di Bruno Venturi. .
I. L’unità che non dissolve
Tutto vive, tutto muta, tutto è. Nel germoglio che si tende alla luce, nella mente che contempla, nella stella che arde nell’abisso, l’essere si dona come segno della sua sorgente. Ogni cosa è viva non per sé, ma perché partecipazione di un atto che la trascende: il raggio non è il sole, ma la sua effusione.
L’universo è un tutto relazionale, ma non chiuso: il suo centro è altrove, nel principio che continuamente lo fonda. Ciò che scorre, scorre perché è sostenuto; ciò che appare, appare perché è pensato. Nel cuore di ogni forma pulsa l’impronta del Creatore, che non si confonde con la creazione ma la mantiene nell’essere come la parola nella voce.
Così il divenire non è caos, ma ordine dinamico: il modo in cui l’eterno si fa tempo, la luce si traduce in colore, la potenza si apre in vita. L’essere non è statico né disperso: è un fluire ordinato, una armonia di distinzioni. Ogni creatura è se stessa, e insieme eco della Causa che la fa essere.
II. La presenza che sostiene
Nel pensiero di Tommaso d’Aquino, solo Dio è l’essere in sé e per sé; tutto il resto ha l’essere, non è l’essere. Ma proprio in questa dipendenza si rivela la sua dignità: il mondo non è un dio minore, ma un riflesso amato dell’Essere divino, che lo mantiene nel tempo come atto continuo di creazione.
Questa creazione non è evento passato, ma respiro perenne. Dio non abita un luogo, ma è più intimo a noi di noi stessi. Non si fonde col mondo, ma lo attraversa; non si identifica con la natura, ma la sostiene. La sua presenza è come la luce nel vetro: la riempie senza diventare vetro, la fa splendere senza cessare di essere luce.
L’essere universale è dunque partecipazione dell’atto divino, non la sua replica. Ogni movimento, ogni nascita, ogni idea sono tracce della medesima intenzione creatrice. Nel divenire delle cose, Dio non scompare: si comunica.
III. La comunione del molteplice
Il mondo non è Dio, ma tutto ciò che è buono, bello, vero ne manifesta la presenza. L’universo è una grande comunione ordinata: la molteplicità come linguaggio dell’unità. Ciò che il panteismo confonde, la metafisica cristiana distingue per congiungere: Dio resta trascendente, e proprio per questo può essere intimamente presente a tutto. L’uomo, creato a immagine del suo Creatore, è la soglia consapevole di questo ordine. Nel suo pensiero, il mondo si pensa; nel suo amore, la vita riconosce la propria origine. Quando comprende, l’uomo non diventa Dio, ma partecipa del suo intelletto; quando ama, non si dissolve nel tutto, ma riflette l’amore che tutto sostiene.
La coscienza cosmica, intesa in senso analogico, non è una mente del mondo, ma la riflessione dell’intelletto divino nella molteplicità delle creature. È l’ordine vivente per cui ogni ente, nel pensarsi e nell’essere pensato, partecipa dell’intenzione di Dio. L’universo è un organismo non chiuso in se stesso, ma aperto alla sua Causa, come una melodia che non esisterebbe senza il respiro del musicista che la crea.
IV. Il divenire come via dell’eterno
Il tempo non è prigione dell’essere, ma forma della sua rivelazione. Ogni istante, ogni mutamento, ogni morte è la soglia attraverso cui l’eternità si manifesta nel finito. Così il seme che muore, la stella che si spegne, l’uomo che riflette, non sono fine ma trasparenza dell’eterno nel tempo.
In Cristo — nel suo nascere, morire e risorgere — il ritmo della creazione diventa cosciente di sé. La resurrezione non è soltanto evento storico, ma legge universale: ciò che vive tende a ritornare alla sua origine, e nel ritorno si compie. Dio non annulla il mondo: lo porta a fiorire nella luce del suo disegno.
La vita del cosmo è dunque liturgia cosmica, in cui ogni creatura, anche inconsapevole, loda l’Essere da cui proviene. L’uomo, dotato di parola e coscienza, è chiamato a riconoscere questo canto e a farlo proprio: a trasformare il sapere in contemplazione, la contemplazione in gratitudine, la gratitudine in lode.
V. La sintesi: Dio in tutto, ma non tutto è Dio
L’universo vive nella luce del suo Principio, ma la luce non si esaurisce nell’universo. Ogni cosa esiste in virtù di una Presenza che la fonda, la supera e la ama.
Questa è la verità ultima dell’essere: unità nella distinzione. Un olismo non naturalistico, ma sacramentale: il mondo come segno vivente di Dio. Tutto è collegato, perché tutto partecipa dello stesso atto d’amore che lo ha chiamato a esistere. Nessuna creatura è isolata, ma nessuna è Dio.
L’essere cosmico è teofanico: una manifestazione progressiva del divino nel tempo, non per necessità naturale, ma per libera effusione dell’amore. Il divenire è l’eco temporale dell’eterno, la creazione continua del Creatore che, senza mai mutare, fa nuove tutte le cose. E così il mondo — linfa, pietra, anima, pensiero — non è il volto di Dio, ma la sua impronta viva. Il nostro compito non è dissolverci nel tutto, ma riconoscerci come parte di un disegno che ci trascende. E in questo riconoscimento, l’essere diventa preghiera, il pensiero si fa gratitudine, e la vita ritorna alla sua sorgente.
L’essere non è Dio, ma viene da Dio.
E ciò che è vivo, cresce, muore e rinasce,
non fa che manifestare il suo atto eterno d’amore.
Tutto respira di Lui, ma nulla lo contiene.
La creazione è il suo volto visibile,
la coscienza dell’uomo, il suo specchio.
Nel ritmo del mondo, nell’intelligenza vivente, nella nostalgia del cuore,
l’Essere unico si lascia percepire come causa e come fine,
come il silenzio che sostiene la parola.
E qui, la filosofia incontra la fede,
e l’universo diventa l’inno della sua presenza.

