di Bruno Venturi.
Cosa significa, realmente, leggere Shakespeare? Significa immergersi in un oceano di storie, confrontarsi con un’umanità tanto vasta e contraddittoria da sembrare inesauribile. Tragedie cupe, commedie brillanti, drammi storici, “romances” fiabeschi: il canone shakespeariano è un continente letterario, un mondo così ricco e variegato da apparire, a volte, magnificamente frammentato. Ogni opera sembra un’isola a sé, con i suoi abitanti, le sue leggi e la sua inconfondibile atmosfera.
L’opera che segue nasce da una convinzione tanto semplice quanto audace: che Shakespeare, attraverso le sue trentotto opere, non abbia scritto storie diverse, ma abbia inconsciamente narrato un’unica, monumentale saga: quella della sua epoca. Si propone che, al di là delle singole trame, esista un “filo rosso” che lega ogni verso, un’unica, grande narrazione che riflette le ansie, le trasformazioni e le domande fondamentali di un mondo in bilico tra il Medioevo e l’Età Moderna.
Questo testo è dunque un esperimento di “archeologia letteraria”. È il tentativo di ricomporre i frammenti di questo specchio infranto, di accostare scene e personaggi di opere diverse per rivelare il disegno complessivo. Non è un saggio critico, ma un affresco narrativo, una sintesi corale che cerca di dare voce a questa “macro-opera” nascosta. Per farlo, si è scelta una via radicale: usare le parole stesse del Bardo come mattoni per costruire il racconto. Le sue frasi immortali sono i fili d’oro di un arazzo, mentre la voce di un cronista immaginario, testimone di quel tempo, funge da tessuto connettivo, guidando il lettore attraverso i passaggi e collegando i temi.
Il viaggio è strutturato in cinque grandi atti, ordinati secondo una gerarchia di priorità che va dal generale al particolare, dal collettivo all’individuale. Si parte dal grande affresco Storico, per testimoniare la nascita dell’Inghilterra moderna; si scende poi al livello Politico, per analizzare l’anatomia del potere e della tirannia; ci si immerge nel Popolare, per sondare le tensioni sociali, economiche e razziali; si approda all’Umano, per esplorare la psicologia dell’individuo, l’amore e il dolore; e si conclude, infine, con il Comico, la valvola di sfogo che con la sua risata critica e ricompone il mondo.
L’invito al lettore è dunque quello di accantonare per un momento la visione tradizionale delle singole opere per scoprire la cattedrale nascosta nell’architettura complessiva del canone shakespeariano. È un invito a vedere come Amleto e Re Lear, Shylock e Prospero, Riccardo III e Beatrice non siano solo personaggi isolati, ma voci diverse di un unico, straordinario coro che canta la storia di un’era e, così facendo, canta la storia di tutti noi.
Buona lettura, e benvenuti nel Grande Palcoscenico.
IL GRANDE PALCOSCENICO – UN RACCONTO SHAKESPEARIANO
Ascoltate! Silenzio!
Che il prologo abbia inizio. Vi narrerò di un’epoca di ferro e di meraviglia, non con le mie povere parole, ma con quelle che furono udite per le strade, sussurrate a corte e gridate sui campi di battaglia. Racconterò la storia del nostro tempo come se fosse una delle grandi opere del Bardo, la più grande, quella che le contiene tutte.
Atto Primo: – Il Tramonto di un Mondo
Tutto ebbe inizio con la terra, e con l’idea che avevamo di essa. La nostra Inghilterra. Non era semplicemente un’isola, ma un concetto, una fede. Ci credevamo un regno benedetto, un luogo separato dal resto del mondo non solo dall’acqua, ma da un decreto divino. Nelle parole dei nostri poeti più ispirati, era «quest’isola di sovrani, questo scrigno di maestà, questo altro Eden, quasi un paradiso… questa fortezza costruita dalla Natura per sé stessa contro il contagio e la furia della guerra». Era un giardino che doveva essere protetto, ma che i suoi stessi giardinieri stavano portando alla rovina. John di Gaunt, sul suo letto di morte, vide con terribile chiarezza come questo regno, «questa terra di anime così care, questa cara, cara terra… è ora data in affitto – muoio nel dirlo – come un podere o un misero feudo».
