- – Specchio della processione culturale succedutasi nella storia –
di Bruno Venturi.
«Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna».
– Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 85–87 –
Ogni suono comunica, anche il più tenue, anche quello che sembra smarrirsi nell’aria. C’è in ogni vibrazione una traccia di senso, un ordine nascosto, un impulso vitale che tende a farsi linguaggio. Prima della parola, il mondo era suono: tuoni, venti, fruscii, il rombo lontano dei mari. L’uomo, immerso in queste frequenze primordiali, imparò ad ascoltare e, ascoltando, a distinguere. Fu il primo gesto di cultura: ricavare dal caos un ritmo, dare forma a ciò che era pura energia. Così nacque la musica, figlia della meraviglia, sorella della preghiera, linguaggio che tenta da sempre di imitare la perfezione divina.
I pitagorici udivano nelle sfere celesti l’armonia del cosmo; per loro, l’universo era un ordine sonoro e il numero il suo fondamento. Sant’Agostino, molto più tardi, scrisse che la musica è «scienza del bene nel suono»: una disciplina che eleva l’anima a Dio attraverso la misura e l’armonia. E Dante, nella sua Commedia, fece del canto l’essenza stessa del Paradiso: là dove la parola tace, tutto diventa melodia, e la melodia non si capisce con la mente ma col cuore. In quell’altezza, la musica non è ancora arte, ma contemplazione del mistero. Ogni nota è un atto di fede, ogni armonia una prova che la bellezza non è un capriccio dell’uomo ma la struttura segreta di un mondo ancora sconosciuto.
Con il tempo, però, l’uomo ha imparato a dominare il suo ambiente, a costruire e a misurare; e quanto più ha preso possesso del mondo, tanto più ha guardato a se stesso. La musica, come la filosofia e la fede, è scesa dal cielo alla terra: da canto cosmico è diventata linguaggio dell’anima. Beethoven, che Nietzsche chiamava «colui che diede voce alla volontà», non canta più l’armonia dell’universo ma la tempesta interiore dell’uomo. Il suono si fa introspezione, dramma, confessione: non più riflesso del divino, ma ricerca dell’umano. È la grande rivoluzione romantica: la fede nell’interiorità come ultimo tempio.
Ma nell’atto stesso di liberarsi, la musica ha cominciato a perdere la sua forma. L’uomo, divenuto demiurgo, non imita più Dio: lo sostituisce. E nella vertigine della libertà assoluta, la forma si dissolve. Bach costruiva cattedrali di note; ma dopo di lui, e soprattutto dopo Wagner, l’edificio comincia a incrinarsi. L’accordo si prolunga, la tensione non si risolve, la dissonanza diventa desiderio infinito. La ricerca della purezza porta al silenzio del senso: la de-costruzione comincia come analisi e finisce come smembramento.
Schönberg, Stravinskij, Cage: ognuno di loro smonta, frammenta, libera. Si cerca l’origine del suono, la materia nuda della vibrazione. Ma più si scende alle radici, più si perdono le altezze: l’armonia non è più un dono, ma un sospetto; il silenzio non è più attesa, ma assenza. Nel secolo dell’uomo che vuole essere dio, la musica torna a essere rumore del mondo. E nel rumore, forse, un’eco remota del primo suono si riconosce: il ritorno al caos, alla psiche originaria, alle emozioni indistinte che vagano come mosche nell’aria.
Il percorso della musica è dunque quello stesso dell’uomo: una lenta discesa dal divino al terreno, dalla forma al flusso, dall’armonia alla pura energia. È l’immagine perfetta della de-costruzione moderna: smontare per capire, ma senza sapere più come ricostruire. Eppure, chi de-costruisce, anche con le intenzioni più nobili, non è mai innocente: porta in sé il patrimonio che intende abbattere.
Ogni gesto critico nasce dentro la tradizione che vuole superare. L’intelligenza che demolisce è figlia dell’ordine che disprezza; la libertà che distrugge le regole è un’eredità delle regole stesse. Chi smonta la cattedrale ha imparato l’arte delle pietre da chi la costruì. Ma ciò che lascia in eredità, alle generazioni successive, non ha più la solidità della costruzione originaria: è materia informe, frammento, cenere che non genera radici. Eppure è da quelle rovine che i nuovi uomini dovranno, forse, tentare un’altra volta di edificare.
La cultura stessa è la forma che la fatica assume quando diventa creazione. Ogni opera vera nasce da uno sforzo che unisce mente e corpo, idea e limite. Chi costruisce conosce il peso e la lentezza, ma anche la gioia del compimento. Chi distrugge, invece, non fatica: agisce senza pensiero, senza misura. Demolire è più facile che creare, e perciò più seducente.
Ma la facilità è la soglia dell’involuzione: quando una civiltà comincia a evitare la fatica, comincia anche a dissolversi nel proprio comodo. Il gesto che nasce come libertà si tramuta in abdicazione. Non è ribellione, è resa. E la resa, anche quando si traveste da libertà, è sempre l’inizio della fine.
Dante ascendeva come un pellegrino, Bach costruiva come un architetto, Beethoven combatteva come un eroe: tutti loro sapevano che ogni bellezza è figlia del lavoro. Oggi, invece, l’uomo, stanco di costruire, vuole soltanto esprimersi; non edificare, ma manifestare il sentimento di un ego smisurato. E così, mentre canta la propria libertà, smonta la casa che lo riparava dal caos. La de-costruzione, che era nata come analisi del senso, è diventata perdita di significato. E la civiltà, che era costruzione di ordine, rischia di tornare a essere materia indistinta, suono primordiale senza melodia.
«Io non ho bisogno di sapere che Dio esiste; mi basta sapere che non sono Dio» (J.S.Bach).
Così, la musica, specchio dell’anima umana, ci racconta la nostra stessa storia: dal suono contemplato al suono dominato, dal canto al rumore, dal cielo all’abisso. E in questa parabola si riflette l’intera vicenda della civiltà: il passaggio dalla fatica alla facilità, dall’ordine alla dispersione, dalla costruzione alla resa. Ma, come in ogni rovina, forse c’è da qualche parte ancora un buon seme. Forse la memoria atavica del suono armonioso non è dimenticata: dorme sotto le macerie, pronta a rifiorire se qualcuno ritroverà la forza di ricostruirla. Perché costruire è la vera libertà: la sola che trasforma l’energia in forma, la voce in parola, il suono in canto e non viceversa. Solo chi accetta la fatica di costruire può sperare di riconciliare l’uomo col mondo, la musica col silenzio, la vita con il suo senso.
Demolire non è libertà, è, se si esaurisce in sé, una resa, anche quando si traveste da ribellione: è sempre l’inizio della fine. Perché il mondo, lo insegna ogni rovina, non perdona chi dimentica che solo la fatica trasforma la vita in cultura, e la cultura in civiltà.

