di A. Schopenhauer.
§ 7 – Il procedimento non prende le mosse né dall’oggetto né dal soggetto, bensì dalla rappresentazione come fatto originario della coscienza, la cui forma essenziale fondamentale è la suddivisione in oggetto e soggetto; la forma dell’oggetto, d’altra parte, è il principio di ragione nelle sue diverse figure, ciascuna delle quali domina in modo così forte la propria classe di rappresentazioni che con la conoscenza di ciascuna figura viene conosciuta anche l’essenza della classe tutta intera, poiché questa, come rappresentazione, altro non è che quella figura stessa; così anche il tempo altro non è che il principio dell’essere nel tempo, ossia la successione; lo spazio non è altro che il principio di ragione nello spazio, ossia la posizione; la materia altro non è che causalità; il concetto non è nient’altro che una relazione con il principio della conoscenza. Questa relatività completa e generale del mondo come rappresentazione, tanto nella sua forma più generale (soggetto e oggetto), quanto in quella ad essa subordinata (principio di ragione), ci mostra che l’intima essenza del mondo deve essere ricercata in un’altra delle sue facce completamente diversa dalla rappresentazione, quella che verrà indicata in un fatto non meno immediatamente certo per ogni essere vivente.
Prima però dobbiamo prendere in considerazione la classe di quelle rappresentazioni che appartengono solamente all’uomo, la quale ha come materia in concetto e come correlato soggettivo la ragione, così come le rappresentazioni che abbiamo considerato sino a qui avevano come correlato l’intelletto e la sensibilità, che appartengono a tutti gli animali senza distinzione.
§ 9 I concetti
I concetti costituiscono una classe particolare di rappresentazione di cui non possiamo mai acquisire una conoscenza intuitiva veramente evidente della loro essenza, ma solo una conoscenza astratta e discorsiva impossibile da provare con l’esperienza.
- Essi si lasciano solo pensare, non intuire, e solo gli effetti che l’uomo produce per loro tramite sono oggetti di un’esperienza reale. Tali sono il linguaggio, l’agire riflessivo orientato a uno scopo e la scienza, e poi tutto ciò che da essi risulta. Il discorso comunica con segni arbitrari a cui associamo un significato. Il senso del discorso viene compreso immediatamente, viene inteso con esattezza e in modo determinato, senza che di regola vi si mescolino immagini di fantasia.
- È la ragione che, mantenendosi nel proprio dominio, parla alla ragione, e ciò che essa comunica e riceve sono concetti astratti, rappresentazioni non intuitive le quali, costruite una volta per tutte e nonostante esse siano relativamente poco numerose, nondimeno toccano, contengono e rappresentano tutti gli innumerevoli oggetti del mondo reale.
- Solo in questo modo si spiega come mai un animale non possa mai parlare e comprendere, nonostante abbia in comune con l’uomo gli strumenti del linguaggio e le stesse rappresentazioni intuitive: proprio perché le parole indicano quella classe affatto particolare di rappresentazioni della quale la ragione è il correlato soggettivo, esse, per l’animale, sono prive di senso e significato. Perciò il linguaggio, come ogni altro fenomeno ascrivibile alla ragione e come tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale, deve essere spiegato per mezzo di quest’ultima e semplice fonte: i concetti, le rappresentazioni astratte, non intuitive, universali, non individuate nel tempo e nello spazio.
- È l’idea platonica che diventa possibile grazie all’unione di immaginazione e ragione.
- I concetti sono fondamentalmente diversi dalle rappresentazioni intuitive, tuttavia stanno con esse in una relazione necessaria, senza la quale sarebbero nulla. La riflessione è necessariamente riproduzione, ripetizione del mondo intuitivo originale, benché si tratti di una riproduzione affatto particolare, che si realizza in una materia del tutto eterogenea. Per questo i concetti possono essere chiamati rappresentazioni di rappresentazioni.
- Essendo il tempo in tutto e per tutto successione e nient’altro, lo spazio in tutto e per tutto posizione e nient’altro, la materia in tutto e per tutto causalità e nient’altro, allo stesso modo anche l’intera essenza dei concetti, o della classe delle rappresentazioni astratte, consiste solo nella relazione che il principio di ragione esprime in essi; e poiché quest’ultimo è la relazione con il fondamento della conoscenza, tutta l’essenza della rappresentazione estratta consiste solo e soltanto nella sua relazione con un’altra rappresentazione, la quale è il suo principio di conoscenza.
- Ora, questa daccapo può essere a sua volta o un concetto o una rappresentazione astratta, e anche questa avrà daccapo solo un fondamento conoscitivo altrettanto astratto. Solo che non si può procedere all’infinito in questo modo: è necessario piuttosto che, da ultimo, la serie dei principi della conoscenza si chiuda con un concetto che trovi il proprio fondamento ultimo nella conoscenza intuitiva. L’intero mondo della riflessione trova infatti in quello dell’intuizione il fondamento della propria conoscibilità.
- I concetti si dividono in astratti e concreti ma, quest’ultima definizione si addice solo impropriamente ai concetti che essa indica, dato che anch’essi sono pur sempre astratti e non sono in alcun modo delle rappresentazioni intuitive.
- Tuttavia il concetto non è questa rappresentazione, anzi, quest’ultima per lo più appartiene addirittura a una classe di rappresentazioni del tutto diversa, dato che è intuitiva, così che può avere determinazioni temporali, spaziali e d’altro genere e, in linea di massima, può averne ancora molte altre che nel concetto non vengono pensate affatto, sicché più rappresentazioni, differenti in ciò che non è essenziale, possono essere pensate per mezzo del medesimo concetto, ossia possono essere sussunte al di sotto di esso. Solo che questo valere per più cose non è una proprietà essenziale del concetto, ma solo una sua proprietà accidentale.
- Riconoscere delle relazioni tra i vari concetti si chiama giudizio. Le varie connessioni tra i concetti formano dei casi emblematici da cui si ricava la dottrina dei giudizi con la loro conversione, contrapposizione, reciprocità, disgiunzione, seguendo i procedimenti della logica.
- Questo schematismo dei concetti può essere posto a fondamento tanto della dottrina dei giudizi quanto dell’intera sillogistica, rendendo molto facile e chiara l’esposizione di entrambe. Tutte le loro regole si lasciano infatti comprendere, ricavare e spiegare secondo la loro origine. Non è però necessario sovraccaricare la memoria con tutte queste regole, dato che la logica non ha per la filosofia nessuna utilità pratica, ma solo un interesse teoretico.