A capo di questo giardino incantato sedeva un re, Riccardo, che incarnava l’essenza stessa del mondo che stava per finire. Egli non era semplicemente un uomo, ma si considerava una duplice creatura: un corpo mortale e un corpo politico, mistico, unto direttamente da Dio. Quando fu sfidato, la sua incredulità era assoluta, la sua fede nella propria sacralità incrollabile. «Non tutto l’oceano potrà lavare il crisma da un re unto», dichiarò con una certezza che oggi ci appare quasi infantile. «Il soffio degli uomini terreni non può deporre il delegato eletto dal Signore». Per lui, e per l’ordine medievale che rappresentava, un re non poteva essere giudicato dai suoi sudditi più di quanto il sole potesse essere giudicato dalle creature che illumina. Era l’ultimo sovrano a credere così pienamente in questa mistica del potere, e la sua caduta fu il cataclisma che inaugurò la nostra modernità.
Mentre Riccardo si struggeva nella contemplazione del suo diritto divino, un uomo nuovo avanzava. Suo cugino, Bolingbroke. Un uomo pragmatico, silenzioso, che non parlava di angeli e crisma, ma capiva il potere dello sguardo, del consenso, della politica terrena. Mentre Riccardo si specchiava nella sua stessa maestà, Bolingbroke «corteggiava il popolo… immergendosi fino al collo nella loro benevolenza con umile e affabile cortesia». Era il politico moderno, che comprende che il potere non discende solo da Dio, ma sale anche dalla terra, dal popolo. Quando Riccardo fu costretto ad abdicare, a consegnare la corona, fu uno spettacolo di una malinconia straziante, il rituale della fine di un’era. «Qui, cugino, afferra la corona», disse, e in quell’atto il mondo si capovolse. «Con le mie stesse lacrime io lavo via il mio crisma… Che cosa devo essere adesso?». Questa era la domanda che la nostra epoca si poneva. Se un re non è più sacro, cosa diventa? E cosa diventa il mondo?
Dalle ceneri di quell’ordine, una nuova Inghilterra sorse, non più definita solo dalla fede, ma dal ferro, dalla volontà e dalla lingua dei suoi nuovi re. La corona, una volta strappata, non fu più un oggetto sacro, ma un premio da conquistare e difendere. Per una generazione, il paese fu tormentato da ribellioni, il fantasma del re deposto aleggiava su ogni battaglia. Ma poi giunse un re che sembrava nato per questo nuovo mondo. Un re che aveva conosciuto le taverne di Eastcheap tanto quanto le stanze del palazzo. Un re che sapeva parlare ai nobili e ai soldati semplici. Enrico V. Di fronte alle mura di Harfleur, egli non parlò di diritto divino, ma di coraggio, di sangue, di nazione. «Ancora una volta alla breccia, amici miei, ancora una volta; o sbarrate il muro con i nostri caduti inglesi!». E la notte prima di Agincourt, camminando in incognito tra i suoi soldati, rifletté non sulla gloria, ma sul fardello del comando: «Quale anima possiedono i re, che i loro sudditi non hanno? …se non la cerimonia, la vana cerimonia?».
Fu lui a dare la risposta alla domanda di Riccardo. Cosa siamo adesso? Siamo un popolo. E lo gridò nelle pianure di Francia, in un discorso che divenne il nostro nuovo credo: «Chi sopravviverà a questo giorno e tornerà a casa, si ergerà in punta di piedi quando questo giorno sarà nominato… Noi pochi, noi felici pochi, noi banda di fratelli!». In quel momento, l’identità inglese non era più legata alla sacralità di un solo uomo, ma alla fratellanza di molti.
E infine, come se la storia stessa volesse mettere un punto a questa grande trasformazione, il sipario calò sulla magia. Su un’isola incantata, lontana da ogni corte e da ogni battaglia, un vecchio duca e mago, Prospero, che aveva piegato la natura e gli spiriti alla sua volontà, decise di rinunciare al suo potere soprannaturale. Dopo aver orchestrato la sua ultima, meravigliosa illusione, si rivolse al pubblico, a noi, e ci svelò la natura effimera di ogni potere, di ogni rappresentazione. «I nostri giochi sono finiti. Questi nostri attori, come vi avevo detto, erano tutti spiriti e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile… Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno». Con un ultimo, solenne gesto, dichiarò: «Questa rozza magia io qui abiuro… e, quando vi avrò chiesto una musica celestiale, cosa che sto facendo ora, per operare il mio fine sui loro sensi, spezzerò la mia verga, la seppellirò a braccia di profondità nella terra, e più in fondo di quanto mai scandaglio abbia toccato, affonderò il mio libro». In quell’atto di rinuncia, il nostro mondo disse addio ai fantasmi, agli incantesimi, alla fede cieca, e si consegnò, nudo e pieno di potenziale, nelle mani dell’uomo. L’era moderna era definitivamente iniziata.
