di Bruno Venturi.
- Tesi: La famiglia non si dissolve perché “superata”, ma perché la natura dell’individuo contemporaneo, modellata da economia, tecnica e cultura, non possiede più le condizioni interiori per sostenerla.
1 – La storia
La storia della famiglia è, prima di tutto, la storia dell’uomo. Non esiste civiltà antica che non l’abbia percepita come un luogo sacro, una sorta di cellula originaria in cui l’ordine del mondo si rifletteva in miniatura. Nelle prime società, la famiglia non era soltanto un nucleo affettivo o un accordo economico: era un microcosmo, un frammento di cosmologia, un piccolo tempio domestico in cui cielo e terra, sangue e ritualità, gerarchie e responsabilità trovavano un equilibrio riconosciuto e trasmesso. Non si trattava di un’invenzione culturale, ma di una necessità antropologica. La famiglia era ciò che permetteva alla vita umana di avere una forma, uno scorrere, una continuità. Senza di essa, la civiltà non avrebbe potuto stabilizzarsi.
Guardando alle società dell’antico Oriente – dalle famiglie patriarcali semitiche alle strutture cinesi e indiane – si vede con chiarezza come il legame famigliare fosse un riflesso dell’ordine cosmico. La genealogia non era semplicemente una serie di nomi, ma una colonna vertebrale spirituale, un canale che univa passato e futuro, un filo di benedizione e appartenenza. In Cina la pietà filiale era il fondamento dell’armonia sociale; nelle tribù ebraiche il padre era custode della promessa; nei clan indiani la famiglia custodiva il dovere, come forma di stabilità. Non diversamente, seppure in modo più legalistico, a Roma la famiglia era un corpo giuridico con un centro di autorità ben definito, capace di legare insieme culti, terre, eredità, funzioni sociali. Eppure, ciò che noi chiamiamo “famiglia romana” è in gran parte una rappresentazione ideale, la fotografia delle élite che avevano casa, patrimonio e stabilità. Il popolo, massicciamente precario, viveva in condizioni troppo instabili per costruire un nucleo nel senso pieno del termine. Quella famiglia ordinata e gerarchica che leggiamo nei testi era un modello minoritario, non un’esperienza universale.
È qui che il cristianesimo operò una trasformazione decisiva: la famiglia non fu più un privilegio dei proprietari, ma una possibilità per ogni persona. Il matrimonio divenne un sacramento, un luogo sacro accessibile ai poveri quanto ai nobili. Questa democratizzazione del legame famigliare non è un passaggio di poco conto. Per la prima volta nella storia, la sacralità della famiglia smette di essere un fatto materiale e diventa una vocazione universale, capace di fondare la dignità della persona indipendentemente dalla sua ricchezza. Da questo incontro tra eredità orientale e struttura giuridica occidentale nasce la famiglia cristiana, quella che per secoli rappresenterà il pilastro dell’Occidente.
E tuttavia, se nei secoli l’idea di famiglia rimane stabile, la sua possibilità concreta rimane fragile. Per tutto il Medioevo e la prima età moderna, costituire una famiglia richiede una condizione basilare: possedere un luogo, un focolare, una casa. La casa non è solo un riparo, ma un centro di continuità: da lì si governa il lavoro, si custodisce l’eredità, si crescono i figli, si costruisce un futuro. Chi non possiede una dimora vive ai margini della struttura familiare: servi senza terra, braccianti stagionali, poveri urbani che cambiano quartiere ogni mese, persone senza stabilità che non possono trasmettere nulla perché nulla possiedono. L’idea romantica di una famiglia estesa e calorosa medievale è, in verità, un privilegio. La maggioranza vive in condizioni precarie, con un tessuto affettivo instabile, segnato da figli non riconosciuti, orfani, ricoveri, abbandoni.
Poi, con la nascita delle città medievali e della borghesia, la famiglia assume un volto nuovo. Per la prima volta, la casa diventa un progetto, non solo un destino. Il mercante, l’artigiano, il notaio, lo speziale costruiscono un focolare che non è solo luogo di vita, ma anche simbolo di identità. La famiglia borghese è la prima forma di famiglia moderna: alfabetizzata, stabile, orientata a una progettualità economica e generazionale. Nella sua casa nasce quel modo di pensare organizzato, preciso e progressivo che diventerà la matrice della modernità e del capitalismo. La famiglia borghese e il capitalismo crescono insieme, come due rami dello stesso albero.