- La logica non è altro che la conoscenza in astratto di ciò che si sa in concreto. Perciò, tanto poco si ha bisogno di essa per disapprovare un ragionamento sbagliato, altrettanto poco si deve ricorrere all’aiuto delle sue regole per produrne uno corretto.
- Ciascuna scienza consiste in un sistema di verità, leggi e regole universali, e perciò astratte, relative a un qualunque genere di oggetti. Ogni caso particolare che poi si presenta in esse viene determinato ogni volta secondo quel sapere universale che è valido una volta per tutte, poiché applicare l’universale è infinitamente più facile che esaminare ogni singolo fatto che si presenta nella sua specificità. Con la logica, però, accade esattamente l’opposto. Essa è la conoscenza generale del modo in cui la ragione procede, conseguita per mezzo dell’auto-osservazione della ragione stessa e astraendo da ogni contenuto, ed espressa sotto forma di regole. Questo modo di procedere è, per la ragione, necessario ed essenziale: essa, non appena venga lasciata a se stessa, non se ne può in nessun caso allontanare. Il suo autentico valore essa lo ottiene soltanto in connessione con la filosofia nel suo insieme, con l’esame della coscienza e, propriamente della conoscenza razionale e astratta. Essa dovrebbe essere diretta a far conoscere l’essenza della ragione e dei concetti e a considerare in modo più analitico il principio di ragione del conoscere: la logica ne è una pura e semplice parafrasi e vale più precisamente solo nel caso in cui il principio che dà verità ai giudizi non sia empirico o metafisico, bensì logico o metalogico.
- Accanto al principio di ragione del conoscere debbono perciò essere poste le tre leggi fondamentali del pensiero, o giudizi di verità metalogica, che gli sono così affini; da ciò sorge poi l’intera tecnica della ragione. L’essenza del pensare vero e proprio, ossia l’essenza del giudizio e della deduzione, è descrivibile con l’unione delle sfere concettuali e da ciò vanno derivate tutte le regole del giudizio e della deduzione.
- Per quanto piccola possa essere l’utilità pratica della logica, tuttavia non si può negare che sia stata inventata per uno scopo pratico. Si comprese che, oltre all’accordo unanime sul lessico da usare, anche nel modo di ricondursi alla verità da tutti riconosciuta e nel tentativo di derivare da essa le proprie asserzioni, venivano seguite certe forme e certe leggi intorno alle quali non sorgeva mai alcun dissenso, anche in assenza di un accordo precedente, e da questo ci si rese conto che tali forme e tali leggi dovevano costituire il modo di procedere caratteristico della ragione, insito nella sua stessa essenza, ossia l’aspetto formale della ricerca. Si trovarono così, a poco a poco, espressioni più o meno perfette per i principi logici, come il principio di contraddizione, il principio di ragion sufficiente, il principio del terzo escluso, il significato che si predica di tutti gli individui si predica anche dei singoli e che ciò che non si predica di nessuno non si predica nemmeno dei singoli, nonché le regole peculiari della sillogistica, come per esempio da premesse solo particolari o negative non segue nulla, la deduzione dal fondato al fondante non è lecita, e così via. Che di ciò, tuttavia, si venisse a capo solo lentamente e in modo molto faticoso e che prima di Aristotele tutto questo fosse rimasto assai imperfetto, è cosa nota.
§ 10 La certezza
Con tutto questo ci avviciniamo sempre di più alla questione di come sia raggiungibile la certezza, di come debbano essere fondati i giudizi, in che cosa consiste in sapere e la scienza che noi, accanto al linguaggio e all’agire assennato, celebriamo come il terzo grande privilegio concessoci dalla ragione.
- La ragione può dare soltanto dopo aver ricevuto. Di per se stessa non possiede nient’altro se non le forme vuote del suo operare. Così non si dà nessun’altra conoscenza razionale assolutamente pura al si fuori dei quattro principi ai quali è associata una verità metalogica, e cioè:
- il principio di identità,
- di contraddizione,
- del terzo escluso,
- di ragione sufficiente.
Persino il resto della logica, infatti, non è già più una conoscenza razionale assolutamente pura, poiché presuppone le relazioni e le combinazioni delle sfere concettuali; ma i concetti, in genere, si danno solo in seguito a rappresentazioni intuitive che li abbiano preceduti, la relazione con le quali esaurisce l’intera loro essenza, sì che, di conseguenza, essi la presuppongono già. Poiché, però, questo presupposto non si estende al contenuto determinato dei concetti, ma solo a una loro esistenza generale, la logica può ugualmente, considerata nell’insieme, valere come pura conoscenza razionale. In tutte le altre scienze la ragione riceve il contenuto dalle rappresentazioni intuitive legate alla conoscenza a priori della legge di causalità nello spazio-tempo.
- Sapere, in generale, significa dominare con la propria mente, così da riprodurli secondo la propria volontà, giudizi tali che abbiano il principio sufficiente per la loro conoscenza in qualcosa di esterno, ossia tali che siano veri. Soltanto la conoscenza astratta è dunque un sapere; l’aver fissato in concetti della ragione ciò che è stato conosciuto per una via del tutto diversa.
§ 11 Il sentimento
L’autentico contrario del sapere è il sentimento. Il concetto designato dalla parola sentimento ha solo un contenuto del tutto negativo, ossia che qualcosa, che è presente nella coscienza, non è né concetto né conoscenza astratta della ragione. Del resto, qualsiasi contenuto può essere posto sotto il concetto di sentimento, la cui sfera, enormemente ampia, comprende le cose più eterogenee, delle quali non si vede proprio come possano stare insieme fino a quando non si sia riconosciuto che concordano solo per questo aspetto negativo, di non essere concetti astratti.
- Tutti i concetti – e concetti sono solo quelli che vengono contrassegnati dalle parole – esistono solo per la ragione e provengono da essa: già con i concetti ci si pone dunque da un punto di vista unilaterale. Ma, da questo punto di vista, ciò che è più vicino appare chiaro e viene posto come un positivo; ciò che è lontano scorre confusamente e presto viene considerato come meramente negativo. La medesima unilateralità – si potrebbe anche dire la medesima rozza ignoranza che nasce dall’orgoglio – fa cadere in errore, per quanto ciò possa suonare strano, la ragione stessa, ove essa comprenda sotto il solo concetto di sentimento ogni modificazione della coscienza, purché non appartenga immediatamente al proprio modo di rappresentare, purché ciò non sia un concetto astratto.