Atto Secondo: – L’Anatomia del Potere
Una volta spezzati gli incantesimi, cosa resta a governare il mondo? La politica. Un’arte brutale, un gioco pericoloso in cui la posta è il regno e la moneta è il sangue. E chiunque abbia mai sfiorato il premio finale, la corona, vi dirà la stessa, amara verità che Re Enrico confidò al suo cuscino nelle notti insonni: «Inquieta giace la testa che porta una corona». È un fardello, un sole che illumina ma che non riscalda, una maschera che divora il volto di chi la indossa. Si diventa non più un uomo, ma un’istituzione, e ogni respiro è un atto di stato.
Eppure, per quel cerchio d’oro, per quella vana cerimonia, quale inferno non si è disposti a scatenare? C’era chi, come il Duca di Gloucester, Riccardo, era nato deforme nel corpo ma con un’ambizione smisurata nell’anima. Egli guardava il mondo e la pace come un affronto personale e decise, con una lucidità agghiacciante, di fare del male il suo bene. «Poiché non posso essere un amante, per intrattenere questi bei giorni di eloquio, ho deciso di dimostrarmi un farabutto e di odiare i piaceri oziosi di questi giorni». E così iniziò a tessere la sua tela, un capolavoro di seduzione, inganno e omicidio. Poteva «sorridere, e uccidere mentre sorrido», poteva piangere con un occhio e tramare con l’altro. Eliminò fratelli, nipoti, alleati, chiunque si frapponesse tra lui e il trono, dimostrando che la via più breve per il potere è spesso la più sanguinosa.
Altri non nacquero con l’animo del farabutto, ma se lo trovarono addosso, come una profezia che si auto-avvera. Un nobile generale scozzese, Macbeth, un uomo valoroso, «il prediletto di Bellona», incontrò sul suo cammino tre streghe, tre sorelle fatali che gli sussurrarono all’orecchio la parola “Re”. Quella parola divenne un seme che, annaffiato dall’ambizione della sua spietata moglie, crebbe fino a soffocare ogni altra cosa. Lady Macbeth lo implorò di spogliarsi della sua natura umana: «Vieni, o spiriti che vegliate sui pensieri di morte, snaturatemi qui, e riempitemi da capo a piedi della più atroce crudeltà!». E Macbeth, pur esitando, pur vedendo fantasmi nell’aria, seguì la via che gli veniva indicata. «Vedo ancora un pugnale, con la lama rivolta alla mia mano? Vieni, lascia che ti afferri… Tu mi guidi sulla via che stavo percorrendo, e uno strumento così sensibile io dovevo usare».
Ma il potere ottenuto con la violenza deve essere mantenuto con la violenza. Il primo delitto ne chiede un secondo, poi un terzo. L’usurpatore non dorme più. «Macbeth ha ucciso il sonno», e con il sonno, la pace. La sua mente divenne una tortura, un banchetto di spettri. «Oh, piena di scorpioni è la mia mente, cara moglie!», confessò, e il regno intero divenne specchio della sua paranoia, un paese «quasi spaventato di conoscersi», dove «i sospiri, i gemiti e le grida che straziano l’aria sono emessi senza essere notati». La tirannia, vedemmo, non è solo un sistema politico, è una malattia dell’anima che contagia un’intera nazione.
