di Etienne Gilson.
- Nel 529 d.C., l’imperatore Giustiniano decretava la chiusura delle scuole filosofiche di Atene. Poteva sembrare, quindi, che l’Occidente si rifiutasse definitivamente all’influenza della speculazione ellenica; ma il pensiero ellenico aveva incominciato ben prima di questa data a guadagnare spazio verso l’Oriente: già esso aveva iniziato il movimento circolare che doveva riportare nell’Occidente del sec.XIII il pensiero di Aristotele e del neo-platonismo per il tramite dei filosofi siriani, arabi ed ebrei.
- La speculazione ellenica, in effetti, beneficiò della diffusione della religione cristiana in Mesopotamia e in Siria. La necessità in cui si trovavano i Siriani convertiti al cristianesimo di imparare il greco per leggere l’Antico e il Nuovo Testamento e gli scritti dei padri della Chiesa li aveva messi in grado di iniziarli alla scienza e alla filosofia greca. Dunque si insegnava la filosofia, la matematica e la medicina là dove si insegnava la teologia e si traducevano le opere classiche dal greco in siriaco. Quando la scuola di Edessa fu chiusa, nel 489, i suoi professori passarono in Persia.
- Nel momento in cui l’islamismo sostituisce il cristianesimo in Oriente, il ruolo dei persiani come agenti di trasmissione della filosofia ellenica appare con perfetta chiarezza. È così che Euclide, Archimede, Tolomeo, Ippocrate, Galeno, Aristotele, Teofrasto e Alessandro di afrodisia vengono tradotti, sia direttamente dal greco in arabo, sia indirettamente dal greco in siriaco e poi dal siriaco in arabo.
- Tra gli elementi di cui si componeva questa tradizione, evidentemente le opere di Aristotele costituivano la parte più importante e più feconda. Ma, nel catalogo delle opere di Aristotele che i siriani trasmettevano agli arabi, si erano introdotti degli scritti di ispirazione assai differente, che il filosofo greco avrebbe certamente disconosciuto e che tuttavia esercitarono un’influenza decisiva grazie all’autorità di cui li copriva il suo nome; essi erano due trattati essenzialmente neo-platonici tratti dalle Enneadi di Plotino e dall’Elementatio theologica di Proclo.
- La più importante conseguenza di questo fatto fu che, nell’insieme, il pensiero arabo pose sotto l’autorità di Aristotele una sintesi dell’aristotelismo e del neo-platonismo sulla quale dovette in seguito esercitarsi necessariamente la riflessione e la critica dei teologi del sec.XIII.
- Il bisogno di capirsi e di interpretarsi razionalmente, inerente a ogni tradizione religiosa, generò, a contatto con le opere greche, una speculazione filosofico-religiosa musulmana, come ne generò una occidentale. Nel secondo quarto del sec.IX si formò una setta religiosa col nome di Kalãm, o «parola». Essi ammettevano che la rivelazione e la ragione non dovrebbero contraddirsi, e anche che tutto ciò che è rivelato deve poter essere conosciuto dalla sola ragione, poiché una religione naturale ha preceduto la religione rivelata, ed essa è stata sufficiente agli uomini per un lungo periodo.
- I fautori di Kalãm si distaccavano dall’ortodossia musulmana, in quanto confondevano gli attributi divini, dei quali il Corano sembra ammettere la distinzione, con l’unità assoluta dell’essenza divina, ma soprattutto in quanto affermavano la libertà umana, insegnavano che la giustizia di Dio è regola rigorosa della sua azione riguardo agli uomini e rinnegavano la rigorosa predestinazione ammessa dai veri credenti. Il Kalãm non si identificherebbe dunque più con la teologia musulmana; esso rappresenterebbe piuttosto l’orientamento di questa teologia verso un razionalismo fortemente sospetto di eterodossia.
- Infine, pressoché completamente liberi da preoccupazioni teologiche, e talvolta anche in reazione contro di esse, i filosofi arabi continuavano la speculazione greca e costruivano delle dottrine di cui l’Occidente cristiano doveva subire profondamente l’influenza.
Al-Kindī
- Il primo nome famoso della filosofia musulmana è quello di al-Kindī (m.873). Egli era contemporaneo di Giovanni Scoto Eriugena. Al-Kindī è innanzi tutto un enciclopedista, i cui scritti coprono quasi tutti i campi del sapere greco di cui però il Medioevo ha conosciuto solo una piccola parte. I traduttori latini ebbero un particolare interesse per la sua opera sull’intelletto, in quanto essi, presi dal problema degli universali, che sorge ai confini della logica e della metafisica, erano particolarmente interessati a quei trattati, che trattando della natura e delle operazioni dell’intelletto, davano loro la possibilità di chiarirlo meglio.
- Il Liber de Intellectu è un eccellente modello di questo genere di scritti. Al-Kindī distingue l’intelletto che è sempre in atto, l’intelletto in potenza, l’intelletto che passa dalla potenza all’atto e l’intelletto che si chiama dimostrativo. Egli considera l’intelletto sempre in atto come un’intelligenza, cioè come una sostanza spirituale distinta dall’anima, superiore ad essa, e che su di essa agisce per renderla da intelligente in potenza a intelligente in atto.