§ 12 Il sapere
Sapere, il cui opposto contraddittorio è il concetto di sentimento, è ogni conoscenza astratta, ossia conoscenza razionale. Ora però, dato che la ragione offre alla conoscenza sempre soltanto ciò che ha ricevuto in altro modo, essa in effetti non estende il nostro sapere, ma si limita a conferirgli una forma diversa. Vale a dire che ciò che era stato conosciuto come oggetto di intuizione, ciò che era stato conosciuto in concreto, ce lo fa conoscere come astratto e universale.
- Ogni sicura conservazione, ogni comunicabilità e ogni applicazione sicura e di vasta portata della conoscenza alla pratica dipendono dal suo essere diventata un sapere, una conoscenza astratta. La conoscenza intuitiva vale sempre soltanto per un unico caso, procede solo verso ciò che è prossimo e rimane ferma adesso, poiché sensibilità e intelletto, in realtà, possono afferrare soltanto un oggetto alla volta. Ogni attività durevole, coerente, pianificata deve perciò muovere da principi, e dunque da un sapere astratto, e deve quindi essere guidata da esso. Così per esempio, la conoscenza dell’intelletto che ha della relazione di causa ed effetto. È senza dubbio in sé molto più completa, profonda ed esaustiva rispetto a ciò che di essa può essere pensato in astratto. Tuttavia, in ragione della caratteristica della conoscenza intuitiva di riferirsi alla sola presenza immediata, il puro intelletto non è sufficiente per giungere alla costruzione di macchine ed edifici: qui deve piuttosto subentrare la ragione, la quale deve sostituire alle intuizioni i concetti astratti, da prendere come norma delle azioni in modo che, se essi sono esatti, il nostro agire sia coronato da successo.
- Le relazioni spaziali non possono, però, essere condotte immediatamente e come tali nella conoscenza astratta, cosa che invece può essere fatta solo con le grandezze temporali, ossia con i numeri. Solo i numeri possono essere espressi in concetti astratti che corrispondono loro in modo preciso, non le grandezze spaziali. Pertanto, se si vogliono conoscere in modo astratto le relazioni spaziali, esse devono essere prima convertite in relazioni temporali, ossia in numeri. Viceversa, il tempo rientra facilmente nei concetti astratti, ma si presta assai poco all’intuizione: la nostra intuizione dei numeri nel loro elemento specifico, il puro tempo, senza l’intervento dello spazio arriva a mala pena a dieci; al di là del dieci noi abbiamo soltanto concetti astratti e non abbiamo più una conoscenza intuitiva dei numeri; al contrario noi colleghiamo a ogni numero e a tutti i segni algebrici dei concetti astratti determinati in modo preciso.
- Il maggior pregio del sapere, della conoscenza astratta, consiste nella sua comunicabilità e nella possibilità di essere conservato stabilmente, ed è proprio per questo che ha un valore così inestimabile per la pratica. Per costruire una macchina basta quella conoscenza intellettuale puramente intuitiva, se l’inventore porta a termine il lavoro da solo, come si vede spesso fare da artigiani pieni di talento del tutto digiuni di scienza; per contro, non appena, per realizzare un’operazione meccanica, una macchina, una costruzione, diventano necessarie più persone e un’attività da svolgere in modo coordinato e in tempi diversi, allora colui che le dirige deve aver disegnato il piano in astratto, ed è solo grazie al concorso della ragione che diventa possibile un’azione coordinata di questo genere.
- È tuttavia singolare che in quel primo tipo di attività nel quale qualcuno deve da solo portare a termine qualcosa con un’attività ininterrotta, il sapere, l’utilizzo della ragione, la riflessione possano essergli addirittura di ostacolo: attività in cui l’azione deve essere guidata immediatamente dalla conoscenza intuitiva; il passare attraverso la riflessione la rende lenta e malsicura, dato che frammenta l’attenzione e confonde la persona. Per esempio, virtù e santità non provengono dalla riflessione, bensì dall’intima profondità del volere e dalla sua relazione col conoscere. Qui osserviamo solo che i dogmi che si riferiscono all’etica possono essere i medesimi nella ragione di intere nazioni, e tuttavia l’agire di ciascun individuo può essere diverso, e viceversa: l’agire obbedisce, come si suol dire, ai sentimenti, e dunque non solo ai concetti, soprattutto quando hanno un contenuto etico. I dogmi tengono occupata la ragione oziosa: l’azione segue alla fine il suo cammino indipendentemente da essi, per lo più non secondo massime astratte, ma secondo massime tacite, la cui espressione è costituita appunto dall’uomo stesso nella sua integralità. Perciò, per quanto diversi siano i dogmi religiosi dei popoli, tuttavia per tutti l’azione buona si accompagna a una soddisfazione indicibile, quella cattiva a un orrore infinito: non c’è derisione che possa far vacillare la prima, non c’è assoluzione che liberi dal secondo.
- Con questo, tuttavia, non si deve negare che l’utilizzo della ragione non sia necessario per una condotta virtuosa: solo che non ne è la fonte; la sua, piuttosto, è una funzione subordinata, vale a dire che consiste nella conferma delle decisioni già prese e nel mantenimento delle massime, allo scopo di resistere alle debolezze momentanee e di essere coerenti nelle azioni. Il medesimo ruolo, infine, essa lo svolge anche nell’arte, nella quale, pur non svolgendo la parte principale, sostiene l’esecuzione, perché il genio non è a disposizione in ogni momento, ma l’opera deve lo stesso essere compiuta in ogni sua parte e costituire un tutto.