Ma la questione del potere non riguarda solo i tiranni. Riguarda anche gli uomini buoni costretti a fare cose terribili. A Roma, in un’altra repubblica che temeva di diventare un regno, un gruppo di uomini onorevoli si trovò di fronte a un dilemma straziante. Vedevano il loro leader, Giulio Cesare, diventare sempre più grande, sempre più simile a un dio, e temevano che la sua ambizione avrebbe distrutto la libertà per cui avevano combattuto. Il più nobile di loro, Bruto, lottò con la sua coscienza. Amava Cesare, ma temeva ciò che sarebbe potuto diventare. Cassio, più astuto, gli sussurrò all’orecchio: «Uomo, in quale spaventoso tempo sei caduto, che puoi citare l’esempio dei tuoi antenati contro te stesso?». E Bruto, tormentato, giunse alla sua tragica conclusione: «Deve essere per la sua morte: e per parte mia, non conosco causa personale per colpirlo, se non il bene comune. Egli vorrebbe essere incoronato: come ciò potrebbe cambiarne la natura, ecco la questione». Così, in nome della libertà, colpirono. E Bruto, con le mani ancora sporche del sangue dell’amico, si presentò al popolo per spiegare l’inspiegabile, per giustificare l’orrore. Le sue parole furono un capolavoro di logica politica, il manifesto di ogni rivoluzionario che crede nel sacrificio di uno per la salvezza di molti: «Se c’è in questa assemblea un caro amico di Cesare, a lui dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore del suo. Se poi quell’amico chiedesse perché Bruto si è levato contro Cesare, questa è la mia risposta: non che io amassi Cesare di meno, ma che amavo Roma di più». Ma le conseguenze furono la guerra civile, la fine della Repubblica e l’ascesa di un nuovo imperatore. La politica, imparava la nostra epoca a sue spese, è un labirinto dove anche le migliori intenzioni possono portare alla rovina. È un gioco di specchi dove un re, un tiranno, un liberatore possono avere, per un terribile istante, lo stesso volto insanguinato.
Atto Terzo: – Il Mercato dell’Umanità
Mentre i grandi giocavano ai loro giochi di troni, scannandosi per un pezzo di stoffa dorata da mettersi in testa, la vita della gente comune, del popolo, scorreva su un altro binario, mossa da forze altrettanto potenti ma più sotterranee. Giù nelle strade affollate, nei mercati puzzolenti di pesce e di spezie, nelle taverne buie e chiassose, un nuovo potere si faceva strada, un dio silenzioso e implacabile che non rispondeva a re o a papi: il denaro. Il vecchio mondo aristocratico, basato sulla terra, sull’onore e sui legami di sangue, si scontrava ogni giorno con la nuova logica fredda e spietata del commercio, del debito, del contratto.
Nessun luogo mise in scena questo conflitto meglio di Venezia, la città-mercato per eccellenza. Lì, un nobile mercante, Antonio, la cui ricchezza era sparsa per i sette mari («le mie imprese non sono affidate a un’unica stiva, né a un unico luogo»), si trovò a dover chiedere un prestito per aiutare il suo amico scapestrato a corteggiare una ricca ereditiera. E per farlo, dovette rivolgersi all’uomo che incarnava tutto ciò che la sua classe disprezzava e temeva: Shylock, l’usuraio. L’ebreo. In quella richiesta di prestito c’era tutta la tensione di un’epoca. C’era l’aristocrazia orgogliosa ma a corto di liquidità costretta a umiliarsi di fronte al capitale. Shylock, che aveva subito per anni gli insulti e gli sputi di Antonio, vide la sua occasione, non solo di profitto, ma di vendetta. Rifiutò l’interesse, il denaro, e propose invece una penale bizzarra e terribile: «Se non mi rimborserete nel tal giorno, nel tal luogo… la penale sarà fissata in una libbra esatta della vostra bella carne, da tagliare e prendere da quale parte del vostro corpo mi piacerà».
Quella clausola, quel “contratto allegro”, era una bomba a orologeria posta nel cuore della società. Quando le navi di Antonio naufragarono e il debito non poté essere pagato, la bomba esplose. Shylock, la cui figlia era fuggita rubandogli i denari, trasformò il suo dolore privato in una furia pubblica e pretese la sua penale. Di fronte al Duca, di fronte a tutta la cristianissima Venezia che lo implorava di mostrare misericordia, egli rimase inflessibile, aggrappato alla legge, l’unica cosa che un reietto possiede. «Ho giurato un giuramento in cielo. Devo avere la mia penale?», chiedeva con una logica glaciale. E quando gli chiesero perché mai volesse della carne umana, che non valeva nulla, la sua risposta fu il grido di ogni uomo oppresso: «Per adescare i pesci. Se non nutrirà nient’altro, nutrirà la mia vendetta».
