Una fenomenologia della coscienza creativa.
di Bruno Venturi.
Il tempo si manifesta all’esperienza umana come un flusso unidirezionale e irreversibile. Non possiamo afferrarlo, né trattenerlo: il presente, appena si dà, si dissolve nel passato. In tale divenire costante, ogni istante vissuto si offre come unità minima di senso — un frammento della durata, un «ora» che non si lascia fissare. Possiamo paragonare ciascuno di questi istanti a un fotogramma: esso è singolarmente privo di significato compiuto, ma, nella loro sequenza, tali frammenti costruiscono ciò che percepiamo come narrazione temporale. Come le lettere dell’alfabeto, che da sole sono mute, ma disposte in ordine generano parole e frasi, così i singoli presenti, legati nella coscienza, formano una trama dotata di senso.
Il significato emerge dunque da una struttura, da una relazione tra istanti, e ciò implica che esso è sempre, per definizione, ritardato: non coincide con l’attimo, ma si genera a posteriori, quando l’attimo è già trascorso. Di conseguenza, il luogo in cui il senso si costituisce è la memoria. Essa non è un mero contenitore del passato, ma il piano fenomenologico in cui i frammenti del tempo vengono ordinati, selezionati e ricomposti. È attraverso la memoria che la coscienza dà forma alla propria identità narrativa, rendendo il tempo personale.
Tuttavia, la memoria non è un dispositivo passivo. Essa non conserva tutto: dimentica, riorganizza, sintetizza. Col passare del tempo, la totalità degli istanti non può essere trattenuta nella loro integrità originaria. Per far fronte alla finitezza della coscienza, la memoria compie operazioni selettive. Essa isola frammenti rappresentativi, li sottrae all’oblio, ma nel farlo rischia anche di falsare, di confondere, di sostituire. Un’immagine del passato può essere ricostruita sulla base di elementi affini, ma non identici: ecco allora che il ricordo non è la restituzione fedele dell’accaduto, ma una forma di ricreazione simbolica del vissuto.
In questa dimensione attiva, la memoria non si limita a ricordare: essa produce. Frammenti provenienti da contesti differenti possono connettersi per varie affinità, dando origine a configurazioni nuove, che non corrispondono a nessuna esperienza storicamente accaduta. È in questa dinamica che si genera ciò che chiamiamo immaginazione — o, in una forma più intensa, fantasia. La fantasia non è quindi una facoltà meramente evasiva: è il risultato della capacità della memoria di intrecciare, con libertà relativa, materiali provenienti dalla storia personale dell’individuo, creando forme dotate di senso, benché non referenziali.
Vi è però un ulteriore livello, più enigmatico e profondo. Talvolta, la fantasia si presenta alla coscienza come un’intuizione assoluta, non mediata da ricordi evidenti. Appare improvvisa, priva di legami riconoscibili con la biografia del soggetto, e in alcuni casi può essere vissuta come ispirazione, visione o perfino rivelazione. Da dove proviene tale contenuto, se non può essere ricondotto a una memoria personale?
Una possibile ipotesi è che tali manifestazioni derivino da una forma di memoria archetipica o trans-individuale. Questa memoria non è legata all’esperienza empirica del singolo, ma si radica in una dimensione collettiva o persino biologica dell’essere. In analogia con alcuni fenomeni osservabili in natura — come la trasmissione istintiva di informazioni nei comportamenti animali, ad esempio nella migrazione degli uccelli — si può ipotizzare l’esistenza di una memoria genetica o atavica, che precede la coscienza individuale. Essa non trasmette contenuti puntuali, ma forme, strutture, disposizioni, che possono emergere in particolari condizioni psichiche.
L’immaginazione — intesa come forma attiva della memoria — è ciò che consente al soggetto di non essere prigioniero del passato, ma di trasformarlo, risignificarlo, e persino di attingere a un sapere che eccede il proprio vissuto. Essa è lo spazio di confine tra l’identità e l’ignoto, tra il tempo lineare e il tempo simbolico, tra il ricordo e la visione.
Tuttavia, l’intuizione — come manifestazione più sottile e profonda di questa immaginazione creatrice — è soggetta a un conflitto interno alla coscienza: quello che la oppone alla pressione del presente e alla memoria recente, ancora satura del vissuto emotivo in atto. I sentimenti che accompagnano le esperienze più vicine nel tempo, infatti, tendono a occupare interamente il campo della coscienza, proiettando bisogni, paure, attese, giudizi. Questo affollamento interiore può ostacolare lo schiudersi dell’intuizione, che per sua natura richiede silenzio, sospensione, distanza.
L’intuizione non si sviluppa nel rumore del pensiero agitato né nello scontro tra emozioni concorrenti. Essa necessita di un vuoto mentale — non inteso come assenza sterile, ma come disponibilità ricettiva, apertura non intenzionale. Solo in tale spazio disabitato, come acqua di sorgente che affiora da sola dalla terra, può emergere l’immagine pura, non ancora contaminata dalle urgenze del presente.
La riflessione filosofica conduce così a una necessità etica e interiore: dare spazio all’intuizione, proteggerla dalle interferenze del momento, renderle possibile una fioritura autonoma. Non si tratta di negare il presente, ma di sospenderlo, per un tempo minimo ma essenziale, al fine di ascoltare ciò che giunge da più lontano. Solo così la memoria profonda, quella che si manifesta sotto forma di visione creativa, può diventare veramente feconda e trasformativa.
In ultima istanza, il compito della coscienza creativa non è quello di scegliere tra passato e presente, tra ragione e immaginazione, ma di custodire il varco attraverso cui l’intuizione può emergere. Un varco che non si impone, ma si lascia aprire solo a certe condizioni.


La coscienza, memoria, immaginazione e intuizione sono tutte sottomesse alle emozioni