§ 13 Il riso
Le riflessioni relative sia ai vantaggi che agli svantaggi dell’uso della ragione devono servire a chiarire che, anche se il pensiero astratto è il riflesso della rappresentazione intuitiva e si fonda su di essa, non è però in alcun modo così congruente ad essa da poterne prendere il posto in ogni occasione; anzi non le corrisponde mai in modo perfetto. Perciò, è sì vero che molte azioni umane vengono condotte a termine solo grazie all’aiuto della ragione e dell’agire riflessivo, ma ce ne sono comunque alcune che riescono meglio senza il suo impiego. Proprio quella incongruenza della conoscenza intuitiva e della conoscenza astratta, in forza della quale questa si avvicina a quella sempre e soltanto come il lavoro musivo si avvicina alla pittura, è ora anche il fondamento di un fenomeno assai curioso che, proprio come la ragione, appartiene esclusivamente alla natura umana, e del quale sinora sono state tentate sempre nuove spiegazioni, che si sono poi rivelate del tutto insufficienti: mi riferisco al riso.
- Il riso sorge sempre da nient’altro che dalla percezione improvvisa di una incongruenza tra un concetto e gli oggetti reali che, grazie ad esso, venivano pensati in una relazione qualsiasi, e non è appunto altro che l’espressione di questa incongruenza. Essa spesso spunta fuori perché due o più oggetti reali vengono pensati attraverso un unico concetto, la cui identità viene trasferita ad essi; solo che poi la loro completa diversità nel resto rende evidente che il concetto si adattava ad essi solo parzialmente. Allo stesso modo, tuttavia, può esistere un singolo oggetto reale la cui incongruenza con il concetto, al quale era stato da un certo punto di vista sussunto con ragione, diventa all’improvviso sensibile. Ora, quanto più giusta è, da una parte, la sussunzione di tali realtà sotto il concetto, e quanto più ampia e stridente è, dall’altra parte, la loro inadeguatezza, tanto più forte è l’effetto del ridicolo che scaturisce da tale contrasto. Il riso sorge sempre dunque a motivo di una sussunzione paradossale e perciò inattesa, non importa se espressa con le parole o i fatti. È questa, detta in breve, la spiegazione corretta del ridicolo.
- Al buffo appartiene anche la pedanteria. Essa sorge dal fatto che si ha poca fiducia nel proprio intelletto e che perciò non lo si vuole lasciare libero di riconoscere immediatamente in ogni singolo caso la strada giusta, ponendolo di conseguenza in tutto e per tutto sotto la tutela della ragione e servendosi di essa in ogni occasione; vale a dire che si vuole partire sempre da concetti universali, da regole, da massime, e ci si vuole attenere scrupolosamente ad esse nella vita, nell’arte e persino nella buona condotta morale. Di qui l’attaccamento della pedanteria alla forma, alla maniera, all’espressione, alla parola, che in essa hanno preso il posto dell’essenza della cosa. Qui si vede subito l’incongruenza tra concetto e realtà, si vede come quello non scenda mai sino al particolare e come la sua universalità e la sua rigida determinatezza non possano mai adattarsi alle sottili sfumature e alle svariate modificazioni della realtà. Il pedante perciò, con le sue massime generali, è sempre inadeguato alla vita, si mostra imprudente, scontato, inutile; nell’arte, per la quale il concetto è sterile, produce opere esanimi, rigide, prive di originalità. Persino dal punto di vista etico il proposito di agire in modo giusto e nobile non può sempre essere messo in atto secondo massime astratte, poiché in molti casi la natura infinitamente sottile e sfumata delle circostanze rende necessario che la scelta corretta sia determinata in modo immediato dal carattere dell’individuo.
§ 14 La scienza
Torniamo adesso a prendere in esame la scienza, intesa come ciò che, accanto al linguaggio e all’azione riflessa, è il terzo privilegio che la ragione ha concesso all’uomo.
- Abbiamo visto che, eccezion fatta per il fondamento della logica pura, non c’è sapere che trovi la propria origine nella ragione come tale: il sapere si ottiene per altra via sotto forma di coscienza intuitiva, è stato deposto in essa, passando così in un genere del tutto diverso di conoscenza, ossia nella conoscenza astratta.
- Ogni sapere, ossia ogni conoscenza elevata in astratto alla coscienza, sta alla scienza vera e propria come un frammento sta all’intero. Ogni uomo ha raggiunto, attraverso l’esperienza, attraverso l’esame dei singoli casi che si presentano, un sapere relativo a diverse cose: tuttavia soltanto a chi si assume il compito di conseguire una completa conoscenza in astratto intorno a un unico tipo di oggetti tende alla scienza. È solo per mezzo del concetto che egli può selezionare quel determinato tipo; è per questo che alla sommità di ciascuna scienza si trova un concetto per mezzo del quale viene pensata una parte della totalità delle cose, ed è di tale parte che la scienza promette una compiuta conoscenza in astratto.
- Se la scienza volesse raggiungere grazie a ciò la conoscenza dei suoi oggetti, studiando a una a una tutte le cose pensate per mezzo del concetto, sino a giungere a poco a poco alla conoscenza della totalità, da un lato nessuna memoria umana sarebbe sufficiente, dall’altro non si potrebbe raggiungere alcuna certezza della loro completezza.
- Questo cammino della conoscenza caratteristico delle scienze, che va dall’universale al particolare, implica che in esse molto si fondi sulla deduzione da principi precedenti, quindi su dimostrazioni, il che ha determinato l’antico errore consistente nel ritenere che solo ciò che è stato dimostrato sia completamente vero e che ogni verità abbia bisogno di una dimostrazione. È vero piuttosto il contrario, ossia che ogni dimostrazione ha bisogno di una verità indimostrata che da ultimo la sostenga, o che comunque sostenga le dimostrazioni su cui essa si fonda: di conseguenza una verità che abbia un fondamento immediato è preferibile a una verità che si fondi su di una dimostrazione.
- L’intuizione, sia essa pura, a priori, come nella matematica, sia essa empirica, a posteriori, come quella da cui derivano tutte le altre scienze, è la fonte di ogni verità e il fondamento di ogni scienza (fa eccezione solo la logica, la quale si fonda sulla conoscenza non intuitiva, e tuttavia immediata, che la ragione ha delle proprie leggi).
- Non i giudizi dimostrati, né le loro dimostrazioni, bensì quei giudizi che sono prodotti in modo immediato dall’intuizione e fondati, anziché su una qualsiasi dimostrazione, su di essa, sono nella scienza ciò che il sole è per la terra: da essi infatti proviene ciò che illumina gli altri corpi rendendoli a loro volta luminosi. Fondare in modo immediato la verità di questi primi giudizi sull’intuizione, trae fuori dall’enorme massa delle cose reali tali cardini della scienza, è questa l’opera della capacità di giudizio, la quale consiste nella facoltà di trasferire con esattezza e precisione nella coscienza astratta ciò che è conosciuto intuitivamente, ed è perciò l’intermediaria fra intelletto e ragione.