- Il pensiero arabo ha quindi ammesso, fin dalle origini, sotto l’influenza di Alessandro di Afrodisia, che non c’era che un’intelligenza agente per tutti gli uomini, ciascun individuo possedendo in proprio un intelletto in potenza che, sotto l’azione di questa intelligenza agente separata, passa dalla potenza all’atto.
Al-Fārābī
- Il secondo grande nome è al-Fārābī (m.950) che insegnò e studiò a Bagdad. Una delle sue opere più significative è la sua Concordanza di Platone e Aristotele: gli arabi, convinti che il pensiero di Aristotele fosse d’accordo con quello di Platone, fecero grandi sforzi per conciliarli. D’altra parte, ricordiamo che gli arabi, come gli occidentali, avevano una religione di cui dovevano tener conto e che non fu priva di influenza nella loro dottrina.
- Come quello dell’Antico Testamento, il Dio del Corano è uno, eterno, onnipotente e creatore di tutte le cose; i filosofi arabi hanno incontrato dunque, prima dei cristiani, il problema di conciliare una concezione greca dell’essere e del mondo con la nozione biblica di creazione.
- Considerato in generale, il problema riveste l’aspetto di un conflitto tra il diritto dell’universo a porsi come una realtà intellegibile, sussistente e per se stessa sufficiente, e il diritto di un Dio onnipotente a rivendicare per sé ogni realtà ed efficacia.
- Al-Fārābī era un grande logico, ma anche uno spirito profondamente religioso, ed è almeno probabile che questo stesso sentimento gli abbia ispirato la dottrina fondamentale della distinzione di essenza ed esistenza negli esseri creati. È stata una data storica nella metafisica l’avvento di questa concezione che adattava la schiacciante ricchezza delle idee filosofiche greche al sentimento nostalgico di Dio degli orientali e alla sua personale esperienza mistica. Egli stesso era un mistico, un Sufi: la sua nozione della contingenza era una pietra angolare dell’evoluzione filosofica: essenza ed esistenza sono distinte, cioè gli esseri naturali sono contingenti; essi non sono essenzialmente legati all’esistenza, essi possono, di conseguenza, possederla, o esserne privati e perderla. Così dotati dell’esistenza – e allora essi formano il mondo reale che ci circonda – debbono averla ricevuta da qualche causa, alla quale l’esistenza appartiene essenzialmente e che, perciò stesso, non può perderla, cioè da Dio.
- La nuova posizione dottrinale comporta tre momenti principali: un’analisi dialettica della nozione di essenza, che mostra come la nozione di esistenza non vii sia inclusa; l’affermazione che, poiché è così l’essenza non include l’esistenza attuale; l’affermazione che l’esistenza è un accidente dell’essenza. È importante osservare che il latente platonismo delle essenze domina questa posizione. Non si dubita un istante che l’esistenza sia un predicato dell’essenza, ed è perché essa non vi si trova essenzialmente inclusa, che se ne fa un accidente. Per includere l’essenza sotto l’esistenza sarà necessaria una nuova riforma metafisica: sarà l’opera di s.Tommaso d’Aquino.
- Il mondo di al-Fārābī si presenta quindi già come simile al mondo dei metafisici occidentali del sec.XIII. Esso dipende da una causa prima nella sua esistenza nel movimento che lo anima e nelle essenze che definiscono gli esseri de cui esso si compone. La fonte di ciò che le cose sono è d’altronde quella conoscenza che noi ne abbiamo. Dividendo a sua volta le funzioni dell’intelletto, egli distingue l’intelletto in potenza rispetto alla conoscenza che esso può conseguire; l’intelletto acquisito, in quanto l’ha già acquisita; infine l’intelligenza agente, essere spirituale trascendente al mondo sub-lunare, che conferisce contemporaneamente alle materie le loro forme e agli intelletti umani in potenza le loro conoscenze di queste forme. Questa intelligenza è sempre in atto. Irradiando le materie e gli intelletti eternamente e sempre allo stesso modo, la sua azione è immutabile; la diversità degli effetti che essa produce deriva semplicemente dal fatto che le materie e gli intelletti che la subiscono non sono sempre e tutti ugualmente disposti a riceverla. L’intelligenza agente è d’altra parte la causa suprema. Altre si dispongono sopra di lei, e tutte sono sottomesse a Dio che risiede inaccessibile nella sua solitudine. Il fine dell’uomo è di unirsi con l’intelletto e l’amore all’intelligenza agente separata, che è il primo motore immobile e l’origine di ogni conoscenza intellegibile per il mondo in cui viviamo. Il Profeta realizza questa unione in sommo grado.
- Una delle più curiose manifestazioni della speculazione filosofica musulmana è l’apparizione di quella specie di massoneria che sorge verso il sec.IV dell’Egira, e che si indica col nome di ‘fratelli della purezza’. Gli aderenti alla setta non ammettevano soltanto la possibilità di interpretare e confermare la rivelazione religiosa per mezzo della filosofia; essi pretendevano anche di migliorare la legge religiosa e di rettificarla grazie alle risorse che la semplice speculazione razionale può fornire. A questa setta si attribuiscono cinquantuno trattati che si dividono nelle quattro seguenti classi: matematica e metafisica, fisica, dottrina dell’anima, legge religiosa e teologia. L’insieme di questi trattati costituisce l’enciclopedia senza originalità filosofica, in cui si confondono le influenze aristoteliche e neo-platoniche, ma che ci mostra fino a qual punto si fosse esteso il gusto della filosofia presso i filosofi musulmani, verso la seconda metà del sec.X.
