di Bruno Venturi. .
“Dio è in tutte le cose per essenza, presenza e potenza, ma nessuna cosa è Dio.” (Summa Theologiae, I, q.8, a.1)
L’essere non è mai fuori dal tempo né fuori dallo sguardo. Esso vive nel ritmo della percezione, nella tensione tra memoria e attesa, tra apparire e comprendere. Il dinamismo del tempo non è un accidente del mondo, ma la condizione stessa perché qualcosa possa apparire come “essere”. Così l’ontologia si intreccia con la fenomenologia e l’epistemologia: l’essere non “è” — diviene quando è percepito.
Qui intendiamo mostrare come l’essere non sia una realtà statica né una sostanza immobile, ma un processo vitale continuo, un ritmo cosmico che si esprime nella metamorfosi della materia e dello spirito.
Attraverso la metafora del germoglio che diventa fiore e frutto, le forme più forti dell’essere, si può intuire che l’essere è la totalità del divenire: non un punto fermo, ma il movimento stesso attraverso cui ogni cosa si compie.
Da Eraclito a Spinoza, fino a Bergson e Whitehead, la filosofia ha tentato di restituire questa visione organica, in cui il tempo non è nemico dell’eternità ma la sua forma visibile.
«ll linguaggio del cosmo è analogico: dire che l’universo ha coscienza significa riconoscere che ogni cosa porta in sé il segno dell’Intelletto che la conosce. L’essere pensa in Dio, non per sé».
Il ritmo dell’essere
Il germoglio diventa virgulto, che produce un bocciolo, che diventa fiore e poi frutto; e il frutto, mutando nel tempo, matura e cade, portando con sé la vita del futuro.
In questa sequenza semplice si racchiude il mistero dell’essere: l’identità che si conserva mutando, la vita che si trasmette attraverso la morte apparente delle sue forme. Il seme, che giace nella terra, non è assenza ma potenza in attesa. Contiene in sé tutto ciò che sarà: la memoria del germoglio, il desiderio del fiore, la promessa del frutto. Ogni fase è già inscritta nell’altra, come in una spirale dove l’inizio e la fine coincidono.
L’essere è dunque auto-generazione, principio che porta in sé la propria legge di sviluppo. Il fiore che si apre alla luce non sa di preparare la propria caduta; eppure è in quella caduta che si compie la sua missione. La morte non è negazione, ma trasferimento di energia, passaggio di forma in forma. Nulla si perde: il mondo intero vive di questa circolazione ininterrotta, dove ogni dissoluzione è seme di un nuovo principio. Il frutto che cade non si distrugge, ma libera la continuità dell’essere: ciò che era linfa diventa terra, ciò che era corpo diventa nutrimento.
Così l’essere non è un “qualcosa” che esiste: è il ritmo stesso del vivente. Ogni forma è un equilibrio momentaneo di forze che scorrono; la stabilità è solo una pausa del movimento universale. Come l’acqua che, pur cambiando forma, resta se stessa, l’essere attraversa i suoi stati — nascita, crescita, decadenza, rinnovamento — restando identico nella sua differenza.
Tempo e percezione
Il tempo non è esterno all’essere, ma ne è l’intima respirazione. Ogni trasformazione è un atto del tempo che si piega su se stesso: passato come memoria, presente come fioritura, futuro come attesa di compimento. Quando percepiamo il mondo, non osserviamo cose ferme, ma tracce di un processo in corso, come onde di uno stesso mare che si susseguono senza fine.
La coscienza umana, a sua volta, partecipa di questa ciclicità. Ogni percezione è un fiore che si apre nel pensiero, fiorisce un istante e subito svanisce, lasciando nel solco della memoria il seme di un significato nuovo. Conoscere è quindi un modo di essere nel divenire: comprendere il mondo significa accompagnarlo nel suo mutamento, non possederlo.
Per questo l’essere non può essere separato dalla percezione né dal tempo. Ciò che “è”, è solo in quanto appare, e ciò che appare lo fa secondo il ritmo del tempo vissuto. Il nostro sguardo non coglie l’eternità come immobilità, ma come presenza perenne del mutamento: ciò che sempre diviene e mai si estingue.