- La mancanza di capacità di giudizio si chiama stoltezza. Lo stolto fraintende ora la parziale o relativa differenza di ciò che da un certo punto di vista è identico, ora l’identità di ciò che da un punto di vista relativo o parziale è diverso.
- Dato che tutte le dimostrazioni sono sillogismi, per avere una nuova verità non si deve cercare in primo luogo una dimostrazione, bensì l’evidenza immediata, e solo per il tempo in cui essa viene a mancare, costruire temporaneamente una dimostrazione. Nessuna scienza può essere dimostrata completamente: tutte le sue dimostrazioni devono ricondurre a qualcosa di intuitivo, e perciò di non più dimostrabile: l’intero mondo della riflessione, infatti, si appoggia e si radica nel mondo dell’intuizione. Ogni evidenza ultima, e cioè originaria, è un’evidenza intuitiva, come mostra la parola stessa. Perciò essa può essere o empirica, oppure fondata sull’intuizione a priori delle condizioni dell’esperienza possibile: in entrambi i casi essa produce però una conoscenza solo immanente, non trascendente.
- Ogni concetto trova la propria validità e la propria esistenza solo nella relazione, peraltro assai mediata, con una rappresentazione intuitiva: ciò che vale per i concetti, vale anche per i giudizi (che sono composti da concetti) e per tutte le scienze. Perciò deve essere in qualche modo possibile conoscere immediatamente, anche senza dimostrazioni e sillogismi, ogni verità che sia stata scoperta per mezzo di sillogismi e comunicata per mezzo di dimostrazioni. Per esempio, il moto apparente dei pianeti viene conosciuto empiricamente; dopo molte false ipotesi sulla relazione spaziale di tale moto (l’orbita dei pianeti), fu infine trovata quella giusta e poi le leggi cui essa obbedisce (le leggi di Keplero), infine anche la loro stessa causa (la gravitazione universale), e a tutte le ipotesi diede una certezza perfetta l’accordo empiricamente riconosciuto di tutti i casi accaduti con esse e con le loro conseguenze, ossia l’induzione. La scoperta delle ipotesi è stata una faccenda che ha riguardato la capacità di giudizio, la quale ha compreso con esattezza e ha espresso in modo conforme i dati di fatto; a confermare la loro verità, tuttavia, è stata l’induzione, ossia l’intuizione del molteplice. Questa, però, avrebbe potuto anche fondarsi immediatamente su di un’unica intuizione empirica, se noi avessimo potuto attraversare liberamente gli spazi cosmici e avessimo potuto avere degli occhi telescopici. Ne segue che le deduzioni non sono la fonte unica ed essenziale, bensì sempre e solo, in realtà, un espediente.
- Ciò che è certo a priori lo riconosciamo immediatamente: esso, come forma di ogni conoscenza, ci è noto con la massima necessità. L’autentico fondamento di tutte le verità che son chiamate in questo senso metafisiche, ossia espressioni astratte delle forme necessarie e universali della conoscenza, non può consistere a sua volta in principi astratti, bensì solo nella coscienza immediata delle forme della rappresentazione, che si manifesta attraverso affermazioni apodittiche capaci di resistere a ogni tentativo di confutazione. Se tuttavia si vuol darne ugualmente una prova, allora essa può consistere solo nella dimostrazione che la verità che deve essere provata è già contenuta come parte o come presupposto in qualche altra verità che non venga messa in dubbio.
- Ogni deduzione da concetti, a motivo del vario intrecciarsi delle loro sfere di influenza e della determinazione spesso incerta del contenuto, è esposta alla possibilità di molti inganni; della qual cosa sono un esempio le molte dimostrazioni di teorie false e di sofismi di ogni genere. I sillogismi sono, per la verità, del tutto certi per ciò che concerne la forma: solo che essi sono assai insicuri per ciò che concerne la loro materia (i concetti) in parte perché le loro sfere spesso non sono determinate in modo abbastanza netto, in parte perché si intersecano in modo così vario che una sfera è parzialmente contenuta in molte altre, e da essa si può passare liberamente nell’una o nell’altra, e da questa a un’altra ancora e così via. Ne segue che la stessa evidenza immediata è di gran lunga preferibile alla verità dimostrata; quest’ultima può essere accettata soltanto quando quella dovrebbe essere cercata troppo lontano, e non quando essa è altrettanto o addirittura più vicina. Perciò, di fatto, nella logica, nella quale la conoscenza immediata sta in ogni caso più vicina della conoscenza deduttiva propria della scienza, noi orientiamo sempre il nostro pensiero secondo la conoscenza immediata delle leggi del pensiero e non ricorriamo alla logica.
§ 15 La ragione come forza conoscitiva particolare
Se noi ora, convinti come siamo che che l’intuizione sia la fonte primaria di ogni evidenza, e la relazione immediata o mediata con essa la sola verità assoluta, che inoltre la via più breve per giungere ad essa sia anche quella più sicura, dato che ogni intervento dei concetti espone al rischio di numerosi inganni; se noi, dico, con questa convinzione ci volgiamo alla matematica di Euclide e come è rimasta nel complesso sino ad oggi, non possiamo fare a meno di trovare strana, addirittura assurda la via che percorre.
- Esiste una profonda differenza tra la mera ragione della conoscenza di una verità matematica, che può essere data logicamente, e la ragione dell’essere, che è la connessione immediata, conoscibile solo intuitivamente, delle parti dello spazio e del tempo, il prendere in esame la quale è la sola cosa che permetta un autentico appagamento e una conoscenza approfondita, laddove la mera ragione della conoscenza si mantiene in superficie e, se può fornirci un sapere che ci dica che qualcosa sta in un certo modo, non ci può invece dire perché stia nel modo in cui sta. Euclide ha seguito questa via, con danno evidente per la scienza. In effetti questa conoscenza empirica e non-scientifica somiglia a quella del medico che conoscesse separatamente tanto la malattia quanto il rimedio, ma non la relazione che li unisce. L’atteggiamento di Euclide è fortemente giustificato dal modo di indagare in uso in quei tempi.
