PRODROMI DELLA LOTTA PER LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E PER LA TOLLERANZA

di Bruno Venturi.

Le vicende di Giovanni Calvino, Michele Serveto e Sebastien Castellio si intrecciano in un periodo cruciale della Riforma protestante, evidenziando le tensioni tra l’affermazione di una nuova ortodossia religiosa e la nascente aspirazione alla libertà di coscienza.

1 – Giovanni Calvino: La Riforma a Ginevra e l’Ascesa della Teocrazia

Nel 1536, la città di Ginevra abbracciò la religione riformata per referendum, dichiarando di voler vivere unicamente “secondo l’Evangelo e la parola di Dio”. Questo trionfo protestante fu in gran parte opera del predicatore Guillaume Farel, descritto come un uomo “radicale e terrorista,” dal temperamento “potente e senza scrupoli,” che con “forza bruta” sradicò la fede cattolica dalla città, portando alla fuga di sacerdoti, monaci e suore e alla “depurazione” delle chiese dalle icone. Tuttavia, Farel si rivelò “sterile” nel costruire un nuovo ordine, capace di rovesciare il vecchio ma non di crearne uno nuovo, trovandosi in una crisi comune a molti capi della Riforma che, pur avendo abbattuto l’autorità papale, faticavano a unificare il protestantesimo in una “Ecclesia Universalis”.

È in questo contesto di incertezza che Farel, per caso, incontrò il giovane studioso Giovanni Calvino. Nonostante fosse più giovane di vent’anni, il ventiseienne Calvino godeva già di “un’autorità indiscussa” grazie alla sua opera Institutio Christianae Religionis, pubblicata a Basilea nel 1536. Questo libro, destinato a diventare il “manuale” del protestantesimo, fu un tentativo geniale di cristallizzare la nuova dottrina evangelica per arginare la frammentazione della Riforma in numerose sette, trasformando l’arbitrio in dogma e la libertà in una “rigida norma spirituale”.

Farel si assoggettò completamente a Calvino, riconoscendolo come sua guida e chiedendogli di prendere la “tutela spirituale di Ginevra”. Calvino inizialmente esitò, ma una veemente minaccia di Farel, che invocò la maledizione di Dio, lo convinse ad accettare l’incarico. Il 5 settembre 1536, il Consiglio di Ginevra nominò Calvino «lecteur de la Sainte Escripture», ignaro che l’immigrato francese intendesse diventare il «padrone della città e dello Stato», trasformando una «repubblica democratica in una teocrazia dittatoriale».

Calvino, dotato di uno «spirito naturalmente dedito all’ordine», presentò un catechismo di 21 articoli, che non doveva essere solo una norma per i credenti, ma una «legge per lo Stato». Pretendeva «obbedienza incondizionata» e obbligò i cittadini a riconoscere pubblicamente e giurare fedeltà a questo testo, sotto pena di esilio immediato. Questo segnò la fine della «libertà del cristiano» postulata da Lutero a Ginevra, soffocando ogni forma di libertà. Calvino ridusse la magistratura a mero «organo esecutivo» dei suoi ordini, introducendo l’arma della scomunica. Negare la «Cena del Signore» a un cittadino significava renderlo socialmente «un uomo finito», minacciando la sua esistenza civile e concentrando nelle mani di Calvino un potere che nessun vescovo aveva mai avuto.

La reazione dei ginevrini non tardò. I cittadini repubblicani si ribellarono, rifiutando di giurare e protestando contro il trattamento «come ladroni». Le elezioni municipali del 1538 dimostrarono la crescente opposizione, e la frettolosità di Calvino nel voler imporre la sua visione portò al suo esilio, poiché la sua «inaffondabile fiducia in se stesso» e la sua incapacità di tollerare il contraddittorio gli alienarono molte simpatie.

Tuttavia, il suo esilio non fu la fine. Gli errori dei suoi successori, la paralisi della Riforma a Ginevra e la ritorno alla carica della Chiesa cattolica portarono i cittadini, anche i suoi ex avversari, a richiamarlo. Calvino, con una «strategia dilatoria», si fece desiderare, rifiutando inizialmente di tornare. Solo dopo che il Consiglio si umiliò, supplicandolo e giurando di osservare i suoi dettami, Calvino accettò di riassumere il suo incarico con «nuovi poteri» il 13 settembre 1541, permettendogli di plasmare Ginevra a suo piacimento.