Avicenna (Sinā)
Nato nel 980, a 18 anni egli sapeva tutto ciò che avrebbe saputo per sempre; le sue conoscenze erano così estese che esse potevano approfondirsi, ma non rinnovarsi. In seguito egli condusse una vita agitata e a volte romanzesca in cui i piaceri occupavano un gran posto, così piena di avvenimenti e ingombra di cariche pubbliche che egli redigeva le sue opere nel tempo libero che la notte gli concedeva. Avicenna scrisse più di cento opere che trattano dei più diversi argomenti, e morì nel 1037 all’età di 58 anni.
- Il nome di Avicenna è rimasto celebre, nel Medioevo, come quello di un grande medico. Ma la sua autorità filosofica fu considerevole nel sec.XIII, ed è possibile classificare quasi immediatamente un filosofo del Medioevo occidentale, dal momento in cui si sa chi è per lui il più grande filosofo moderno, Avicenna o Averroè.
- Tra le sue opere, quella che ebbe influenza decisiva sul pensiero occidentale è l’al-Shifā (La Guarigione), una specie di summa o enciclopedia filosofica in diciotto volumi, di cui parecchie parti furono tradotte in latino, e che contiene la sua interpretazione della filosofia di Aristotele.
- La logica di Avicenna poggia, come quella di Aristotele, sulla distinzione fondamentale del primo oggetto dell’intelletto, che è l’individuo concreto e il suo oggetto secondario, che è la nostra conoscenza stessa del reale.
- L’universale è una seconda intenzione, ma Avicenna la concepisce in modo diverso da Aristotele. Per lui ogni nozione universale definisce una specie di realtà mentale, che si chiama l’essenza; ciascuna essenza si distingue dalle altre per delle proprietà definite. Le essenze esprimono esattamente il reale da cui il pensiero le astrae. La conoscenza logica ha dunque una portata fisica e anche metafisica, non nel senso che la realtà sarebbe fatta di idee generali, ma perché la generalità logica degli universali e la loro stessa predicabilità esprime questa proprietà fondamentale che ha l’essenza di essere una e medesima, qualunque sia l’individuo che la possiede. Da ciò deriva che, nell’ordine delle essenze, tutto ciò che si può pensare a parte e distintamente è realmente distinto da ciò a partire dal quale lo si pensa.
- Questo principio, nella filosofia di Avicenna, trova numerose e importanti applicazioni. Per esempio, un’anima unita a un corpo, che non ricevesse alcuna sensazione interna o esterna, sarebbe ancora capace di conoscere se stessa, di pensare e di sapere che pensa. Un’anima può dunque concepirsi distintamente senza riferimento al corpo; di conseguenza l’essenza dell’anima è diversa da quella del corpo e l’anima è realmente distinta dal corpo.
- L’universo avicenniano è così composto di essenze, o nature, che formano l’oggetto proprio della conoscenza metafisica. Presa in sé, l’essenza contiene tutto ciò che la sua definizione contiene e nient’altro. Ogni individuo è singolare di pieno diritto; la scienza poggia sugli individui. Ogni idea generale è di pieno diritto universale: la logica poggia sugli universali. L’essenza, o natura, è indifferente alla singolarità come all’universalità.
- È attraverso Avicenna che il Medioevo ha conosciuto la dottrina, così sconcertante per i cristiani, dell’unità dell’Intelletto agente, origine delle conoscenze intellettuali di tutto il genere umano. Avicenna, tuttavia, in questo non faceva che riprendere e sviluppare la dottrina di al-Fārābī. In effetti egli ammetteva in ogni anima un intelletto che le è proprio: è l’attitudine a ricevere le forme intellegibili spogliate di ogni materia, cioè allo stato astratto.
- Al primo grado, questo intelletto è assolutamente nudo e vuoto, come un bambino che può imparare a scrivere, ma che non sa nemmeno cosa siano le lettere, l’inchiostro e la penna.
- Al secondo grado, questo intelletto è già provvisto di sensazioni e di immagini, come un bambino che ha cominciato a tracciare i primi segni e sa servirsi di una penna: l’intelletto non è più assolutamente in potenza, ma già quasi in atto, nel senso che può conoscere.
- Al terzo grado esso si volge verso l’intelletto agente separato per ricevere le forme intellegibili corrispondenti alle sue immagini sensibili: allora esso è in atto, grazie all’intellegibile che riceve; a forza di ripetere questo sforzo, esso acquista una certa facilità che costituisce per lui la conoscenza acquisita.
- Possedere una scienza è dunque qui l’attitudine, acquisita con l’esercizio, a riceverla dall’Intelletto agente. Questa epistemologia, caratteristica della dottrina di Avicenna, viene quindi a porre un solo intelletto agente per tutta la specie umana, pur attribuendo un intelletto possibile a ogni individuo.
