LO SPECCHIO INCRINATO DEL CAVALIERE

di Bruno Venturi.

Cammino in un mondo che mi hanno insegnato a decifrare. Mi è stato detto da Schopenhauer che ogni passo che muovo, ogni volto che incontro, ogni gioia e ogni dolore non sono che la manifestazione di una Volontà cieca e incessante, una rappresentazione proiettata sullo schermo della mia coscienza. Kant, ancora prima, mi aveva avvertito: non illuderti, la cosa vera, l’essenza che sta dietro il velo dei fenomeni, ti sarà per sempre inconoscibile. Vivi tra le quinte, senza mai poter vedere l’attore reale.

Se è così, se la vita è rappresentazione di un inconoscibile, allora non aveva forse ragione Calderón de la Barca? La vida es sueño. La vita è un sogno. E se è un sogno, chi sono io, se non un sognatore?

E qui, inevitabilmente, emerge la sua figura, la più tragica e sublime di tutti i sognatori: Don Chisciotte. Lui, che non si è limitato a subire il sogno, ma ha deciso di arredarlo a suo piacimento con i materiali della sua biblioteca, con la forza della sua fede. Ha vissuto il suo sogno ad occhi aperti, pregno di ideali cavallereschi, amando un mondo parallelo nato dalla sua incrollabile volontà di credere.

A questo punto, la domanda che mi pongo non è più un esercizio filosofico, ma uno specchio puntato contro di me, contro di noi. Se oggi vivo in un mondo le cui uniche verità mi arrivano attraverso narrazioni controllate da altri, e la mia esperienza personale si fa sempre più piccola e irrilevante, non sono forse diventato io stesso Don Chisciotte? Non sono forse anch’io un cavaliere che combatte contro mulini a vento scambiati per giganti, solo che i miei giganti mi vengono suggeriti da uno schermo luminoso e la mia Dulcinea ha il volto di un’aspirazione creata dalla pubblicità?

Sì, per molti versi lo sono. L’analogia mi calza a pennello. Come lui, antepongo la narrazione all’esperienza, l’etichetta alla persona, l’ideale pre-confezionato alla realtà sfumata. E come lui, mi rifugio in una fede incrollabile, protetto dalle mura della mia bolla, dove tutti i miei compagni vedono gli stessi giganti e mi rassicurano che non sono pazzo.

Ma c’è una differenza che mi tormenta e mi rende la condizione ancora più amara. La sua follia era una scelta, un atto di ribellione poetica contro la mediocrità del reale. La mia, temo, è spesso una resa passiva. Il suo ideale, per quanto folle, era nobile. I miei, troppo spesso, sono banali. Soprattutto, lui era solo, con la voce del dubbio di Sancho Panza a tenerlo ancorato, seppur debolmente, alla realtà. Io sono immerso in un’illusione collettiva, dove mille voci mi urlano che il sogno è l’unica realtà che conta.

E qui la riflessione si fa ancora più intima e dolorosa, un nodo che stringe la gola. Per dare senso a tutto questo, dovrei scegliere una verità e affidarmi ad essa con un atto di fede. Ma come posso abbandonarmi senza riserve, come ha fatto lui, se per sentire una verità come propria è necessario un abbandono totale, non un calcolo razionale?

Questo abbandonarsi richiede un coraggio che sento di non avere, un coraggio inconsapevole che Don Chisciotte possedeva. Io, invece, sono fin troppo consapevole. So che il mio “sentire” più profondo, la mia stessa introspezione, è un terreno contaminato, pieno delle scorie di tutte quelle narrazioni da cui vorrei fuggire. Come posso avere fede nel mio navigatore interno, se so che la sua bussola è stata costruita con magneti difettosi?

È questo il paradosso che mi paralizza. Vorrei compiere il salto, ma continuo a esaminare il terreno da cui dovrei spiccarlo, trovandolo friabile, inaffidabile. Forse, la mia unica, autentica avventura da cavaliere moderno non è combattere i giganti là fuori, ma affrontare il sospetto che alberga dentro di me. Forse il mio atto di fede non può più essere un abbandono cieco, ma una scelta consapevole e quotidiana: la scelta di agire nonostante lo specchio sia incrinato, e di credere che anche nell’immagine deforme di un cavaliere stanco e disilluso, si possa ancora trovare la forza per rimettersi in cammino.

29 luglio 2025

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