Risonanze nella tradizione
Già Eraclito aveva intuito che “tutto scorre” (pánta rheî) e che la stabilità è illusione dei sensi. Aristotele, pur ponendo una distinzione tra potenza e atto, riconosceva che la realtà è il passaggio continuo dall’una all’altro. Plotino vide nel fluire delle forme una emanazione dell’Uno, in cui ogni cosa tende a ritornare alla propria origine. Spinoza, infine, concepì la Substantia come una sola realtà infinita, che si esprime attraverso infiniti modi: ciò che muta è solo la modalità, non l’essenza. E in tempi più recenti Bergson e Whitehead hanno riunito queste intuizioni in una metafisica del processo, dove il tempo è la materia stessa dell’essere, non la sua ombra.
L’essere è germoglio e frutto, luce e ritorno alla terra. È linfa che scorre, non forma che si fissa. Nel suo fluire custodisce l’eternità, perché ciò che muta senza fine non muore mai. Nel ciclo vitale, il senso dell’essere si rivela nella continuità del cambiamento: la vita del futuro nasce dalla decomposizione del presente, e il presente è già eco di ciò che è stato. Ogni cosa partecipa a questo cerchio cosmico, dove la metamorfosi non è imperfezione ma legge di armonia.
Essere significa quindi partecipare a un flusso più grande, essere nel divenire del tutto, come il seme che si offre alla terra sapendo che solo morendo potrà rinascere.
Dalla metamorfosi naturale alla rinascita spirituale
1. La legge del ritorno
Ogni processo vitale è un ritorno. Ciò che nasce tende a ritrovare la propria origine, come il seme che, dopo aver generato il frutto, ritorna alla terra per rinascere. Questo ritmo del mondo naturale è la grammatica segreta dell’essere, la legge universale del mutamento che si piega su se stesso per ricominciare. Nel suo silenzio vegetale la natura ci insegna che non esiste vera fine, ma solo trasformazione.
È questo ritorno che, nel pensiero cristiano, si trasfigura nel simbolo della resurrezione: non la semplice sopravvivenza dell’anima, ma il rinnovarsi dell’essere nel suo compimento. Come la linfa si ritira d’inverno per rinascere in primavera, così lo spirito attraversa la morte per manifestare la pienezza della vita. Il Cristo risorto è l’immagine suprema di questo principio cosmico e ontologico: l’eterno che si rivela attraverso il mutamento, non contro di esso.
2. La materia come promessa di spirito
Nel cristianesimo primitivo la natura non è negata, ma trasfigurata. Il seme che muore nella terra e risorge come nuova pianta diventa parabola della vita spirituale:
“Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).
Questo passo non parla solo di un destino ultraterreno, ma di una legge universale dell’essere: la vita cresce attraverso il sacrificio delle sue forme. Ogni atto di conoscenza, ogni atto d’amore, è una piccola morte dell’ego per far spazio a un significato più ampio. La materia stessa, nel suo incessante trasformarsi, custodisce un’anima che tende verso lo spirito. La visione del mondo come ciclo vitale, dunque, non è pagana ma profondamente cristiana, se colta nella sua essenza: l’universo intero partecipa del mistero pasquale, dell’eterno passaggio dal limite all’infinito, dalla notte alla luce.
3. Il simbolo come ponte tra natura e spirito
L’antichità classica aveva già intuito, nei miti di Demetra e Persefone, nel morire e rinascere di Dioniso o nel ciclo di Adone, la verità del ritorno cosmico. Ma nel cristianesimo, questa ciclicità si innalza a verticalità redentrice: non solo ritorno all’origine, ma ascesa verso la pienezza. L’essere non gira più in un cerchio chiuso, ma si eleva a spirale: ogni morte prepara una rinascita più alta.
L’immagine del fiore che si apre alla luce del sole diventa, nell’iconografia medievale, simbolo della fioritura della grazia: Maria è chiamata flos campi, Cristo è il fructus ventris.