- Tra gli oggetti intellegibili che il metafisico considera, ve n’è uno che gode di un notevole privilegio. A qualunque cosa noi pensiamo, la concepiamo in primo luogo come ‘qualcosa che è’. Essere uomo non è essere cavallo né essere albero, ma in tutti e tre i casi è essere un essere. «Essere» e «Cosa» sono quindi ciò che per primo cade sotto la presa dell’intelletto, o come anche si potrebbe dire, l’essere accompagna tutte le nostre rappresentazioni.
- Tuttavia la nozione di «essere» non è assolutamente semplice. Essa immediatamente si sdoppia in essere necessario ed essere possibile. Questa distinzione si presenta dapprima come puramente concettuale. Si chiama possibile un essere che può esistere, ma che non esisterà mai se non viene prodotto da una causa. Il possibile stesso, d’altronde, si sdoppia in ciò che, possibile per essenza, è di fatto essere necessario perché la sua causa esiste e lo produce necessariamente. Così, qualcosa che non può esistere rimane «possibile», se non è in virtù della sua propria essenza che non può non esistere. Al contrario, il necessario è ciò che non ha causa e che in virtù della sua propria essenza non può non esistere.
- Il Dio di Avicenna è il necesse esse per definizione. A questo titolo egli possiede l’esistenza in virtù della sua sola essenza o, come si dice, in lui essenza ed esistenza sono una cosa sola. È per questo, d’altra parte, che Dio è indefinibile e ineffabile. Egli è ma, se si chiede che cosa è, non c’è risposta, perché in lui non c’è un quid al quale possa rivolgersi la domanda quid sit.
- Si vede che la divisione dell’essere in necessario o possibile gioca, in Avicenna, lo stesso ruolo della divisione dell’Uno e del molteplice in Plotino e in Eriugena, dell’immutevole e del mutevole in Agostino, dell’ipsum esse e degli esseri in Tommaso d’Aquino. Qui passa il taglio ontologico che separa Dio dall’universo, poiché nulla può far sì che il Necessario diventi possibile, né viceversa.
- Impregnato profondamente del pensiero greco, per il quale solo il necessario è intellegibile, Avicenna ha concepito la produzione del mondo da parte di Dio come l’attualizzazione successiva di una serie di esseri, ciascuno dei quali, possibile in sé, diventa necessario in virtù della sua causa, che lo è lei stessa in virtù della propria, essendo tutti insieme in virtù del solo necesse esse, che è Dio.
- Per diventare, più tardi, assimilabile al pensiero cristiano, bisognerà che l’universo di Avicenna ammetta alla sua origine la decisione di una volontà divina sovranamente libera. Questa radicale metamorfosi, che trasformerà in una vasta contingenza la scala gerarchica della necessità condizionata di Avicenna, sarà opera di Duns Scoto.
Al-Ghazzālī
Al-Ghazzālī (m.1111) professa una specie di scetticismo filosofico di cui si propone di far beneficiaria la religione musulmana. Egli incomincia con l’esporre le dottrine e le tendenze filosofiche soltanto per distruggerle poi più agevolmente.
- Il suo grande avversario è Aristotele, ma spesso egli ingloba nei suoi attacchi contro di lui i due grandi interpreti musulmani dell’aristotelismo: al-Fārābī e Avicenna. Volutamente egli salva dalla sua critica tutto ciò che rientra nel dominio della scienza pura e che dipende dalla dimostrazione matematica.
- Le sue critiche vertono su venditi punti, sia di metafisica che di fisica. Egli stabilisce, ad esempio, che i filosofi si sbagliano affermando l’eternità della materia, che essi non possono dimostrare l’esistenza di un demiurgo, né stabilire che Dio è uno e che è incorporeo; che essi non possono provare, dal loro punto di vista, che Dio conosce le cose fuori di lui, né che l’anima umana è indipendente dal corpo e immortale; che essi si sbagliano negando la resurrezione dei morti, come il paradiso e l’inferno, ecc.
- Per provare che hanno torto nel negare la possibilità del miracolo, egli traccia una vera critica della nozione di causa naturale: «Non è necessario, secondo noi, che nelle cose che abitualmente accadono, si cerchi un rapporto e un legame tra ciò che si crede essere la causa e ciò che si crede essere l’effetto. Sono, al contrario, due cose perfettamente distinte, delle quali l’una non è l’altra, che non esistono né cessano di esistere l’una per l’altra». Questa critica della filosofia non doveva arrestarne lo sviluppo, neanche nell’ambito musulmano, ma essa doveva avere come risultato quello di far emigrare la filosofia musulmana dall’oriente in Spagna, ove avrà ancora un vivo splendore con Avempace (Ibn-Bāggiah, m.1138), Ibn Tufail e soprattutto Averroè. Il problema principale di questi filosofi era quello di stabilire il contatto tra l’individuo razionale e l’Intelletto agente separato da cui egli trae la sua beatitudine. Lo studio di qualunque scienza ha come fine quello di conoscere le essenze degli oggetti sui quali essa verte. Dall’essenza di ciascun oggetto possiamo astrarne un’altra; e se questa ne avesse una, potremmo a sua volta farne astrazione; ma, poiché non si può risalire all’infinito, bisogna pur giungere a pensare un’essenza che non abbia in se stessa un’altra essenza. Tale è l’essenza della sostanza separata, da cui dipende la nostra conoscenza. Notiamo d’altronde che, in tale dottrina, la semplice conoscenza dell’essenza astratta dell’uomo o del cavallo verte già su d’una essenza comune ai diversi intelletti possibili che la conoscono. La conoscenza di un intellegibile qualunque raggiunge di colpo una sostanza separata; l’uomo è dunque capace di farlo, poiché lo fa.