Quando nel Novecento il modello borghese si espande al ceto medio, la famiglia vive la sua età dell’oro. Casa stabile, lavoro sicuro, ordine dei ruoli, educazione condivisa, valori trasmessi: una struttura solida, durevole, capace di guardare al futuro. Proprio allora, però, iniziano a muoversi forze che cambieranno tutto. La mobilità del lavoro, le migrazioni interne, la delocalizzazione industriale, la dissoluzione delle comunità locali erodono la stabilità territoriale su cui la famiglia si era sempre fondata. La globalizzazione della produzione chiede persone che si spostino, non persone radicate. E il radicamento era la condizione stessa della famiglia.
Contemporaneamente, una nuova ideologia culturale si afferma con sempre maggiore forza: l’individuo come centro assoluto. Un individuo che non trae più identità dalla genealogia, dall’appartenenza o dal ruolo, ma dal proprio progetto personale. L’illusione della libertà illimitata – una libertà senza limiti, senza legami, senza responsabilità – prende lentamente il posto dell’antica fedeltà ai legami. È una rivoluzione silenziosa, nata nelle élite della seconda metà dell’Ottocento, quando filosofi e critici della cultura borghese iniziano a demolire simbolicamente ciò che li aveva generati. Marx, Nietzsche, Freud, Stirner, Simmel, Sartre, ognuno a suo modo, raccontano un uomo nuovo: un essere emancipato da ogni appartenenza, sciolto da ogni legame, creatore di sé stesso.
È l’inizio della grande trasformazione antropologica. Non più essere-in-relazione, ma individuo isolato. Non più discendenza, ma coscienza. Non più eredità, ma volontà. Non più unione, ma progetto. La famiglia, da nucleo naturale e sacro, diventa un limite potenziale, un vincolo, un peso. La cultura prepara così la dissoluzione che l’economia renderà concreta.
Nella seconda rivoluzione industriale, infatti, la vita quotidiana cambia radicalmente: orari rigidi, case piccole, città affollate, trasporti lenti, tempi di lavoro ingombranti. La famiglia, che richiede lentezza, presenza, durata, si trova a dover sopravvivere in un ambiente che non la favorisce. Mentre la donna conquista spazi nuovi – istruzione, autonomia economica, liberazione da ruoli rigidi – l’uomo fatica a ridefinire la propria identità. Il risultato è un disequilibrio: la donna si trasforma, l’uomo si smarrisce. L’antica complementarità, pur con tutti i suoi limiti, si spezza. Il padre perde il suo ruolo simbolico; la madre si ritrova a svolgere funzioni impossibili; il figlio cresce senza la verticalità educativa che per millenni aveva rappresentato la cornice della sua maturazione.
A ciò si aggiunge la rivoluzione silenziosa del capitalismo del desiderio. Quando la crescita economica non si basa più sulla produzione, ma sul consumo, l’individuo diventa soprattutto un consumatore. Perché il consumo funzioni, l’individuo deve essere inquieto, insoddisfatto, in cerca continua di novità. La famiglia, educatrice alla sobrietà e al limite, è un ostacolo. Non perché vi sia una cospirazione contro di essa, ma perché la logica del nuovo mercato favorisce individui soli, mobili, fragili, con desideri manipolabili. La casa stabile, i ruoli durevoli, la responsabilità reciproca diventano elementi poco compatibili con l’economia dell’offerta. L’antica unità famigliare, capace di generare senso e limite, appare come un residuo ingombrante.
Ma la vera rivoluzione arriva con la tecnologia digitale. Il digitale cambia il modo in cui l’uomo percepisce il tempo, lo spazio, sé stesso. L’istante sostituisce la durata; la connessione sostituisce la relazione; la performance sostituisce l’identità; l’immagine prende il posto della presenza. L’individuo iper-connesso è più solo che mai. Non ha più silenzio per elaborare ciò che sente, né stabilità per costruire ciò che desidera. Vive in un eterno presente, bombardato da stimoli, incapace di memoria lunga. E la famiglia non può esistere senza memoria, senza attesa, senza lentezza. Così, nel volgere di poco più di un secolo, l’individuo cambia natura. Non è più una persona radicata, ma un flusso di desideri, di immagini, di possibilità. Non è più un figlio di una storia, ma un consumatore di istanti. In questa nuova condizione, la famiglia non è odiata: semplicemente diventa difficile, faticosa, quasi impossibile. Non perché manchi il desiderio di legame, ma perché mancano le condizioni interiori e culturali per sostenerlo.
Eppure, proprio ora che la famiglia sembra dissolversi del tutto, si avverte un ritorno sotterraneo del bisogno di radicamento. Gli individui, dopo decenni di celebrazione della libertà assoluta, scoprono che la solitudine non è liberazione, ma sofferenza. Scoprono che il legame non è un vincolo, ma una forma di forza. Scoprono che la continuità non è un peso, ma un nutrimento. In un mondo liquido, instabile, imprevedibile, il desiderio di un’unità stabile torna ad affacciarsi, come un’antica nostalgia che non si riesce a mettere a tacere.