- Gli Eleati per primi scoprirono la differenza, anzi in frequente conflitto tra il percepito, il phainomenon, e il pensato, il noumenon, e se ne servirono per i loro filosofemi e persino per i veri e propri sofismi. A loro fecero seguito, più tardi, Megarici, Dialettici, Sofisti, Neo-Accademici e Scettici; costoro richiamarono l’attenzione sull’apparenza, ossia sull’inganno dei sensi, o piuttosto dell’intelletto che trasforma in intuizioni i dati forniti da questi ultimi, inganno che sovente ci fa vedere cose delle quali la ragione nega con sicurezza la realtà, come per esempio il bastone spezzato nell’acqua.
- Si riconobbe che non ci si deve fidare in modo incondizionato dell’intuizione sensibile e si concluse in modo frettoloso che solo il pensiero logico-razionale potesse dare fondamento alla verità; anche se Platone, i Megarici, Pirrone e i Neo-Accademici mostrarono con degli esempi che d’altra parte anche i ragionamenti e i concetti inducono in errore, anzi creano paralogismi e sofismi, i quali sorgono più facilmente e sono più difficili da cancellare dell’apparenza nell’intuizione sensibile.
- In ogni caso, però, quel razionalismo, sorto in contrapposizione all’empirismo, ha mantenuto il sopravvento, e in conformità ad esso Euclide elaborò la matematica, basando per necessità sull’evidenza intuitiva solo gli assiomi, ma tutto il resto su ragionamenti.
- Solo due millenni dopo, con la dottrina di Kant, abbiamo appreso che le intuizioni dello spazio e del tempo sono del tutto diverse da quelle empiriche e del tutto differenti dalle impressioni dei sensi, dato che sono esse a condizionarle senza esserne condizionate, ossia che sono a priori, e quindi impermeabili all’inganno dei sensi. Soltanto ora possiamo affermare con sicurezza che ciò che si rende noto con necessità nell’intuizione di una figura non deriva dalla figura disegnata sulla carta, magari in modo molto imperfetto, e nemmeno dal concetto astratto con il quale noi la pensiamo, bensì direttamente dalla forma di ogni conoscenza, della quale noi siamo consapevoli a priori che è sempre il principio di ragione: qui esso è, come forma dell’intuizione, ossia come spazio, principio di ragione dell’essere, la cui evidenza e la cui validità sono altrettanto grandi e immediate di quelle del principio di ragione della conoscenza, ossia di quella della certezza logica.
- Quello che è assolutamente certo e sempre inesplicabile è il contenuto del principio di ragion sufficiente. Esso, infatti, nelle sue diverse forme, definisce la forma generale di tutte le nostre rappresentazioni e di tutte le nostre conoscenze. Ogni spiegazione è un ricondursi ad esso, un provare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni che esso esprime in generale. Esso è dunque il principio di ogni spiegazione, né ne ha bisogno, dato che ogni spiegazione già lo presuppone, e solo per suo tramite acquista un significato. Nessuna delle sue forme ha però una priorità sulle altre: esso è ugualmente certo e indimostrabile sia come principio di ragione dell’essere, che del divenire, dell’agire, o del conoscere. La relazione tra ragione e conseguenza è, nell’una come nell’altra delle sue forme, una relazione necessaria; anzi essa è, in generale, l’origine e il solo significato del concetto di necessità.
- L’evidenza della matematica, che è diventata modello e simbolo di ogni evidenza, non si fonda per sua natura su dimostrazioni, bensì sull’intuizione immediata, la quale perciò, qui come dappertutto, è il fondamento ultimo e la fonte di ogni verità. Tuttavia, l’intuizione che sta a fondamento della matematica ha un grande vantaggio rispetto a qualsiasi altra, anche rispetto a quella empirica. Essa è infatti a priori, ed è perciò indipendente dall’esperienza, che si dà sempre solo in modo parziale e sotto la forma della successione; tutto le sta ugualmente vicino e si può prendere le mosse a piacere dal principio o dalla conseguenza. Ora, questo la rende assolutamente infallibile, poiché in essa la conseguenza viene riconosciuta a partire dal principio, la cui conoscenza è la sola che abbia necessità.
- Viceversa, ogni intuizione empirica e la gran parte di ogni esperienza procedono solo dalla conseguenza al principio, un modo di procedere che non è infallibile, dato che la necessità compete unicamente alla conseguenza, una volta che sia dato il principio, ma non alla conoscenza del principio a partire dalla sua conseguenza, dato che tale conseguenza può scaturire anche da principi differenti. Quest’ultimo tipo di conoscenza è sempre solo induttiva: è a partire da una molteplicità di conseguenze, interpretate come provenienti da un unico principio, che accettiamo quel principio come certo; dato che, però, i casi non possono essere raccolti tutti, la verità qui non può essere totalmente certa.
- Le dimostrazioni logiche ricavate da concetti, ossia i sillogismi, hanno, proprio come la conoscenza intuitiva a priori, il vantaggio di andare dal principio alla conseguenza, ragion per cui esse sono in se stesse, ossia per ciò che concerne la loro forma, infallibili. Ciò ha contribuito molto a far sì che queste dimostrazioni siano state tenute in genere in così grande considerazione. Solo che questa loro infallibilità è relativa: esse si limitano a sussumere sotto i principi superiori della scienza, ma sono questi ultimi a contenere tutte le basi della verità della scienza, e non possono a loro volta essere semplicemente dimostrati, ma devono invece fondarsi sull’intuizione che è sempre empirica e può essere elevata all’universale solo grazie all’induzione.
- Intorno all’origine e alla possibilità dell’errore sono state tentate molte spiegazioni. Dato che la verità è la relazione di un giudizio con il suo principio di conoscenza, è davvero un problema spiegare come chi giudica possa effettivamente credere di possedere un principio del genere e tuttavia non possederlo, ossia spiegare come l’errore, l’inganno della ragione, sia possibile.
- Io trovo questa possibilità del tutto analoga a quella dell’illusione, o inganno dell’intelletto. La mia opinione è che ogni errore è una deduzione che va dalla conseguenza al principio, la quale in effetti ha valore solo ove si sappia che la conseguenza può avere soltanto quel principio, ma non negli altri casi. Chi commette un errore, oppure attribuisce alla conseguenza una premessa che non può affatto avere, dimostra una vera e propria deficienza intellettuale, costituita dalla incapacità di comprendere in modo adeguato quale relazione intercorra tra la causa ed l’effetto.