Averroè
Il nome più importante della filosofia araba, insieme a quello di Avicenna, è Averrois, Ibn Rushd (1126-1198): è un arabo di Spagna, nato a Cordova, studiò teologia, giurisprudenza, medicina, matematica e filosofia. Per parecchi anni esercitò la funzione di giudice e compose un numero considerevole di scritti personali sulla medicina, l’astronomia e la filosofia.
- Uno dei tentativi più originali compiuti da Averroè è quello che egli fece per determinare con precisione i rapporti tra filosofia e religione. Egli constatava la presenza di un gran numero di sette filosofiche e teologiche in lotta le une contro le altre , la cui essenza stessa era un continuo pericolo tanto per la filosofia quanto per la religione. In effetti, era importante salvaguardare i diritti e la libertà della speculazione filosofica; ma non si poteva, d’altra parte, contestare che i teologi avessero delle ragioni per preoccuparsi vedendo diffondersi in tutti gli ambienti la discussione dei testi del Corano.
- Averroè attribuì ogni male al fatto che si autorizzavano ad accedere alla filosofia degli spiriti incapaci di capirla: egli vide il rimedio in un’esatta definizione dei diversi gradi possibili dell’intelligenza dei testi del Corano, e nell’interdizione manifesta a ogni spirito di superare il grado che gli conviene. Il Corano, in effetti, è la verità stessa, dato che esso proviene da un miracolo di Dio; ma, poiché esso è destinato alla totalità degli uomini, deve contenere di che soddisfare e convincere tutti gli spiriti.
- Ora, vi sono tre categorie di spiriti e tre corrispondenti specie di uomini:
- gli uomini portati alla dimostrazione che esigono le prove rigorose e vogliono conseguire la scienza andando dal necessario al necessario passando per il necessario;
- gli uomini dialettici che sono soddisfatti di elementi probabili;
- gli uomini portati alla esortazione, ai quali bastano gli argomenti oratori che fanno appello all’immaginazione e alle passioni.
- Il Corano ha un senso esteriore e simbolico per gli ignoranti, un senso interiore e nascosto per i sapienti. Il pensiero centrale di Averroè è che ogni spirito ha il diritto e il dovere di comprendere e interpretare il Corano nel modo più perfetto di cui è capace.
- I suoi avversari gli attribuivano la cosiddetta ‘dottrina della doppia verità’, secondo la quale due conclusioni contraddittorie potrebbero essere simultaneamente vere, l’una per la ragione e la filosofia, l’altra per la fede e la religione. Pare sicuro che Averroè non abbia detto nulla di simile. Egli constata che una certa conclusione si impone necessariamente alla ragione, ma in caso di contrasto, egli aderisce all’insegnamento della fede. Che cosa pensava realmente? La risposta è nascosta nel segreto della sua coscienza.
- Averroè non ha mai rotto con la comunità musulmana, al contrario: ma la sua stessa dottrina gli impediva di fere qualcosa che potesse affievolire una fede necessaria all’ordine sociale; qualunque cosa egli abbia pensato, ha ritenuto di dover agire così.
- Egli dice che la conclusione della ragione è necessaria, non che essa sia vera, ma non dice nemmeno che l’insegnamento della fede sia vero, dice soltanto di aderirvi profondamente. Senza dubbio egli pone la conoscenza filosofica alla sommità delle gerarchie del sapere, ma anche s.Tommaso lo fa: la scienza è un sapere più perfetto della fede; come accertarci che, anche per Averroè, la fede è, anche se meno evidente, più sicura della ragione? È vero che s.Tommaso lo dice e Averroè no. Il fatto è importante, ma Averroè dice che, nel Profeta, fede e ragione, religione e filosofia coincidono. Come sapere se non abbia egli stesso creduto che una maggior luce intellettuale gli avrebbe permesso di vedere la verità della fede nella chiarezza della ragione? È certo che la posizione di Averroè era di natura tale da coprire tutti gli equivoci, ma questo non ci autorizza a pronunciarci sulle sue convinzioni personali. Il segreto delle coscienze individuali è uno dei limiti della storia. Il gusto di trovarsi dei nemici o degli alleati, cioè di classificare gli uomini in funzione di se stessi, lo rende difficilmente sopportabile, ma il rispetto dell’uomo per l’uomo aiuta a rassegnarvisi.
- Il pensiero di Averroè si presenta come uno sforzo cosciente di restituire alla sua purezza la dottrina di Aristotele, corrotta da tutto il platonismo che i suoi predecessori vi avevano introdotto. Averroè ha visto benissimo quali interessi teologici avessero favorito questa mescolanza. Egli sapeva che restaurare l’aristotelismo autentico significava escludere dalla filosofia ciò che in essa meglio si accordava con la religione. I cristiani che l’hanno letto non si sono sbagliati affatto su questo aspetto del suo pensiero, e quelli che non ameranno la sua filosofia non rinunceranno ad addurre, contro i cristiani che invece vorranno ispirarsene, il pericolo che essa faceva correre alla fede.