Nel Rinascimento, con la rinascita dell’uomo al centro del cosmo, questa simbologia si fa umana: la natura è il teatro del divino, e ogni processo naturale è una parabola visibile dello spirito invisibile. Il germoglio, il fiore e il frutto non sono solo fenomeni biologici, ma segni della logica divina inscritta nella materia: il mondo è il corpo del logos, e il tempo è la sua lingua.
4. La resurrezione come principio cosmico
Quando Cristo risorge, non è solo l’uomo che torna alla vita: è l’essere stesso che si riconcilia col proprio divenire. Il divenire non è più maledizione, ma via di redenzione. La storia, la materia, il corpo — tutto ciò che muta — diventa parte della rivelazione.
In questo senso, la resurrezione non è un miracolo contro natura, ma la natura stessa portata alla sua verità ultima. La fede non sopprime la legge del germoglio e del frutto, ma la trasfigura in un movimento eterno: ciò che nel mondo si consuma, nello spirito si compie.
Ogni morte è un atto di consegna; ogni fine, un ritorno alla sorgente. Il ciclo vitale della terra trova così il suo corrispettivo spirituale: la resurrezione non è rottura, ma continuità portata alla coscienza.
L’essere come promessa di eternità
Il seme che cade, il fiore che appassisce,
l’uomo che muore:
tutto rientra nel respiro dell’essere,
che mai si esaurisce,
ma muta per restare se stesso.
L’essere, nel suo fluire, è insieme natura e spirito:
natura, perché genera e dissolve;
spirito, perché riconosce in questo fluire il segno di un senso più grande.
La vita non tende alla fissità,
ma alla consapevolezza della propria perennità nel mutamento.
È questa la vera eternità: non il tempo abolito, ma il tempo compreso.
Nel ciclo del germoglio e del frutto, l’uomo riconosce se stesso:
immagine di un universo che continuamente si dona, si consuma e si rinnova,
perché l’essere — in ogni sua forma — non può fare altro che divenire luce.
L’Umanesimo del Cosmo: l’essere che pensa se stesso
1. Il ritorno dell’anima del mondo
Nel Rinascimento, la riflessione sull’essere e sul suo fluire si libera dalle costrizioni teologiche senza rinnegare la spiritualità: essa si espande nel mondo. L’universo non è più solo teatro della salvezza, ma organismo vivente, corpo del divino che si manifesta in ogni cosa. Marsilio Ficino parla dell’anima mundi, principio mediatore che lega il sensibile all’intelligibile, la materia allo spirito. Il mondo è un grande vivente, animato da un soffio che attraversa ogni pianta, pietra o astro: ciò che unisce tutto non è la sostanza, ma l’armonia del respiro. In questa visione, il germoglio che cresce e il cuore che batte rispondono alla stessa legge: la vita universale come ritmo dell’essere.
Il pensiero eracliteo rinasce, filtrato dal neoplatonismo cristiano: l’Uno non è separato dal molteplice, ma si riflette in esso come il sole nelle onde di un mare in movimento. Ogni creatura, ogni pensiero, ogni atto umano è una modulazione del tutto — una vibrazione dell’essere che si riconosce in se stessa.
2. Cusano: il cerchio che non ha confini
Niccolò Cusano, filosofo della coincidenza degli opposti, intuisce che la verità non è nella fissità, ma nella tensione degli opposti. L’essere e il divenire, l’uno e il molteplice, il tempo e l’eterno non si escludono: si compenetrano in una sintesi che sfugge alla logica umana ma che la ragione può intuire come infinito. Cusano paragona Dio a un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è in nessun luogo: immagine perfetta di un essere fluido, senza confini, che include ogni differenza.
In questa prospettiva, il tempo non è che la circonferenza mobile dell’eternità, e ogni creatura — anche la più effimera — ne è punto di contatto. Così, il germoglio e l’uomo partecipano della stessa logica divina: il divenire è il modo in cui l’infinito si fa visibile nel finito.