Sotto Calvino, Ginevra divenne il prototipo di una «teocrazia», un esperimento di «livellamento di un intero popolo» in nome di un’idea. Calvino era convinto che il bene dell’umanità derivasse dall’annullamento di ogni «libertà individuale», interpretando il Vangelo come unica fonte della volontà divina, sulla quale non ammetteva «alcuna ulteriore interpretazione e discussione». La disciplina e la «spietata severità» divennero le caratteristiche della dottrina calvinista, che identificava il piacere sereno con il «peccato» ed escludeva dalla Chiesa ogni elemento sensuale o artistico, come musica, immagini e festività (salvo Natale e Pasqua), in favore di un Dio «temuto» anziché amato.

Per imporre questa «draconiana soppressione dei diritti soggettivi», Calvino istituì il Concistoro, un «ispettorato di costume» che controllava ogni aspetto della vita cittadina, inclusi i pensieri e le intenzioni. Le proibizioni erano migliaia, limitando i cittadini a «nascere e morire, lavorare, obbedire, andare in chiesa». Il segreto di questa dittatura era il «terrore»: solo nei primi cinque anni, a Ginevra, 13 persone furono impiccate, 10 decapitate, 53 arse vive e 76 esiliate. Le prigioni erano sovraffollate e le torture crudeli, con Calvino che non solo non intervenne, ma suggerì l’uso della «bruciatura della pianta dei piedi». Questo terrore sistematico e l’angoscia collettiva finirono per paralizzare ogni volontà di auto-affermazione, rendendo Ginevra «timorata di Dio, sobria e sottomessa».

2 – Michele Serveto: L’Eretico e la Ricerca della Verità

Michele Serveto, nato a Villanueva in Spagna nel 1511, crebbe in un periodo di relativa tolleranza in Spagna, segnato dal movimento dell’»evangelismo» e dall’influenza di Erasmo da Rotterdam. La Spagna, tuttavia, aveva un’eredità di intolleranza, specialmente verso Mori ed Ebrei, forzati alla conversione o all’esilio, e spesso sospettati di recidività. La dottrina della Trinità era un punto di «orgoglio nazionale» per gli Spagnoli, spesso accusati all’estero di essere «marranos» e di non crederci.

Serveto, studiando il Vangelo, scoprì con stupore che l’espressione “Trinità” mancava completamente nelle Scritture, così come i concetti di “unica sostanza e tre persone”. Si interrogò sulla legittimità di imporre una dottrina non biblica a Mori ed Ebrei, e sulla giustezza di condannare a morte chi non la accettava. Le sue ricerche lo portarono a esaminare la genesi della dottrina della Trinità, formulata a Nicea (325 d.C.) e Calcedonia (451 d.C.), e le diverse scuole di pensiero medievali (agostiniana, riccardiana e nominalista/ockhamista). Serveto concluse che la dottrina poteva essere difesa solo con un “sottile sofisma” e che la sua adozione a Nicea segnò il “crollo della Chiesa”.

Quando lasciò il servizio di Juan de Quintana, confessore dell’imperatore Carlo V nel 1531, pubblicò De Trinitati erroribus, criticando la tradizione. A Basilea, dove sperava di incontrare Erasmo, Serveto studiò i Padri della Chiesa del II secolo e sviluppò una sua concezione enfatizzando l’unione tra il divino e l’umano. Per Serveto, la Parola era eterna, ma il Figlio di Dio no; la Trinità era solo una successione di “dispensazioni o amministrazioni” di Dio stesso.

Dopo essere stato bandito da Basilea e Strasburgo a causa delle sue idee “blasfeme,” Serveto si trasferì in Francia, usando il nome Michel de Villeneuve. Lavorò come correttore di bozze ed editore, studiò medicina a Parigi e si dedicò all’astrologia, pubblicando Apologetica disceptatio pro astrologia. La sua scoperta più significativa fu la circolazione polmonare del sangue, frutto della sua visione olistica che connetteva teologia, filosofia, fisiologia e psicologia, vedendo l’anima nel sangue e collegando la respirazione all’inspirazione divina.

Nel 1540, Serveto si stabilì a Vienne, godendo della protezione dell’arcivescovo Pierre Palmier. Qui completò la sua opera più importante, Christianismi restitutio (“Ripristino del Cristianesimo”), che integrava il neoplatonismo e l’anabattismo. Serveto si manifestò come un emanazionista, credendo che Dio “essenzializza le essenze” e riempie tutte le cose con la sua sostanza, inclusa l’umanità. Sostenendo che l’uomo è libero e capace di cooperare con Dio nella salvezza, e che il battesimo dovrebbe essere impartito solo agli adulti (intorno ai trent’anni, come Cristo), Serveto si mise in rotta di collisione non solo con i cattolici ma anche con tutti i principali riformatori.