Ma fu in un altro momento che Shylock smise di essere un semplice antagonista e divenne la coscienza sporca della nostra epoca. Messo alle strette, umiliato, deriso, vomitò addosso ai suoi persecutori la domanda fondamentale, la domanda che smaschera l’ipocrisia di ogni pregiudizio: «Sono un ebreo. Non ha un ebreo gli occhi? Non ha un ebreo le mani, gli organi, le proporzioni, i sensi, gli affetti, le passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie, non è guarito dagli stessi mezzi, non è scaldato e gelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate di un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremo vendicarci?». In quel momento, il popolo di Venezia, e il popolo seduto a teatro, fu costretto a guardarsi allo specchio e a vedere il mostro che aveva creato.
Questa difficoltà di vedere l’umanità nell’«altro» risuonava in ogni angolo del nostro mondo in espansione. Risuonava nelle stanze del potere di quella stessa Venezia, dove un generale moro, Otello, un uomo di «labbra grosse» come lo chiamavano con disprezzo alle sue spalle, era allo stesso tempo l’indispensabile difensore dello stato e un estraneo tollerato a stento. Egli aveva conquistato il cuore della bella Desdemona non con la magia nera, come insinuavano i suoi detrattori, ma con il racconto della sua vita avventurosa, delle sue sofferenze e del suo valore. «Ella mi amò per i pericoli che avevo affrontato, e io l’amai perché ne ebbe pietà», spiegò con nobile semplicità. Ma la sua pelle, il suo essere un outsider, era una crepa nella sua armatura, una ferita che un manipolatore geniale come Iago seppe allargare fino a farla diventare una voragine. Iago, l’uomo che odiava per il puro piacere di odiare, sussurrò nell’orecchio di Otello il veleno della gelosia, sapendo che un uomo insicuro della sua posizione è il terreno più fertile per il sospetto.
E così Otello, il guerriero, il condottiero, colui che aveva «reso un servizio allo stato» e che lo sapeva bene, fu ridotto a un animale accecato dalla rabbia, convinto dell’infedeltà della moglie sulla base di un’inezia, un fazzoletto. La tragedia di Otello non fu solo la tragedia della gelosia, ma la tragedia di un uomo a cui la società non ha mai permesso di dimenticare di essere diverso. E anche sull’orlo della rovina, le sue ultime parole furono un disperato tentativo di controllare la propria storia, di essere ricordato non come il barbaro che i veneziani si aspettavano che fosse, ma come «uno che ha amato non saggiamene, ma troppo bene». Fu il grido del popolo degli stranieri, degli esclusi, un popolo sempre più numeroso in un mondo che si scopriva, con terrore e meraviglia, più grande e vario di quanto avesse mai immaginato.
Atto Quarto: – La Quintessenza di Polvere
Alla fine, spogliata la storia dei suoi re e la società dei suoi mercanti, cosa resta? Resta l’uomo. Solo. Con il suo cuore pulsante, la sua mente febbrile e la sua anima in perenne conflitto. Ogni regno è un cuore, ogni battaglia un dubbio, ogni corona una solitudine. E se c’è stato un tempo e un luogo in cui questa condizione umana è stata messa a nudo con più spietata lucidità, quel luogo è stata la corte di Elsinore, in Danimarca, e quel tempo è stato quello vissuto da un giovane principe di nome Amleto.
Egli era l’uomo nuovo per eccellenza, lo studente di Wittenberg tornato a casa per trovare un mondo capovolto: un padre morto, una madre risposata in fretta e furia con lo zio assassino. Il suo dolore era «qualcosa che supera l’apparenza; perché queste sono soltanto azioni che un uomo può recitare. Ma io ho dentro di me ciò che non si vede». E questo “dentro” era un abisso. Incaricato dal fantasma di suo padre di compiere la vendetta, Amleto non agì. Pensò. E pensando, aprì le porte a ogni dubbio, a ogni interrogativo sulla natura della nostra esistenza. Di fronte alla possibilità della morte, si pose la domanda che da allora è diventata la nostra: «Essere, o non essere: questo è il problema». Era più nobile sopportare «le fiondate e i dardi dell’oltraggiosa fortuna» o «prender l’armi contro un mare di triboli e, combattendo, porre loro fine?». La paura di ciò che viene dopo la morte, «il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno», ci rende tutti codardi, e così il nostro agire si paralizza.