- Per ciò che concerne il contenuto delle scienze in generale, esso è propriamente sempre il rapporto reciproco dei fenomeni del mondo, in conformità del principio di ragione e al filo conduttore del «perché?», che solo in virtù di esso ha valore e significato. L’indicazione di quella relazione si chiama spiegazione. Quest’ultima, perciò, non può mai fare di più che mostrare due rappresentazioni nella loro reciproca relazione, secondo la forma del principio di ragione che predomina nella classe alla quale esse appartengono. Una volta che si sia giunti a questo punto, non è possibile chiedere ancora «perché?», poiché la relazione indicata è tale che non è assolutamente possibile rappresentarla altrimenti, il che equivale a dire che essa è la forma di ogni conoscenza.
- Ogni spiegazione che non sia riconducibile a un tipo di relazione oltre la quale non sia consentito chiedere ancora alcun «perché?» Si arresta davanti a una presunta qualitas occulta, ma anche tutte le forze naturali originarie sono di questo tipo. Davanti a simili qualità, ossia davanti a qualcosa che è totalmente oscuro, deve alla fine arrestarsi ogni spiegazione scientifica della natura. Così, per esempio, è una qualitas occulta la gravità, poiché è possibile immaginare che non ci sia e non proviene in modo necessario dalle forme del conoscere; questo, al contrario, è il caso del principio d’inerzia, che segue la legge di causalità, ed è per questo che il ricondursi ad esso costituisce una spiegazione del tutto sufficiente.
- Due cose sono in effetti assolutamente inspiegabili, ossia non possono essere ricondotte alla relazione espressa dal principio di ragione: anzitutto il principio di ragione stesso, in tutte le sue quattro forme, poiché esso è il principio di tutte le spiegazioni, il principio solo in relazione al quale esse hanno senso; e, in secondo luogo, ciò che non viene raggiunto da esso, da cui però proviene ciò che vi è di originario in tutti i fenomeni: intendo la cosa in sé, la cui conoscenza non è affatto sottoposta al principio di ragione.
- Nelle diverse scienze, il filo conduttore principale è costituito dall’una o dall’altra delle forme di quel principio. Ogni spiegazione ottenuta seguendo quel filo conduttore è tuttavia sempre soltanto relativa: essa spiega le cose nel loro reciproco rapporto, ma lascia sempre non spiegato qualcosa che, appunto, essa già presuppone; di questo genere sono, nella matematica, lo spazio e il tempo; nella meccanica, nella fisica e nella chimica la materia, le qualità, le forze elementari, le leggi naturali; nella botanica e nella zoologia le diversità delle specie e la vita stessa; nella storia il genere umano con tutte le sue peculiarità del pensare e del volere: in tutte è presente il principio di ragione nella forma che volta per volta viene utilizzata.
- La filosofia ha questo di proprio, di non presupporre nulla come noto; tutto le è in egual misura sconosciuto e tutto è per essa un problema, non solo i rapporti fra i fenomeni, ma anche i fenomeni medesimi e persino lo stesso principio di ragione, al quale le altre scienze si contentano di ricondurre tutte le cose, in quanto la filosofia non avrebbe nulla da guadagnare dal ricondursi a esso, dato che un elemento della serie le è sconosciuto come l’altro, e anche quel modo di connettere è per essa un problema tanto quanto lo sono gli elementi connessi per mezzo di essa, e questi ultimi, anche dopo che sia stata mostrata la loro connessione, rimangono un problema com’erano prima che essa venisse mostrata.
- La filosofia è anche il sapere più universale di tutti, sì che i suoi principi fondamentali non possono essere conseguenza di un altro sapere che sia ancora più universale. Il principio di contraddizione fissa solamente l’accordo tra i concetti, ma non fornisce esso stesso dei concetti. Il principio di ragione spiega il collegamento tra i fenomeni, non i fenomeni stessi: perciò la filosofia non può andare alla ricerca di una causa efficiente o di una causa finale del mondo nella sua interezza.
- La filosofia non deve ricercare in nessun modo da dove venga o verso dove sia diretto il mondo, bensì di deve limitare a ricercare che cosa il mondo sia. Il perché, tuttavia, è subordinato qui al che cosa, poiché esso appartiene già al mondo, dato che sorge solo grazie alle forme del suo apparire, ossia grazie al principio di ragione, e solo in quanto tale possiede significato e validità. In verità, si potrebbe dire che ciascuno conosce da sé, senza nessun altro aiuto, che cosa sia il mondo, dato che egli stesso è il soggetto della conoscenza, di cui il mondo è rappresentazione. Solo che quella è una conoscenza intuitiva, concreta: riprodurla in astratto, elevare a un sapere di questo genere, a un sapere durevole l’intuizione della successione, della mutevolezza, e specialmente tutto ciò che l’ampio concetto di sentimento abbraccia e indica solamente in modo negativo come sapere non astratto, non chiaro, questo è il compito della filosofia.
- Essa deve perciò essere un’affermazione astratta dell’essenza di tutto il mondo, nella sua interezza come nelle sue parti. Tuttavia, per non perdersi in una quantità di giudizi particolari, essa deve servirsi dell’astrazione e pensare tutti i casi singolari nell’universale e, nel contempo, le loro differenze nell’universale: perciò dovrà in parte separare, in parte unificare, al fine di trasmettere al sapere tutta la molteplicità del modo, secondo la sua essenza, unificata in pochi concetti astratti.