- Averroè stesso è partito dalla convinzione che la filosofia di Aristotele era vera. Le formule in cui egli esprime la sua ammirazione per lo Stagirita sono ben note, e bisogna in effetti conoscerle, perché il culto esclusivo di Aristotele è una nota distintiva della scuola averroista, ma non, come talvolta si immagina, di tutto il Medioevo.
- La metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, e delle proprietà che come tale gli appartengono. Con il termine ‘essere’ bisogna intendere la sostanza stessa che è. Ogni sostanza è un essere; ogni essere è o una sostanza, o un accidente che partecipa dell’essere della sostanza.
- Non c’è dunque motivo di porsi a parte il problema dell’esistenza, ancor meno di immaginare, con Avicenna, che essa sia un ‘accidente’ dell’essenza. Il ciò è il primo significato del termine; ma essa è ancor più la quiddità, o essenza reale, che determina ogni sostanza a essere ciò che è. Così vincolato alla realtà concreta, l’essere di ciascuna cosa le è proprio; non si può quindi predicare l’essere univocamente (in senso identico) di tutto ciò che è.
- Tuttavia, ciò che è, è un certo genere di essere: la sostanza, l’accidente, la quantità, la qualità, in breve ciascuna delle categorie dell’essere ha questo in comune con le altre, che essa designa qualcosa che è; non si può dunque predicare l’essere equivocamente (con dei sensi totalmente differenti): per questo si dice che l’essere è ‘analogo’. Intendiamo con questo che, qualunque cosa esse siano e in qualunque maniera siano, tutte le categorie hanno un ‘rapporto’ con l’essere.
- L’oggetto della metafisica è lo studio di tutto ciò che è, in quanto è. Il suo metodo è quello della logica, non più utilizzata, questa volta, come un semplice insieme di regole del pensiero corretto, ma come un mezzo per esplorare la natura reale dell’essere e delle sue proprietà.
- Perché la nostra logica si applichi al reale bisogna che le cose sensibili siano allo stesso tempo intellegibili. Esse lo sono, e anche questo prova che la loro causa prima è il pensiero di un intelletto; se fosse diversamente, da dove prenderebbe la loro natura questa disposizione a essere pensata? La loro intelligibilità è loro essenziale e ciò che è essenziale non esiste che per una causa efficiente necessaria. Se alle cose sensibili è essenziale essere virtualmente intellegibili, è dunque perché esse derivano dalla concezione di un intelletto. È vero che esse sono sensibili, ma anche il pensiero degli artigiani produce degli oggetti materiali. Se noi possiamo capire questi oggetti, è perché essi vengono da un pensiero, cioè da una forma intellegibile presente all’intelletto di colui che li ha fatti. Lo stesso avviene per le cose naturali. I platonici hanno avuto torto di credere all’esistenza di idee separate, ma non di pensare che il sensibile riceva da qualche causa la sua intelligibilità.
- Sarebbe un errore credere che gli universali esistono in sé, al di fuori degli individui; se lo si ammette, bisogna supporre o che un individuo non ne possiede che una parte, oppure che l’universale sia tutto intero presente in ciascun individuo, il che torna a porlo contemporaneamente come uno e molteplice, e non è meno assurdo.
- Bisogna ammettere dunque che l’universale non è una sostanza ma il frutto dell’opera dell’intelletto, perciò la scienza non ha per oggetto una realtà universale, essa consiste nel conoscere le cose particolari in un modo universale, astraendo dalle cose la natura comune che le loro materie individuano.
- Così concepito, l’universale non è nient’altro che ciò che può essere predicato da parecchi individui. In fondo è la ragione per cui non può esso stesso essere un individuo, ma questo non significa che la conoscenza che noi ne abbiamo sia senza oggetto. Gli individui non sono semplici. La forma è l’atto o essenza di ciò che è; la materia è la potenza attualizzata e determinata dalla forma, la sostanza individuale è il composto delle due. Ciò che il pensiero raggiunge concependo l’universale è la forma, e l’esprime nella definizione. Il nome della cosa designa tutta la cosa, ma è la forma a meritarlo in primo luogo.
- Composta di forma e materia, dunque di un determinante e di un determinato, ogni sostanza sensibile è anche composta di atto e di potenza. Per l’atto essa è; per la potenza essa può divenire. Cambiare di qualità, quantità e luogo, è passare dalla potenza all’atto, è essere in movimento.
- In fisica si prova che tutto ciò che è in movimento è mosso da un motore, il motore muove soltanto perché esso è in atto. Prendiamo un numero qualunque di esseri in movimento, essi si ripartiranno necessariamente in tre classi: la più bassa comprenderà quelli che sono mossi e non muovono; l’intermedia comprenderà quelli che sono nello stesso tempo effetti e cause, che sono mossi e muovono; la più alta comprenderà gli esseri che muovono senza essere mossi. Tutto ciò, dice Averroè, è sottinteso. Si possono moltiplicare a piacere gli intermedi, il loro numero non è importante purché non sia infinito; ma non lo è, perché, se lo fosse, non ci sarebbe causa prima, né di conseguenza movimento; ora, il movimento c’è, è un fatto; il loro numero dunque è finito e la loro azione implica l’esistenza di una classe di cause prime, che muovono senza essere mosse.
