di Romano Guardini.

  • Il vero riluce in modo più bello e il bene fiorisce in modo più vivo di ciò che li contraddice.

L’uomo moderno ha in gran parte smarrito il proprio potere sul lavoro e non riesce più a ordinarlo nella totalità delle cose. Il suo vero senso è definito nelle parole del racconto della creazione. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nel potere di esercitare un dominio sul mondo, poiché Dio è signore, assolutamente. «Lavoro» significa il compendio dell’attività con cui l’uomo vigilando, amministrando, plasmando, esercita la signoria che gli è propria. E tale signoria mantiene il suo senso solo quando chi lo esercita sta nell’obbedienza davanti all’altissimo Signore. Nel momento in cui, sedotto da Satana, egli rifiuta la propria obbedienza, e vuole essere signore per grazia propria, allora perde autorità sopra il suo dominio e soggiace a esso. La signoria del mondo si fa demoniaca, rende servo chi è stato signore e lo lega nel mondo. Ora Dio dà al lavoro il suo secondo significato: esso diviene punizione ed espiazione. In tal modo schiude all’uomo una nuova possibilità, quella di ritornare per mezzo del lavoro nel giusto rapporto con Dio e con se stesso. Nella misura però in cui abbandona la fede, egli soggiace definitivamente all’elemento demoniaco del lavoro.

Un lungo cammino conduce al lavoro moderno e al modo in cui è concepito. L’uomo antico rifiuta affatto il lavoro e lo abbandona agli schiavi; egli si dedica alla politica, conduce la guerra, vive nella sua cultura e gode. Il motivo di ciò non è solo nel fatto che il lavoro è pesante o degradante – anche la politica e la guerra hanno il loro peso e la loro umiliazione -, ma nel fatto che all’uomo antico mancala volontà di esercitare il suo dominio sul mondo e in quel modo che solo il lavoro rende possibile. La sua volontà di dominio non è tecnico-economica, ma bellico-politica.

Poi interviene un mutamento che penetra sino alle fondamenta. Il cristianesimo abolisce, dapprima in linea di principio, poi sempre più anche praticamente, la differenza fra liberi e schiavi, poiché pone tutti gli uomini nella stessa situazione fondamentale. Ciò non significa livellamento. Si riconoscono distinzioni, e anzi distinzioni che diversamente non verrebbero neppure alla luce. Già solo il fatto che la esistenza cristiana poggia primariamente non sull’uomo, ma sulla grazia e questa discende dalla sovrana decisione del Dio vivente, rende impossibile qualsiasi livellamento. E quale molteplicità di figure, quale gradazione di piani, dal santo nella sua solitaria grandezza, alla semplice quotidianità della vita! Ma queste differenze si trovano entro la stessa situazione fondamentale. Tutti gli uomini sono creature di Dio, stanno davanti a lui nella colpa, vengono redenti e chiamati ad essere suoi figli. Le grandi parole della Lettera agli Efesini di Paolo di Tarso esprimono questa fondamentale comunanza:

«Cercate di conservare l’unità dello Spirito…. Come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati… Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Uno solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (4, 5-6).

In questa unità non c’è 

«Più Giudeo, né Greco; non c’è più né schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).

La distinzione che determinava l’antico atteggiamento davanti al lavoro è caduta. Il lavoro non è più scandalo, poiché riguarda gli uomini come tali; anzi è dovere, poiché con esso l’uomo si pone nell’obbedienza verso Dio.

……………

La cultura e la civiltà medievale si reggono in definitiva sul cavaliere e sul chierico e perciò, nonostante ogni avidità di possesso si definiscono attraverso una concezione non-economica. Così anche il lavoro viene inserito in una concezione che lo preserva dalle conseguenze estreme. Con la fine del Medioevo, il potere passa alle città, anzi ai cittadini. Si sviluppa di contro all’idealismo del cavaliere e del chierico un nuovo realismo; di contro al loro atteggiamento rappresentativo, fondato sui contenuti di senso metafisici, una valutazione dei rendimento obiettivo. Nasce la mentalità economicistica del borghese, che vuole acquistare, diventare ricco, e per mezzo della sua ricchezza esercitare il potere: il capitalismo. In esso, come hanno dimostrato Max Weber e Werner Sombart, operano anche forze religiose. Il protestantesimo ha fatto della fede il fondamento dell’atteggiamento cristiano in modo così radicale, da spezzare ogni legame con il mondo e il mondo è divenuto disponibile, aperto davanti all’uomo assetato di dominio. E poiché l’uomo ha bisogno di una qualche garanzia della benevolenza divina, egli la trova in modo molteplice nel successo civile ed economico, mentre la diligenza e il rendimento si trasformano in diretti valori religiosi. Il lavoro si sviluppa in quello sforzo metodico e consapevole che regge tutta l’esistenza umana, sforzo che si rivolge al concreto dominio del mondo e porta con sé il successo economico. E poiché tutto l’ordine sociale si costruisce secondo questa concezione, il lavoro diviene inevitabile per il singolo: egli deve accollarselo, anche quando non lo vuole.