3. Ficino e la musica dell’essere
Ficino, traducendo Platone e Plotino, restituisce alla filosofia l’immagine musicale del mondo. Tutto vibra, tutto risuona: l’essere è armonia cosmica. Il divenire non è disordine, ma cadenza: un alternarsi di tensione e quiete, di luce e ombra, come il respiro del creato. Il tempo stesso è misura di questa musica universale, che lo spirito umano può ascoltare e, in parte, ricreare. L’uomo, posto al centro del cosmo, non come sovrano ma come interprete, diventa l’eco cosciente dell’essere. Quando contempla la natura, egli non osserva un oggetto esterno, ma riconosce se stesso nel ritmo del tutto.
La conoscenza diventa comunione; la contemplazione, una forma di canto. È questo l’autentico senso dell’Umanesimo: non l’esaltazione dell’uomo separato, ma l’uomo come strumento sensibile del divino.
4. Giordano Bruno: l’infinito come fioritura dell’essere
In Bruno il seme della filosofia rinascimentale esplode in una visione cosmica assoluta. L’universo è infinito perché l’essere non può non espandersi. La divinità non è oltre il mondo, ma immanente in ogni suo punto; ogni stella, ogni atomo, ogni idea è una forma della vita eterna. Bruno scrive:
“Ogni minima cosa contiene in sé la virtù dell’infinito”.
Il germoglio non è più solo simbolo del ciclo vitale, ma immagine dell’intero universo che si auto-genera in ogni suo frammento. L’essere, dunque, non è solo processo: è creatività infinita, un eterno fiorire che non conosce riposo. L’uomo che contempla questa verità non è più suddito della natura, ma partecipe della sua libertà. Il rogo di Campo de’ Fiori non brucia un eretico, ma un poeta dell’essere, che aveva osato dire che il divino non è un altrove ma la fiamma stessa del divenire.
5. Campanella: la coscienza del mondo
Con Tommaso Campanella, la filosofia dell’essere diventa quasi profetica. Nel suo Senso delle cose e della magia, egli afferma che tutto ciò che esiste sente: la pietra, l’erba, il sole possiedono una forma di percezione. Non c’è materia morta, ma materia cosciente. L’universo è dunque una mente diffusa, e l’uomo ne è l’occhio che si apre su se stesso. In questa visione, l’essere è percezione reciproca: il mondo sente l’uomo come l’uomo sente il mondo.
La conoscenza diventa così un atto d’amore, una reciprocità cosmica. Il germoglio percepisce la luce, la segue, la incarna — come l’anima segue il Bene platonico: è lo stesso gesto universale del desiderio dell’essere verso il proprio compimento.
La coscienza come fioritura dell’essere
Dalla terra al cielo, dal seme al pensiero,
l’essere non smette di fiorire.
Ogni forma è un riflesso della sua luce,
ogni coscienza, un petalo del suo infinito volto.
Nella sintesi umanistica, la natura diventa specchio dello spirito, e lo spirito coscienza della natura.
L’essere, che nel mondo vegetale era ritmo e nel teologico resurrezione, diventa ora conoscenza che si riconosce. L’uomo non è più spettatore del creato, ma organo sensibile della sua armonia: attraverso di lui, il cosmo pensa, ama e si contempla.
Così la “geologia dello spirito” trova un suo equilibrio:
il divenire non è disordine, ma coscienza stratificata del vivente.
Il tempo non è distruzione, ma memoria della creazione in atto.
E l’essere — come germoglio, come stella, come idea — è la vita che si pensa eterna mentre muta
Epilogo – L’essere come coscienza del tutto
1. Il cerchio che si chiude nel pensiero
Il germoglio che nasce, la luce che lo accarezza, l’uomo che lo contempla: tre momenti di un unico atto dell’essere che si riconosce. La vita, lo spirito e la coscienza non sono piani separati, ma diversi gradi di densità dello stesso fluire. Ciò che nella natura è linfa, nell’uomo diventa memoria; ciò che nella materia è forma, nello spirito diventa significato.
Il cerchio dell’essere si chiude quando il mondo pensa se stesso attraverso l’uomo, e l’uomo, comprendendo il mondo, comprende il proprio posto nel suo respiro infinito.
