal desiderio di un bene frainteso, da un’illusione dello sguardo. Chi si abbandona all’eccesso non cerca la rovina, ma un piacere che gli appare vitale; chi commette ingiustizia non ama il male, ma l’ombra di una ricchezza che crede felicità.
L’uomo, dunque, non pecca per odio del bene, ma per confusione. È come chi, nella notte, scambia una fiamma lontana per il sole. Così nasce la distinzione fondamentale tra bene reale e bene apparente: il primo fa crescere l’essere, il secondo lo consuma. Ma quanto più l’apparenza brilla, tanto più è difficile resisterle.
Platone vide nel Bene la realtà suprema, la fonte da cui tutto riceve luce. È il Sole del suo mito della caverna: ciò che fa vedere e, al tempo stesso, ciò che fa esistere. Aristotele, più terreno, trovò il bene nel pieno compimento della natura umana, nella eudaimonia, la fioritura dell’anima che vive secondo ragione e virtù. L’uomo felice non è colui che gode, ma colui che realizza la propria forma migliore.
Poi vennero gli edonisti, che identificarono il bene con il piacere, e gli utilitaristi, che lo misurarono con la felicità collettiva. Fino a Kant, che capovolse la prospettiva: il bene non dipende dal desiderio, ma dalla volontà che obbedisce alla legge morale inscritta nella ragione. Agire bene, per lui, è agire per puro dovere, senza calcolo né paura.
Infine, la modernità dissolse la certezza: il bene divenne valore relativo, variabile come il costume delle epoche. Nietzsche vide nella morale una maschera del potere e proclamò che buono è soltanto ciò che afferma la vita.
Eppure, se la volontà tende al bene come la pianta alla luce, è difficile pensare che esso sia solo un’invenzione. Il bene non nasce dal nulla: è radicato nell’essere stesso. Tutto ciò che esiste, per il solo fatto di esistere, partecipa di una bontà originaria. Il male, al contrario, non è una sostanza ma una privazione: è l’assenza di un bene che dovrebbe esserci, come la cecità è assenza di vista.
Essere e bene si convertono. Dire che qualcosa è significa già, in qualche misura, dire che è buono.
Il bene dell’uomo, allora, coincide con la realizzazione piena del suo essere. Ma, a differenza del seme che diventa albero senza saperlo, l’uomo deve scegliere di diventare se stesso. La sua natura non è automatica: è cosciente. Egli cresce attraverso la consapevolezza, attraverso la conoscenza di sé nel mondo. Quando agisce secondo verità, la sua volontà si accorda con l’ordine dell’essere; quando mente a se stesso, cade nel disordine del male.
Agire bene non è solo morale, è ontologico: è un atto di verità. E per questo la consapevolezza diventa la radice della virtù.
Chi vive in accordo con ciò che è, sperimenta una felicità stabile, non un’emozione passeggera ma una pace profonda. È la eudaimonia di Aristotele: la gioia di chi, senza più inseguire ombre, si sente intero.
Ma se ogni uomo persegue il proprio bene, non rischiamo di perderci in mille fini diversi, in un coro dissonante di desideri? In realtà, la diversità dei beni non è caos ma armonia. Ogni essere ha il suo ruolo, come in un’orchestra in cui il violino e il flauto suonano parti diverse, ma concorrono alla stessa sinfonia. Così, il bene personale, quando è autentico, non contrasta con il bene comune, ma lo arricchisce. Solo quando confondiamo la libertà con il capriccio nasce il disordine.
Il bene poggia su fondamenti universali che tutti condividiamo: la nostra natura razionale, la capacità di comprendere e scegliere, e la socialità, il bisogno di relazione che ci definisce. Su questa base comune si costruisce l’etica come arte della convivenza e della misura.
E tuttavia, l’uomo resta un campo di battaglia. Dentro di noi la ragione e il desiderio si contendono il governo dell’anima. Conosciamo il bene e spesso non lo seguiamo. È l’antica akrasia di cui parlava Aristotele: la debolezza del volere. Non è cattiveria, ma scissione interiore. Le passioni non sono malvagie in sé: lo diventano quando travolgono la parte più alta di noi. Un desiderio smodato di piacere, potere o successo non nasce dal male, ma da un bene parziale che si fa tiranno.
Per ritrovare la direzione occorre un lento esercizio. La virtù non si improvvisa: si impara, come si impara a camminare o a suonare uno strumento. È questione di abitudine, di allenamento. Ogni giorno possiamo compiere un piccolo atto che orienti la volontà al vero bene. Non grandi sforzi eroici, ma gesti ripetuti che plasmano la nostra interiorità.
La prima forza da coltivare è la lucidità. Non si può desiderare ciò che non si conosce. La meditazione, l’esame di sé, la riflessione quotidiana servono a illuminare le nostre scelte. Poi viene la pratica: cominciare dal piccolo, perseverare nell’infinitamente concreto. Ogni vittoria sul bene apparente — una rinuncia superflua, una parola trattenuta, un atto di generosità silenziosa — rafforza la volontà più di mille prediche.
Le passioni non si eliminano, si educano. È inutile reprimere ciò che siamo: la vera arte morale consiste nel far convergere il desiderio e la ragione. Quando la passione comincia ad amare ciò che la ragione riconosce, il bene diventa spontaneo. È allora che la virtù smette di essere fatica e diventa piacere.
Anche l’ambiente influisce. Viviamo di esempi, respiriamo i comportamenti altrui. Per questo è necessario circondarsi di persone che aspirano al bene, che lo rendono visibile. L’etica è anche un contagio: si impara vedendo altri vivere in modo giusto, come una fiamma che accende un’altra fiamma.
Eppure resta la domanda più umana: come può un io debole diventare forte? Come può la fragilità educare se stessa? Non serve un comando autoritario, ma un’intelligenza paziente. Chi non ha forza può usare l’astuzia: modificare il contesto, semplificare le scelte, ridurre la tentazione. Il segreto è non combattere con le armi che non si possiedono, ma creare condizioni favorevoli.
A volte basta un piccolo inganno benevolo: non dire “devo cambiare la mia vita”, ma “comincio da questo gesto, adesso”. È nell’inizio minimo che si nasconde la trasformazione.
La consapevolezza, quando osserva senza giudicare, spezza l’incantesimo dell’abitudine. Guardare i propri impulsi dall’esterno è già un atto di libertà. In quello spazio sottile tra desiderio e decisione si apre la possibilità di scegliere davvero.
Col tempo, la volontà diventa docile e forte insieme. Come l’atleta che non pensa più ai movimenti del corpo, l’uomo virtuoso agisce bene senza sforzo. Non perché sia privo di passioni, ma perché le ha ordinate; non perché sia freddo, ma perché è integro. In lui il bene è diventato naturale.
“Abituarsi al bene” significa arrivare a questo punto: fare il bene senza costrizione, con la stessa naturalezza con cui si respira. Non per dovere, ma per gioia. Non per paura del castigo, ma per amore della verità.
È la libertà vera, quella che non ha bisogno di vincere se stessa, perché ha imparato a riconoscersi nella luce che la guida.