Serveto cercò di stabilire un contatto con Calvino, ritenendolo disposto ad ascoltarlo, ma sottovalutò la profondità delle loro differenze dottrinali. Per Calvino, l’uomo era “totalmente indegno” di unione con Dio, e la salvezza dipendeva dalla predestinazione. La concezione di Serveto della deificazione dell’uomo e il rifiuto del battesimo infantile erano anatema per Calvino. La corrispondenza, mediata dall’editore Jean Frellon, si trasformò in uno scontro, con Calvino che minacciò apertamente Serveto: “se mai dovesse venire [a Ginevra] e se la mia autorità vale qualcosa, non gli consentirò di ripartire vivo”.

La pubblicazione anonima di Christianismi restitutio a Lione portò alla denuncia di Serveto all’Inquisizione cattolica. Le prove schiaccianti contro di lui furono fornite, per “interposta persona,” da Calvino stesso. Serveto fu arrestato il 5 aprile 1553, interrogato, ma riuscì a fuggire pochi giorni dopo. Fu condannato solo in effigie e i suoi libri distrutti.

Durante la fuga, imprudentemente, Serveto decise di passare per Ginevra sulla strada per l’Italia, nonostante sapesse di essere considerato eretico da Calvino. Fu riconosciuto e arrestato il 13 agosto. Il processo si svolse in cinque fasi, con accuse che includevano il panteismo, la negazione della Trinità e del battesimo infantile. Calvino lo accusò di “deliri irriverenti” e di affermare che tutte le creature fossero “della stessa essenza di Dio,” a cui Serveto rispose che ci muoviamo ed esistiamo in Dio. Serveto negò di aver negato l’immortalità dell’anima, ma ammise le sue critiche al battesimo infantile.

Il pubblico accusatore, Rigot, giustificò la pena di morte per eresia citando esempi da Costantino a Giustiniano, cercando di collegare Serveto agli Ebrei e ai Turchi e insinuando che le sue dottrine sovvertivano l’ordine sociale. Il dibattito scritto tra Calvino e Serveto fu aspro, con Calvino che accusò Serveto di degradare la divinità attraverso la “deificazione dell’uomo”. Nonostante le dure condizioni di prigionia e le sue richieste di un difensore e di un appello, Serveto ricevette solo alcuni vestiti.

Le città svizzere, consultate, diedero risposte unanimi a favore di “estremi rimedi,” sebbene ci fosse del dissenso privato, come quello del rifugiato italiano Vergerio, che pur detestando Serveto, si oppose all’uso di “fuoco e spada” contro gli eretici. Il 27 ottobre, Serveto fu condannato a morte solo per la sua posizione sulla Trinità e il battesimo dei neonati, senza accuse politiche. La sua richiesta di essere ucciso con la spada per timore di ritrattare per la paura del fuoco fu negata. Serveto morì sul rogo, gridando: “Oh Gesù, figlio dell’Eterno Dio, abbi pietà di me!”. La sua esecuzione sollevò la questione della libertà religiosa per le chiese evangeliche.

3 – Sebastien Castellio: La Voce della Coscienza e la Difesa della Tolleranza

Sebastien Castellio, un umanista e studioso di lingue nato nel 1515, fu inizialmente un ammiratore di Calvino e fu nominato docente a Ginevra. Fu profondamente colpito dalla crudeltà dell’Inquisizione dopo aver assistito a un rogo di eretici a Lione, decise perciò di dedicare la sua vita alla lotta per la “libertà” religiosa. A Ginevra, il suo metodo pedagogico per l’insegnamento del latino, espresso nei Dialoghi Sacri, gli procurò successo. La sua ambizione era di tradurre l’intera Bibbia in latino e poi in francese, ma Calvino si oppose, volendo preservare il monopolio della sua versione. Questo fu il primo segno di attrito, con Calvino che vide in Castellio uno spirito indipendente non disposto a sottomettersi.

La rottura si approfondì quando Castellio chiese di diventare predicatore. Nonostante l’approvazione della magistratura, Calvino si oppose, adducendo “motivi gravi” che in realtà erano solo “due questioni bibliche del tutto secondarie” su cui Castellio non concordava pienamente con lui. Calvino non tollerava “la minima divergenza”. Castellio si rese conto che a Ginevra non c’era posto per uno spirito libero come il suo e si dimise, ottenendo da Calvino una dichiarazione scritta che attestasse la sua condotta “senza alcuna macchia”. Nonostante Calvino simulasse preoccupazione per la sua sistemazione, Castellio visse in estrema povertà, lavorando duramente e sacrificando il sonno per la sua traduzione della Bibbia.