- Muovere senza essere mosso significa essere un atto scevro di ogni potenzialità: un atto puro. Esistono dunque degli atti puri e, poiché la loro attualità è perfetta, essi muovono in continuazione. Ora, non c’è un movimento senza un mobile. Perché l’azione motrice di questi atti puri sia continua, bisogna che anche il movimento e le cose mosse lo siano. Il mondo è dunque certamente sempre esistito ed esisterà sempre. In breve, la durata del mondo nel tempo è eterna. E non è tutto.
- Poiché questi atti sono privi di potenzialità, lo sono anche di materia. Sono dunque delle sostanze immateriali. Quanti ve ne sono? Ne porremo quanti sarà necessario per spiegare i movimenti primi, cause di tutti gli altri nell’universo. Disgraziatamente gli astronomi non sono d’accordo sul numero di questi movimenti, ma comunemente si ammette che ce ne sono trentotto: cinque per ciascuno dei pianeti superiori (Saturno, Giove, Marte), cinque per la Luna, otto per Mercurio, sette per Venere, uno per il Sole (se lo si considera come muoventesi su una sfera eccentrica, non su un epiciclo), e uno per la sfera che avvolge il mondo, cioè il firmamento. Può darsi che ci sia una nona sfera, ma non è sicuro. Se ci sono trentotto movimenti, ci sono anche trentotto motori.
- Come si possono muovere questi motori, che sono immobili? E che, per muovere, essi non hanno altro da fare che esistere. Il movimento di ogni sfera nasce in lei dal desiderio particolare che essa prova per l’atto puro da cui dipende. Essa si muove da sé verso di lui. Per comprendere questo movimento, ricordiamoci che i motori sono degli atti immateriali, cioè delle intelligenze e che la sfera corrispondente desidera il loro pensiero. Bisogna dunque che ciascun corpo celeste possieda se non dei sensi e una immaginazione, come a torto credeva Avicenna, almeno un intelletto e che questo intelletto provi un desiderio intellettuale del suo motore immobile.
- Rappresentandosi il pensiero di questa intelligenza come il bene che le conferisce la sua perfezione, il corpo celeste vuole porsi nello stato più perfetto di cui sia capace, e poiché il movimento vale per lui più dell’immobilità, perché il movimento è la vita dei corpi, esso si muove perpetuamente.
- Gli atti che così muovono i corpi celesti non danno loro soltanto il movimento, ma la forma da cui ciascuno riceve la sua essenza. Se la loro mozione da parte dell’intelletto cessasse, non ci sarebbe più la forma per ciascun pianeta, come non ci sarebbe più l’anima per noi se l’intelletto agente cessasse di agire. I motori sono dunque anche, in un certo senso, le cause eternamente agenti dei corpi celesti, poiché le loro forme non sono nient’altro che le idee che questi corpi celesti si fanno dei loro motori. Ma, poiché questi motori sono l’oggetto del loro desiderio, essi sono anche il loro fine, quindi la loro causa finale. Le intelligenze motrici sono di conseguenza le cause finali, agenti e motrici dei corpi celesti che si muovono per il desiderio intellettuale che essi ne hanno.
- Consideriamo adesso questi motori nei loro rapporti reciproci. Le sfere che essi muovono si pongono in gerarchia, dalla Luna al firmamento, secondo la loro grandezza e la rapidità del loro movimento. I loro motori devono quindi porsi in gerarchia allo stesso modo. Tutti questi principi separati devono, di conseguenza, arrivare a un principio primo, che è il primo motore separato. Questa gerarchia di dignità, d’altronde, non fa che esprimere quella della loro connessione nell’ordine della causalità. In effetti, tutti sono principi, poiché essi formano il genere dei principi. Ora, in ogni genere, gli esseri si pongono in gerarchia secondo il loro modo più o meno perfetto di realizzare il tipo di genere. Nel genere ‘caldo’, gli esseri sono più o meno caldi secondo che essi siano più vicini al fuoco, causa di calore di tutto ciò che è caldo. Allo stesso modo, nel genere dei principi, deve esserci un termine primo in rapporto al quale si misura il grado in cui ciascuno di essi è principio.
- C’è dunque un principio assolutamente primo, fine ultimo desiderato da tutto il resto, causa agente delle forme e del movimento di tutto. È il primo motore immobile, la prima intelligenza separata, la cui unità garantisce quella dell’universo e, di conseguenza, il suo stesso essere. È ciò che Dio stesso insegna quando dice nel Corano (XXI 22): «Se in questi due mondi ci fossero degli dei al di fuori di Allah, i due mondi cesserebbero di esistere».
- Il Profeta, d’altra parte, ci dà un altro consigli, dicendo: «Conosci te stesso e conoscerai il tuo Creatore». In effetti, per sapere come queste intelligenze siano le une in rapporto alle altre, non si può fare di meglio che esaminare il rapporto dell’intelletto con l’intelligibile nell’intendimento umano.