L’auto-coscienza non è quindi privilegio umano, ma tappa del cammino dell’essere verso la consapevolezza di sé. Ogni pensiero è un’eco cosmica, ogni atto di comprensione un risveglio dell’universo dentro di noi.
2. Dalla linfa alla luce: l’unità del reale
Nel seme, nella stella, nel cuore e nel pensiero scorre la stessa energia creatrice. La vita è una sola, ma si manifesta in infiniti modi: il mondo è una mente che si espande nel tempo. La linfa che sale nel tronco, il sangue che pulsa nelle vene, l’intuizione che affiora nella mente — sono variazioni di un’unica vibrazione originaria, l’essere che si dà forma nel tempo per conoscersi.
Il divenire non è più visto come corruzione, ma come rivelazione progressiva del senso. L’eternità non è assenza di tempo, ma presenza continua nel tempo. Ogni momento, ogni vita, ogni pensiero sono onde di una stessa luce che attraversa l’universo, riflettendosi in sé.
3. La coscienza cosmica
Se la natura vive, se lo spirito si eleva e se l’uomo comprende, è perché una sola coscienza percorre tutte le forme. Essa non è una mente separata, ma presenza diffusa, come un respiro che attraversa ogni essere. È la coscienza del tutto, l’essere che si osserva nel proprio divenire.
Quando l’uomo guarda un fiore, è l’universo che, attraverso i suoi occhi, contempla se stesso. Quando pensa, è l’eternità che si interroga sul proprio senso. Quando ama, è la vita che riconosce la propria unità. L’essere è dunque auto-percezione infinita, flusso che si rinnova nello spazio e nel tempo come coscienza che non ha confini.
4. Dalla resurrezione alla consapevolezza
La resurrezione, allora, non è soltanto evento religioso, ma struttura dell’essere: ogni cosa rinasce come comprensione nuova. L’universo si redime conoscendosi, e l’uomo, comprendendolo, diventa parte attiva di questa redenzione. Non c’è salvezza fuori dal mondo, ma nel mondo stesso: nell’atto con cui la vita prende coscienza del proprio mistero.
Nel linguaggio cristiano, ciò che si chiama “spirito” è proprio questa consapevolezza del tutto che si riconosce nel frammento. Nel linguaggio della filosofia naturale, è la continuità della materia. Nel linguaggio dell’arte, è la bellezza che fa trasparire l’invisibile. Tutti questi nomi indicano la stessa realtà: l’essere come totalità che si pensa.
5. La quiete nel movimento
In ogni atomo che vibra, in ogni mente che pensa, si compie la stessa legge: movimento e quiete coincidono. Ciò che appare come mutamento incessante è, nel fondo, una quiete perfetta: la stabilità del ritmo.
Come nel battito del cuore, dove il suono è generato dall’alternarsi tra tensione e riposo, così l’essere trova la sua armonia nel continuo oscillare tra forma e dissoluzione. L’universo respira. E in quel respiro — nascita, crescita, declino, rinascita — tutto ritorna. L’uomo che comprende questo ritmo non teme più il tempo, perché vede nell’istante la totalità. In lui il movimento diventa contemplazione: la vita si fa preghiera silenziosa.
La memoria dell’infinito
L’essere è la luce che attraversa la materia, il tempo che si fa coscienza, la memoria dell’infinito nel cuore del finito. Nel germoglio, nel Cristo, nel pensatore, il medesimo principio agisce: il desiderio dell’eterno di conoscersi nel tempo. La “geologia dello spirito” non è che la storia di questo processo: le ere della materia, della vita e della mente come strati di un’unica coscienza in espansione. Ogni epoca, ogni forma, ogni pensiero sono pietre di una stessa montagna che cresce dal fondo dell’abisso. E nell’abisso — oscuro, fertile, insondabile — riposa la radice dell’essere: il mistero che diviene, si contempla e si ama. Così il cerchio si chiude, e ciò che nasce dalla terra ritorna alla luce per essere, finalmente, se stesso.