La famiglia, forse, non tornerà mai nelle forme del passato. Ma la domanda che l’ha fatta nascere – il bisogno di essere parte di un legame che dà senso e futuro – rimane intatta. L’uomo non può vivere da solo: non lo ha mai fatto nella sua storia, e non ha iniziato davvero a farlo adesso. La dissoluzione della famiglia non è l’ultimo capitolo della storia, ma un passaggio critico in cui l’umanità deve decidere che cosa vuole essere. La libertà senza legame ha mostrato il suo volto fragile. Ora tocca alla nuova generazione comprendere se esiste un modo di essere liberi senza rinunciare a ciò che dà forma e continuità alla vita.
2 – Avrà ancora un senso la famiglia in un futuro iper-connesso e robotizzato?
Volendo capire se la famiglia avrà ancora un senso nel mondo che verrà, dobbiamo prima riconoscere una verità che nessuna epoca, finora, è mai riuscita a cancellare: l’essere umano non è una creatura autosufficiente. La sua forza non nasce dall’isolamento, ma dal legame. Tutto ciò che nella storia ha costruito civiltà – linguaggio, eredità culturale, cooperazione, responsabilità, memoria – è sempre passato attraverso una forma di unione stabile. La famiglia è stata il primo luogo in cui questa unione ha preso corpo.
Ora, però, viviamo in un tempo che sembra voler negare tutto questo. Siamo iper-connessi eppure soli; circondati da reti senza più nodi; immersi in un flusso ininterrotto di comunicazioni che non diventano relazioni. La tecnologia promette un mondo in cui i corpi sono superflui, le presenze accessorie, la memoria esterna, la cura delegabile, le scelte automatizzate. È un futuro che sembra voler sostituire il calore umano con la funzione, la lentezza con la brevità dell’istante, la presenza ingombrante della persona con il profilo schematico, il legame dialogico con l’algoritmo.
In uno scenario del genere, la famiglia appare quasi un anacronismo: una struttura lenta in un mondo veloce, una promessa di durata in un mondo dell’immediatezza, una rete di obblighi in un tempo che sopporta sempre meno il peso della responsabilità. Eppure, proprio per questo, la domanda si fa più urgente: può sopravvivere qualcosa che appartiene alla parte più profonda della natura umana in un mondo progettato per annullarne i tempi, i ritmi, i bisogni?
Se rispondiamo con superficialità, diremmo di no: che la famiglia si dissolverà come si sono dissolte le comunità, i villaggi, i riti, le tradizioni. Ma se guardiamo più a fondo, la questione cambia completamente prospettiva. Il futuro iper-tecnologico non elimina il bisogno umano: lo amplifica. Più l’uomo si circonda di strumenti, più si accorge di ciò che gli strumenti non possono dargli. Più si affida alla connessione, più sente la mancanza del contatto. Più vive nel flusso, più avverte il desiderio di durata. Non è un caso che, già oggi, in mezzo alla solitudine digitale, cresca la nostalgia di una presenza vera, di uno sguardo che non è un’icona, di una voce che non passa attraverso una rete.
Le macchine possono sostituire il lavoro, ma non la cura; possono anticipare i desideri, ma non generare amore; possono memorizzare dati, ma non costruire identità; possono imitare conversazioni, ma non dare un destino. Possono diventare strumenti perfetti, ma non diventano mai casa. La casa nasce dall’incontro fra fragilità che si sostengono, non fra funzionalità che si completano.
Ed è qui che la famiglia rivela la sua forza più antica: non quella sociale, non quella economica, non quella giuridica – tutte variabili che la storia può cambiare – ma quella antropologica, la più resistente alle rivoluzioni del tempo. La famiglia è il luogo dove l’uomo scopre di non essere solo funzione, ma mistero; dove capisce che il proprio valore non dipende dalla performance; dove sperimenta che la vita non si regge sul possesso, ma sulla reciprocità; dove impara che il futuro non nasce dall’istante, ma dalla fedeltà. Tutto questo nessuna macchina può sostituirlo.
Questo non significa che le forme della famiglia non cambieranno: cambieranno eccome. Le rivoluzioni tecnologiche hanno sempre trasformato i modi del vivere, e lo faranno ancora. Forse la casa diventerà più piccola ma più densa, forse i ruoli si ridefiniranno, forse le reti di sostegno saranno più comunitarie che genealogiche. Ma la funzione originaria della famiglia – generare, custodire, trasmettere – non potrà essere sostituita da nessun algoritmo, perché non appartiene alla sfera della tecnica, ma a quella dell’umano.