Amleto guardava l’umanità con la lucidità disincantata del genio. Poteva vedere la grandezza e la miseria nella stessa creatura. «Che capolavoro è l’uomo!», esclamava con una sorta di amara meraviglia. «Nobile nella ragione, infinito nelle facoltà, nella forma e nel movimento così preciso e ammirevole, nell’azione così simile a un angelo, nell’intelletto così simile a un dio! La bellezza del mondo, il modello degli animali! E tuttavia, per me, cos’è questa quintessenza di polvere?». Questa era la grande scoperta del nostro tempo: siamo angeli e polvere, dèi e animali, e viviamo costantemente in questa lacerante contraddizione. La nostra mente, capace di concepire l’infinito, è intrappolata in un guscio di noce. E per Amleto, la Danimarca intera era diventata una prigione.
In questo mondo di uomini tormentati dalla loro stessa intelligenza, la voce delle donne spesso si levava non in un discorso filosofico, ma in un lamento del cuore. Ofelia, innamorata di Amleto, divenne la vittima innocente della sua follia, reale o simulata che fosse. Respinta brutalmente («Vattene in un convento! Perché vorresti essere una procreatrice di peccatori?»), e distrutta dalla morte del padre per mano dell’amato, la sua mente si spezzò. E il suo canto delirante, fatto di fiori e di allusioni, fu più eloquente di ogni soliloquio sulla fragilità della ragione e sull’insostenibile crudeltà del mondo.
Ma l’amore, prima di diventare tragedia, è una forza che cerca di sfidare il mondo. A Verona, due giovani appartenenti a famiglie nemiche si incontrarono e, in un istante, l’odio di generazioni divenne insignificante. Giulietta, affacciata al suo balcone in una notte stellata, non vide un Montecchi, vide solo il suo Romeo. E la sua domanda era la più rivoluzionaria di tutte: «O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome! O, se non vuoi, giura soltanto di essere il mio amore, e io non sarò più una Capuleti». Era il grido di ogni individuo che chiede il diritto di definirsi non attraverso la storia, la famiglia o la società, ma attraverso i propri sentimenti. Era la richiesta di un mondo in cui «ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo». Ma il mondo, purtroppo, non era ancora pronto per una simile libertà. E il loro amore, così assoluto, poté compiersi solo nella morte, l’unico luogo dove i nomi non contano più.
E quando l’amore, la ragione e la famiglia crollano, cosa resta all’uomo? Resta il dolore nella sua forma più pura, più animale. Resta un vecchio re, Lear, che in un atto di folle vanità aveva diviso il suo regno e bandito l’unica figlia che lo amava veramente. Tradito, cacciato nella tempesta, spogliato di tutto – del regno, dei cavalieri, della dignità, della ragione stessa – Lear divenne un «povero, nudo, bipede», l’essenza stessa dell’umanità sofferente. E fu proprio nella follia che trovò la più terribile lucidità, capendo che «attraverso i vestiti stracciati i vizi minori appaiono; le vesti e le pellicce li nascondono tutti». Ma la sua epifania non portò alla salvezza. Portò alla perdita finale. Quando si ritrovò con il corpo senza vita della sua amata Cordelia tra le braccia, il suo dolore andò oltre la politica, oltre la filosofia. Fu un urlo primordiale contro l’ingiustizia dell’universo, un lamento che risuona ancora oggi nelle nostre orecchie: «No, no, no, niente vita? Come può un cane, un cavallo, un topo avere vita, e tu nemmeno un soffio? Tu non tornerai più, mai, mai, mai, mai, mai». In quel “mai” ripetuto cinque volte, c’era tutta la nostra fragile e disperata condizione umana.
Atto Quinto: – La Risata che Salva
Ma credete che un mondo così, appesantito da corone insanguinate, contratti di carne, teschi e amanti sfortunati, potesse sopravvivere senza la risata? Senza la follia che svela la saggezza? Senza la leggerezza che permette di prendere fiato prima del prossimo, inevitabile dolore? Certo che no. Sarebbe crollato sotto il suo stesso peso. Per fortuna, c’era la commedia. Era la nostra valvola di sfogo, il nostro carnevale, il luogo dove le regole si potevano infrangere, dove i servi erano più furbi dei padroni e le donne potevano diventare uomini per dire la verità.