Questo atteggiamento si completa quando all’inizio del XIX secolo la scienza della natura compie la sua decisiva irruzione e nasce la tecnica. Ora, all’impulso economico si unisce quello scientifico-tecnico, cioè la volontà di impadronirsi della natura e di imprimerle un nuovo volto. Mentre per il passato l’uomo, a partire da un determinato limite, non troppo avanzato, pur con tutta la sua ingegnosità, aveva lasciato la natura così come era, ora egli, forte delle sue conoscenze scientifiche e dei suoi strumenti tecnici, ne spezza le sue strutture, spingendosi fino ai suoi elementi primi e disponendo di essi. Acquista così una forza sempre crescente. Questa volontà di potenza si oggettivizza e diviene una volontà dell’esistenza generale. Da essa procedono compiti sempre più vasti che impongono all’uomo prestazioni sempre più impegnative. Nasce il moderno uomo del lavoro che, guidato da una volontà di dominio tecnico-economico, impegna tutta la sua forza per l’affermazione di questo dominio sul mondo, ma insieme, asservito dai compiti che essa gli impone, per essi deve incessantemente affaticarsi.

Con tutto ciò non si fa che presupporre le possibilità della decisione implicita nel lavoro. La decisione stessa procede da un elemento religioso. Quanto più l’epoca moderna avanza, tanto più profondamente si stacca dalla Rivelazione. Nella vita delle personalità e delle classi dirigenti la fede diventa sempre più debole. Sempre più decisamente l’uomo rifiuta di essere signore del mondo restando sottomesso a Dio e sempre più appassionatamente pretende il dominio in senso assoluto. Così egli perde quell’altezza al di sopra di sé che solo la fede concede e non sa più vedere cosa alcuna che non sia il mondo, con le sue mete. L’impulso e la costrizione al lavoro divengono in tal modo sempre più ineludibili. E al tempo stesso l’uomo disimpara quegli atti e quegli atteggiamenti che con un nome comprensivo vogliamo chiamare contemplativi: la capacità non solo di riposare da uno sforzo, ma di vivere nella quiete; la possibilità di esistere in un’atmosfera disinteressata, senza finalismi immediati; la relazione con le sfere di ciò che è interiore, elevato, eterno.

Ora l’uomo è definitivamente sacrificato al lavoro, e infatti che deve fare quando non lavora? Può ancora soltanto godere e anche qui gettato in balia di costrizioni, senza un’altezza sopra di sé che lo difenda. Lavorare e correre in caccia del godimento e, appena cessa del fare questo, si apre l’interiore deserto. Così tutti gli impulsi superiori, personali, etici, religiosi, conducono necessariamente al lavoro. Dove nell’uomo credente si elevavano i rapporti con Dio vivo e con il mondo, si presenta ora un vuoto e il demonio vi penetra. L’uomo ha il sentimento di smarrire lungo questa via ogni cosa più nobile e delicata, le forze del raccoglimento e della pace, della libertà e della bellezza, dell’interiorità e dell’amore; eppure vuole percorrerla, poiché la volontà di dominio in cui egli si è ribellato a Dio, si appropria a sua volta di lui, dal momento che egli è decaduto.

Espressione di questo circolo vizioso di decadenza è il carattere addirittura magico che il nazismo impose al lavoro. Esso fu considerato come un valore incondizionato, che valeva per sé. Non si poneva più il problema del suo contenuto: il lavoro per il lavoro! Qui si rivelava il formalismo che compare sempre quando non si scorgono più significazioni reali. L’uomo che avverte in questo modo il lavoro agisce come colui che non conosce più sostanziali valoro etici e si riduce in ogni circostanza a mantenere un contegno conformista. È un segno di bancarotta.

Dalla divinizzazione del lavoro l’uomo è posto nella condizione di essere arbitrariamente utilizzato da quella potenza che ha scacciato Dio e si è arrogata i suoi diritto: lo Stato assoluto. Se questo si preoccupa ancora di fornire all’uomo anche la contropartita di un tale lavoro, cioè un godimento indirizzato dai mass-media e accettato con cecità, e di sintonizzare l’uno e l’altro secondo il carattere e l’atteggiamento, allora l’uomo è consegnato, mani e piedi legati. Questo ‘essere dati in preda’ diviene ancor più tremendo quando lo Stato stesso viene svuotato, perde il carattere della superiorità e del diritto e diventa puro apparato di forza, cadendo nelle mani di gruppi e strati sociali irresponsabili, ma sempre pilotati e manipolati da un potere forte ma nascosto.

L’uomo deve dare onore a Dio; in quello stesso momento riacquista ciò che è elevato al di sopra di lui e del suo lavoro. Nel rapporto con Dio egli può essere interiormente pacifico e ritrovare il ritmo interiore della vita, che vibra nell’atmosfera dell’eterno, che non è legato a finalità. Allora il lavoro perde la sua demoniaca importanza. L’uomo può conoscere appunto da quella prospettiva anche la rinuncia, si spezza l’incanto del piacere, si mostra il primo accenno di libertà.

da «LIBERTÀ, GRAZIA, DESTINO» di Romano Guardini (1948)

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