Il mondo iper-connesso e robotizzato può fare a meno di molte cose, ma non dell’unica che la tecnologia non sa produrre: il senso. E il senso nasce sempre da un legame. Per questo, paradossalmente, più diventeremo tecnologici, più avremo bisogno di una struttura che ci ricordi chi siamo. La famiglia potrà indebolirsi, frantumarsi, mutare, ma continuerà a riemergere come uno degli ultimi baluardi contro la dispersione dell’identità. Non è un’eredità del passato. È una necessità del futuro.
3 – La natura umana trasformata e la società che la guida verso nuovi bisogni
La natura umana non è immobile. È un organismo lento, che reagisce ai mutamenti dei secoli come la terra alle glaciazioni. Non cambia la sua essenza, ma muta le sue superfici, le sue modalità di espressione, i suoi istinti secondari. Per millenni, l’uomo ha vissuto in ambienti dove la sopravvivenza dipendeva dall’appartenenza, dalla cooperazione, dalla famiglia, dal clan, dal villaggio. I bisogni fondamentali erano iscritti nel ritmo delle stagioni e nel ciclo delle generazioni. Perfino l’identità era qualcosa di ricevuto, non di costruito.
Con la modernità e poi con la rivoluzione digitale, questi bisogni ancestrali non sono scomparsi: si sono assopiti. Sono diventati meno visibili, meno immediati, come una lingua madre che non si parla più ma che continua a vibrare sotto la pelle. L’essere umano non smette di desiderare radici, continuità, riconoscimento, durata: semplicemente, non sa più come chiamare questi desideri né dove cercarli. La società contemporanea, intanto, li sostituisce con bisogni secondari, più rapidi, più superficiali, più redditizi.
È qui che entra in gioco la seconda forza: una società interessata, cioè un sistema culturale ed economico che ha intuito quanto sia più conveniente coltivare individui slegati, inquieti, sempre disponibili a consumare, sempre bisognosi di stimoli immediati. Una società che non può permettersi persone troppo stabili, troppo radicate, troppo legate, perché la stabilità genera autonomia, e l’autonomia riduce la dipendenza dal mercato. Così, ciò che un tempo era un bisogno naturale – la ricerca di appartenenza – viene accomodato con surrogati: visibilità al posto di riconoscimento, connessione al posto di relazione, intrattenimento al posto di compagnia, libertà formale al posto della libertà reale.
La pubblicità, la tecnologia, la cultura di massa hanno lavorato come un gigantesco laboratorio psicologico: addormentare i bisogni lenti, quelli che richiedono tempo e fedeltà, e esaltare quelli immediati, pulsionali, effimeri. Si è creata una “natura umana operativa”, costruita per funzionare bene nel sistema produttivo e male nella vita profonda. Una natura che accetta come normale ciò che una volta sarebbe apparso impossibile: crescere senza radici, amare senza durata, desiderare senza fedeltà, lavorare senza luogo, vivere senza legame.
Ma questa anestesia dei bisogni ancestrali non è una cancellazione. È un sonno. La prova sta nel fatto che, quando il rumore si abbassa – in un lutto, in una crisi, in una solitudine improvvisa – le domande originarie tornano con una forza quasi primitiva: “a chi appartengo?”, “chi mi è fedele?”, “cosa resta di me?”, “chi mi vede davvero?”. Nessuna macchina, nessun algoritmo, nessuna comunità virtuale riesce a rispondere a queste domande, perché non appartengono alla sfera del funzionamento, ma a quella del senso.
La società interessata può proporre soluzioni più comode, più rapide, più utili ai propri fini, ma non può eliminare la struttura simbolica dell’uomo. Può assopirla, indebolirla, deformarla, ma non spegnerla. Perché l’essere umano, anche quando non lo sa, continua a cercare ciò che lo rende intero: una continuità, una promessa, un luogo, una relazione che non sia reversibile. Continua a cercare, a modo suo, la famiglia, o qualcosa che le assomigli nel profondo. Non per tradizione, non per conformismo, ma per natura.
Ciò che oggi sembra un cambiamento antropologico definitivo potrebbe essere solo una fase transitoria, una parentesi tra due epoche. La storia ci insegna che nessuna trasformazione culturale riesce a sopravvivere a lungo se non risponde alla struttura profonda dell’essere umano. E la struttura profonda dell’essere umano non è algoritmica: è relazionale.
La società può proporre soluzioni nuove, ma l’uomo continuerà a cercare ciò che nessuna soluzione artificiale può dare: un legame che lo renda più vero, non più funzionale.