La commedia ci ha insegnato, prima di tutto, il valore del vero ingegno. Non la pedanteria noiosa dei sapientoni, ma la saggezza arguta dei buffoni. Un giullare di nome Feste, in Illiria, lo disse meglio di chiunque altro: «Meglio un buffone arguto che uno sciocco pretenzioso». Il suo mestiere, spiegò, non era semplice follia, ma richiedeva un’osservazione acuta del mondo, «deve osservare l’umore delle persone, la qualità delle persone e il momento». Il buffone era il nostro specchio deformante, colui che poteva dire al re che era un asino e non solo farla franca, ma essere applaudito per questo. Sir John Falstaff, quel cavaliere grasso e vanaglorioso, quel «vecchio barile di vin di Spagna», era il re di questo mondo alla rovescia. La sua logica era impeccabile nella sua totale mancanza di onore. Sul campo di battaglia, si chiese: «Cos’è l’onore? Una parola. Cos’è quella parola, onore? Aria… Non ne voglio sapere». E con una risata, smontava secoli di retorica aristocratica.
Ma l’arguzia più affilata, la critica sociale più tagliente, spesso veniva dalle donne. Donne brillanti, intrappolate in una società che non permetteva loro di usare la loro intelligenza se non nel salotto o nella camera da letto. E allora, si creavano uno spazio con la lingua. A Messina, Beatrice conduceva una «guerra allegra» contro Benedetto, e le sue battute erano frecce. Giurò: «Preferirei sentire il mio cane abbaiare a un corvo, piuttosto che un uomo giurare che mi ama». La sua arguzia era una corazza per proteggere un cuore vulnerabile, un modo per rivendicare la propria indipendenza in un mondo dove il matrimonio era l’unico destino possibile per una donna. E quando finalmente si arrese all’amore, lo fece alle sue condizioni, con la stessa ironia: «Non ti amo più di quanto la ragione non voglia».
Per ottenere una libertà ancora maggiore, le nostre eroine più audaci ricorsero all’inganno più radicale: il travestimento. Viola, naufraga in Illiria, si trasformò nel giovane Cesario e scoprì che, in abiti maschili, poteva muoversi nel mondo con una libertà impensabile. Poteva diventare l’amica e la confidente del Duca che amava, e l’oggetto del desiderio della donna che il suo Duca amava. Che confusione! Ma in questa confusione, si rivelavano le verità più profonde. Viola, nei panni di Cesario, poteva descrivere il suo stesso amore represso con una poesia struggente, parlando di una sua “sorella” immaginaria che «non rivelò mai il suo amore, ma lasciò che il riserbo, come un verme nel bocciolo, si nutrisse della sua rosea guancia. Morì di malinconia». E Rosalinda, nella Foresta di Arden, travestita da Ganimede, poté addirittura mettere alla prova e istruire il suo amato Orlando sull’arte dell’amore, diventando il suo maestro prima di rivelarsi come sua sposa. Il travestimento era una maschera che, paradossalmente, permetteva di essere più onesti.
E così, attraverso l’equivoco, lo scambio di persona (portato all’estremo nella farsa degli gemelli scambiati di Efeso), il gioco di parole e la follia dell’innamoramento, il mondo della commedia danzava sull’orlo del caos. Ma a differenza della tragedia, non ci cadeva mai dentro. All’ultimo atto, le maschere cadevano, le identità venivano ristabilite, i fratelli perduti si ritrovavano, e il disordine si ricomponeva nell’armonia di matrimoni multipli. La risata aveva purgato le nostre ansie, la confusione aveva rivelato la verità, e la vita poteva ricominciare, più saggia e più allegra di prima.
Perché alla fine, la nostra epoca, nella sua infinita complessità, ha capito la sua vera natura, la lezione finale che il Bardo ci ha lasciato, la chiave che tiene insieme la tragedia più cupa e la commedia più sfrenata. E la lezione è questa, semplice e profonda, sussurrata da un nobile malinconico nella foresta, ma destinata a diventare l’epitaffio di un’intera era: «Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori. Hanno le loro uscite e le loro entrate, e ognuno, nel suo tempo, recita molte parti».
Abbiamo recitato la nostra. Per ora.
Sipario.