- Il nostro intelletto è capace di riflettere il suo atto su se stesso, nel qual caso l’intelletto e il suo intelligibile fanno una cosa sola. A maggior ragione è così per le intelligenze separate: ciascuna di esse è identicamente conoscenza e ciò che essa conosce. Ma un effetto non può conoscere se stesso senza conoscere la sua causa e, inversamente, se un essere, conoscendosi, ne conosce uno diverso da se stesso, è perché esso ha una causa. Ciascuna di queste intelligenze separate conosce dunque contemporaneamente, conoscendosi, se stessa e la sua causa, salvo la prima di tutte che, non avendo causa, non conosce che sé. Poiché la sua essenza è assolutamente perfetta, la conoscenza che essa ha di sé forma un pensiero ugualmente perfetto, senza nulla che essa possa conoscere sopra o sotto di sé. Non sapere che cosa è al di sotto di lui non è, in Dio, segno di indigenza alcuna; poiché egli conosce tutta la realtà conoscendo se stesso, non conoscere non può essere in lui una mancanza.
- Sostanze intellegibili dotate di conoscenza e di desiderio, queste intelligenze motrici sono anche viventi e capaci di felicità. Poiché essa vive della sua propria vita, la prima è felice della sua propria beatitudine, le altre non hanno gioia e felicità se non da lei, in proporzione al grado di ciò che esse conoscono e, di conseguenza, di ciò che esse sono. Infatti, essa è l’Unità da cui tutto questo numero viene, essa stessa trascende ogni molteplicità legata al movimento. Dio è dunque la causa dell’esistenza dell’intelligenza motrice della sfera più alta, quella delle stelle fisse. Questa intelligenza stessa è, in senso proprio, il motore di tutto l’universo e a essa si subordinano i successivi motori, in un ordine gerarchico sul quale non abbiamo dei dati sicuri, ma che si può ammettere coincidano con l’ordine assegnato alle sfere dall’astronomia.
- Da Dio emanerebbero il motore del cielo delle stelle fisse e il motore della sfera di Saturno; dal motore della sfera di Saturno emanerebbero l’anima di questo pianeta, il motore della sfera di Giove, più gli altri quattro motori necessari per causare i suoi diversi movimenti, e così via fino alla sfera della Luna, il cui motore fa sorgere l’intelletto agente, causa unica della conoscenza per tutto il genere umano.
- Al centro di questo universo stanno i quattro elementi, causati dal movimento più rapido che è quello della sfera delle stelle fisse. La fisica spiega come le qualità di questi elementi e i movimenti delle sfere facciano nascere i pianeti e gli esseri viventi. Le forme di questi esseri vengono conferite loro dall’intelligenza agente (o intelletto agente), ordinatrice della materia prima, che è lei stessa priva di ogni forma.
- Tale è la situazione dell’uomo, la cui anima è una di queste forme, e che viene volto dalla coscienza che ha della propria insufficienza verso la propria causa per riunirvisi con la conoscenza e il desiderio.
- La descrizione del mondo di Averroè è sufficiente a mostrare che l’intelletto agente è in esso una realtà, una sostanza intelligibile separata, cioè un’intelligenza agente, la stessa per tutti gli uomini. Essa produce la conoscenza intellegibile nelle anime individuali come il sole produce la vista negli occhi con la sua luce. Su questo punto dunque egli è d’accordo con Avicenna, ma su un altro lo supera. Avicenna attribuisce all’individuo almeno un intelletto possibile, nucleo resistente di una personalità capace di sopravvivere alla morte: Averroè non concede all’individuo che un intelletto passivo, semplice ‘disposizione’ a ricevere gli intellegibili, ma che da solo non sarebbe sufficiente a riceverli. Del tutto corporea, questa disposizione perisce col corpo. Perché la conoscenza sia possibile, bisogna che l’intelletto agente illumini questo intelletto passivo; allora, al contatto di questi due intelletti, si produce una combinazione dell’uno e dell’altro che è l’intelletto materiale. Questo nome può indurre in errore sulla natura di ciò che si tratta, perché questo intelletto non è in alcun modo corporeo, dalla materia esso riceve soltanto la sua potenzialità. Gli scolastici l’hanno capito bene, ed è per questo che dicevano che, secondo Averroè, non solo l’intelletto agente ma anche l’intelletto possibile è uno per tutti gli uomini. Tuttavia questa seconda formula potrebbe ingannare a sua volta, facendo pensare che Averroè faccia dell’intelletto possibile una seconda sostanza separata, distinta dall’intelletto agente. Questo non sarebbe esatto. Averroè ritiene che il contatto dell’intelletto agente separato con l’intelletto passivo dell’individuo determini una ricettività riguardo all’intellegibile (intelletto passivo), e che non è che l’intelletto agente stesso che si particolarizza in un’anima come la luce in un corpo. È per questo, d’altra parte, che questo intelletto è veramente separato; esso non appartiene all’individuo più di quanto appartenga al corpo la luce che lo illumina.
- L’immortalità dell’uomo non può quindi essere quella di una sostanza intelligibile capace di sopravvivere alla morte del corpo. Tutto ciò che nell’individuo c’è di eterno o di eternizzabile appartiene di pieno diritto all’intelletto agente ed è immortale soltanto per la sua immortalità.
- Non tutti i filosofi latini del Medioevo conosceranno nei particolari questa dottrina, ma alcuni dei suoi avversari, come s.Tommaso d’Aquino, la capiranno meglio di quanto abbia saputo fare la maggioranza dei suoi storici moderni. Altri ne faranno l’alimento del loro pensiero; essa sarà per loro la filosofia stessa.
- tratto da “La filosofia nel Medioevo”

