di Bruno Venturi.
- – Un discorso filosofico sulla sospensione del limite –
Nella lunga storia dell’Occidente, l’idea di un ordine naturale ha sempre costituito un cardine indispensabile per comprendere l’equilibrio del mondo biologico e di quello umano. La natura, infatti, non è un idillio armonico, ma un campo di tensioni in cui la vita si organizza secondo rapporti di forza che non sono meri conflitti, bensì dispositivi dinamici attraverso cui l’esistenza trova forme di equilibrio. L’adattamento, la selezione, la misura dei limiti e il riconoscimento delle proprie incapacità costituiscono, da sempre, il tessuto invisibile che permette alla vita di permanere e di evolvere. Una struttura di questo tipo non è moralmente buona né malvagia: è semplicemente funzionale, e in questa sua funzionalità rivela un principio ordinatore che l’uomo ha lungamente riconosciuto come intrinseco alla realtà stessa.
Con l’avvento della tecnologia moderna, tale ordine è stato progressivamente sospeso. La tecnica non ha abolito i rapporti di forza, ma li ha neutralizzati, attenuando conseguenze che la natura, da sempre, imponeva come correttivi spontanei degli squilibri. In molti ambiti della vita biologica e sociale, ciò che prima soccombeva, oggi sopravvive grazie a dispositivi che proteggono il fragile, il disfunzionale, l’immaturo o il non pronto. Questo non rappresenta in sé un male: anzi, testimonia la capacità dell’uomo di sottrarsi alla durezza della selezione naturale e di esercitare una libertà creatrice che è uno dei tratti più nobili della sua dignità. Tuttavia, la sospensione del limite non avviene mai senza conseguenze: quando un equilibrio naturale non può più ristabilirsi attraverso la propria logica interna, le tensioni si accumulano, si stratificano e finiscono per rendere il sistema più fragile, non più forte. La tecnologia, usata senza prudenza, rende cronici quei conflitti che la natura, in genere, risolve.
A questo punto la sospensione tecnologica del limite non è altro che l’equivalente secolarizzato della sospensione etica operata dalla misericordia. Anche la misericordia, infatti, interrompe la logica della natura, perché sospende il principio della giustizia retributiva. Laddove il mondo naturale direbbe che ogni atto genera una conseguenza proporzionale, la misericordia inserisce un varco nella necessità: offre al colpevole la possibilità di rinascere. Ma questa sospensione non è un automatismo; esige discernimento, verità e soprattutto conversione. Una misericordia che perdona senza richiedere un cambiamento reale è un inganno sentimentale: non guarisce il male, ma lo copre; non corregge la colpa, ma la protegge; non salva il colpevole, ma lo deresponsabilizza. La tradizione cristiana lo ha sempre saputo: la misericordia autentica non è mai contro la verità, e se viene separata dalla verità genera disordine, non redenzione.
Qui la correlazione tra misericordia e tecnologia emerge con una chiarezza sorprendente. Entrambe sospendono il limite naturale, entrambe neutralizzano le conseguenze immediate, entrambe creano una zona di protezione che può essere una benedizione o una minaccia. Ma la linea di demarcazione tra il bene e il male non risiede nella sospensione in sé, bensì nel modo in cui essa è governata. Se la misericordia è guidata dal discernimento, produce giustizia più alta; se è privata della verità, produce confusione morale. Se la tecnologia è guidata dalla prudenza, innalza la qualità della vita; se è guidata dalla fretta, dall’ignoranza o dal profitto, produce vulnerabilità sistemica. La tecnologia mRNA è un esempio eloquente di questa dinamica: non è la tecnologia in sé a essere discutibile, bensì l’assenza di una sufficiente maturazione culturale ed etica nel suo impiego. Ciò che in linea di principio appartiene al progresso viene trasformato, per mancanza di prudenza collettiva, in una sospensione del limite che non si fonda su una reale coscienza del suo valore né su una valutazione completa delle sue implicazioni. La tecnologia, così, diventa l’equivalente tecnico del buonismo: un atto di potenza senza giudizio.
Da questo punto, il discorso può finalmente toccare il nucleo politico e spirituale della questione. L’Occidente moderno sta imparando a usare misericordia e tecnologia nello stesso modo: entrambe vengono applicate senza discernimento, senza ordine, senza gerarchia, cioè senza verità. È questo, in fondo, il tratto distintivo del relativismo culturale che Benedetto XVI ha lucidamente individuato come la minaccia più corrosiva della nostra epoca. Il relativismo nasce proprio dalla sospensione del limite: se nessuna verità può essere riconosciuta come fondamento, allora ogni giudizio diventa arbitrario, ogni criterio diventa mutevole, ogni distinzione si indebolisce. Ciò che resta è una civiltà che perdona senza chiedere conversione e che può tutto senza capire perché deve farlo. Una civiltà che rifiuta il limite in nome della libertà e che finisce per distruggere la libertà stessa. Una civiltà che sostituisce la verità con la percezione, il bene con l’emozione, il giudizio con il consenso, la formazione con l’improvvisazione.
La correlazione tra misericordia, tecnologia e relativismo non è dunque una metafora, ma una struttura della crisi presente. L’Occidente non sta venendo meno perché ha perso la capacità di perdonare o di inventare, ma perché ha smarrito il criterio con cui valutare quando perdonare e quando inventare, quando sospendere il limite e quando rispettarlo. La misericordia e la tecnologia sono strumenti potenti: possono salvare vite, umanizzare il mondo, correggere ciò che la natura non sana. Ma senza prudenza diventano forze dissolutive, perché sospendono ciò che non può essere sospeso senza trasformare l’intero ordine in un magma instabile. È questa sospensione senza verità che si chiama relativismo, ed è questo relativismo, come aveva compreso Benedetto XVI, che minaccia non la struttura delle idee, ma la resistenza stessa della civiltà occidentale.