Il “duello” tra Calvino e Castellio si accese con l’esecuzione di Serveto. Il rogo di Serveto fu percepito come il “primo assassinio religioso nel campo della Riforma” e una negazione della sua “concezione originaria” di libertà, dato che anche Lutero aveva condannato la violenza contro gli eretici. Solo Calvino compì il “passo di storica portata” di condannare a morte un uomo per una “personale interpretazione in materia di fede,” basandosi sulla sua interpretazione dottrinale e non sulla negazione di Dio.

L’esecuzione suscitò scandalo in tutta Europa. Jean Bodin, un importante giurista, dichiarò che Calvino non aveva il diritto di procedere in una controversia religiosa. Calvino, messo sulla difensiva, pubblicò la sua apologia, Difesa della vera fede e della Trinità contro gli spaventosi errori di Serveto, un’opera debole e “scritta con le mani ancora sporche del sangue di Serveto,” in cui cercava di scaricare la responsabilità sul magistrato e giustificare l’uccisione per “missione superiore”. Proclamò che l’annientamento di chi ha un’opinione diversa fosse un “sacro dovere” e usò il terrore per zittire i potenziali oppositori, minacciandoli della stessa fine di Serveto.

Questa apologia sanguinaria provocò indignazione tra i protestanti più sinceri. La voce di Castellio si levò “improvvisamente” e “senza esitare”. Castellio, per natura mite e conciliante, spiritualmente affine a Erasmo, non era un combattente nato, ma la violazione della libertà di coscienza lo spinse a intervenire. Sotto il falso nome di “Martinus Bellius” e con un luogo di stampa fittizio (Magdeburgo anziché Basilea), pubblicò De haereticis, an sint persequendi, un’opera camuffata da antologia di citazioni ma che in realtà argomentava contro la pena di morte per eresia.

Il punto centrale di Castellio era la domanda: “Chi è propriamente un eretico?” Sosteneva che il termine fosse usato ingiustamente per eliminare i nemici, e che la Bibbia non conoscesse il concetto di eretico, ma solo di “negatore di Dio”. Le “verità religiose sono misteriose,” e l’interpretazione delle Scritture non è mai univoca; pertanto, i cristiani non dovrebbero condannarsi a vicenda. Affermò che “uccidere un uomo non significa difendere una dottrina, significa soltanto uccidere un uomo”.

Calvino reagì con rabbia, cercando di censurare De haereticis e delegando al suo successore, Théodore de Bèze, la stesura di una risposta. De Bèze, ancora più intransigente, definì la libertà di coscienza una “dottrina diabolica” e invocò la continuazione dei massacri, giustificando le torture e postulando che ogni sostenitore della tolleranza dovesse essere trattato come un eretico.

Castellio rispose con il suo “J’accuse”, Contra libellum Calvini, un’accusa morale contro l'”omicidio religioso” di Serveto. Rivelò le accuse false di Calvino (come quella del furto di legname) e la sua ipocrisia, ribadendo che la verità non si impone con la forza. Nonostante la sua eloquente difesa, Contra libellum Calvini non fu stampato a causa della censura di Calvino, che usò la sua influenza politica su Basilea.

Nonostante i continui attacchi e tentativi di screditarlo, Castellio continuò a sostenere le sue tesi umanitarie e la tolleranza, anche a costo della sua vita. Il suo appello alla riconciliazione tra cattolici e protestanti in Conseil à la France désolée fu interpretato a Ginevra come un “supremo delitto”. De Bèze lo accusò pubblicamente come eretico e difensore di eretici, cercando di avviare un processo contro di lui. Il tragico destino del suo compagno Bernardino Ochino, costretto all’esilio e morto in miseria, fu un presagio della minaccia che incombeva su Castellio.

Tuttavia, la morte risparmiò a Castellio il processo e un destino simile a quello di Serveto. Morì il 29 dicembre 1563, a 48 anni, esausto per il lavoro e le preoccupazioni. Solo dopo la sua morte i suoi concittadini riconobbero la sua “apostolica povertà” e il suo nobile spirito, e il suo funerale divenne una “marcia trionfale della moralità”. Nonostante ciò a Ginevra si giubilò per la sua scomparsa, comunque l’idea di tolleranza per cui Castellio aveva vissuto e lottato tutta la vita si ergeva al di sopra di ogni “forza contingente e terrena”.

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