§ 16 La ragione come guida delle azioni dell’uomo
Già all’inizio del nostro esame della ragione abbiamo osservato, in generale, quanto l’agire e la condotta dell’uomo siano diversi da quella dell’animale, ma anche che questa differenza deve essere considerata solo come conseguenza della presenza di concetti astratti nella coscienza. L’assenza della ragione limita gli animali alle rappresentazioni intuitive immediatamente presenti nel tempo, ossia agli oggetti reali; noi, al contrario, grazie alla conoscenza astratta, abbracciamo, oltre all’ambito ristretto di ciò che è realmente presente, anche il passato e il futuro nella loro interezza, nonché l’ampio dominio delle possibilità. Quello che dunque nello spazio e per la conoscenza sensibile è l’occhio, nel tempo e per la conoscenza interiore in un certo qual senso lo è la ragione. Come tuttavia la visibilità degli oggetti ha valore e significato solo in quanto annuncia la loro tangibilità, così l’intero valore della conoscenza astratta sta sempre nella sua relazione con quella intuitiva. Proprio per questo l’uomo naturale dà sempre molto più valore a ciò che ha conosciuto immediatamente e intuitivamente che ai concetti astratti, a ciò che è puramente pensato: egli preferisce la conoscenza empirica a quella logica.
- Lo sguardo d’insieme sulla vita nel suo complesso, che l’uomo, grazie alla ragione, ha in più rispetto all’animale, può anche essere paragonato a una mappa geometrica, incolore, astratta, rimpiccolita, del corso della vita.
- Da ciò deriva il fatto notevole, anzi straordinario, che l’uomo, accanto alla sua vita concreta, ne conduce sempre anche una seconda in astratto. Nella prima egli è in balìa di tutte le tempeste della realtà e dell’influenza del presente, deve desiderare, soffrire, morire come l’animale. Ma la sua vita in astratto, che sta dinnanzi alla sua riflessione razionale, è il calmo rispecchiarsi della prima e del mondo in cui egli vive, è appunto quella mappa rimpiccolita che abbiamo menzionato. Qui, nel campo della riflessione pacata, gli appare freddo, incolore e, almeno nell’istante presente, estraneo ciò che là lo possiede completamente e lo agita violentemente: qui egli è un semplice spettatore, un osservatore.
- Da questa doppia vita proviene quella tranquillità dell’uomo, così diversa dalla spensieratezza dell’animale, con cui qualcuno, dopo una riflessione ponderata, o in forza di una decisione presa o per il riconoscimento di una necessità, lascia freddamente che gli capitino, oppure compie egli stesso cose per lui decisive, spesso le più terribili.
- Qui possiamo dire davvero che la ragione si manifesta praticamente: perciò dovunque, ove l’azione venga guidata dalla ragione, dove i motivi siano concetti astratti, dove ciò che induce ad agire non sia costituito da rappresentazioni intuitive isolate, né dall’impressione momentanea che guida l’animale, lì si mostra la ragion pratica.
- Ma ciò è del tutto diverso e indipendente dal valore etico dell’agire; che l’agire razionale e l’agire virtuoso sono due cose del tutto eterogenee; che la ragione si trova unita altrettanto bene sia con una grande malvagità che con una grande bontà e dà all’una come all’altra, con la sua adesione, una grande efficacia; che essa è ugualmente pronta e utilizzabile per la realizzazione metodica, consequenziale di un nobile proposito come di uno cattivo, di una massima intelligente come di una sciocca è evidente in tanti esempi.
- Il più perfetto sviluppo della ragion pratica, nel vero e proprio senso della parola, la vetta più alta cui l’uomo possa giungere utilizzando puramente la propria ragione, e in cui la sua differenza dall’animale si mostra nel modo più chiaro, è rappresentato dall’ideale del saggio stoico.
- L’etica stoica, infatti, non è infatti originariamente e nella sua essenza una dottrina della virtù, quanto piuttosto una guida alla vita condotta secondo ragione, che ha come meta e come fine la felicità conseguita grazie alla quiete dello spirito. La condotta virtuosa è presente in essa, per così dire, solo come mezzo, non come fine. L’etica stoica, tuttavia, mostra che la felicità può essere trovata con sicurezza solo nella pace interiore e nella quiete dello spirito (atarassía), e che quest’ultima, a sua volta, e che quest’ultima, a sua volta, può essere conseguita solo per mezzo della virtù: è questo appunto il solo significato dell’espressione secondo la quale la virtù è il bene supremo.
- Quando però, a poco a poco, si dimentica il fine per il mezzo, e la virtù viene raccomandata in modo che tradisce un interesse del tutto diverso da quello della propria felicità, e che si pone anzi in aperto contrasto con essa, si produce allora una di quelle incongruenze per mezzo delle quali in ogni sistema la verità conosciuta immediatamente o, come si dice, sentita, riporta sulla retta via, facendo violenza ai ragionamenti.
- Stando al modo in cui ho inteso lo spirito dell’etica stoica, la sua origine sta nel pensare se il grande privilegio dell’uomo, la ragione, che in modo mediato, attraverso un agire pianificato e ciò che da esso deriva, alleggerisce così tanto la vita e i suoi fardelli, non sia anche in grado di sottrarlo, del tutto o quasi del tutto, d’un colpo, immediatamente, ossia per mezzo della pura conoscenza, ai dolori e ai tormenti di ogni genere che riempiono la sua vita. Non si è ritenuto consono al privilegio della ragione che l’essere che per mezzo di questo dono abbraccia e vede chiaramente un’infinità di cose e di situazioni dovesse tuttavia essere preda, nel presente e per i casi che i pochi anni di una vita così breve, fugace, incerta possono contenere, di dolori così violenti, di angosce e tormenti così grandi, come sono quelli che sorgono dalla spinta impetuosa del desiderio e dell’avversione, e si pensò che l’uso corretto della ragione potesse elevare l’uomo al di sopra di tutto ciò, riuscendo a renderlo invulnerabile. Perciò Antistene disse: «Ci si deve munire o dell’intelligenza, o del capestro», ossia, la vita è così piena di tribolazioni e di molestie, che deve essere superata o per mezzo del retto pensiero, oppure abbandonata.
- Si comprese che la privazione, il soffrire, non provengono immediatamente e necessariamente dal non-avere, bensì in primo luogo dal voler-avere senza ottenere quel che si vuole; che dunque questo voler-avere è la condizione necessaria perché il non-avere diventi privazione e produca il dolore. «Non è la povertà a produrre il dolore, ma il desiderio» (Epitteto).
- Si riconobbe, oltre a ciò, per esperienza che solo la speranza e il bisogno producono e tengono vivo il desiderio; perciò non ci inquietano e non ci tormentano né i molti mali che sono comuni a tutti e che sono inevitabili, né i beni che ci appaiono irraggiungibili, ma solo l’ambito insignificante del più e del meno, di ciò che l’uomo può evitare e di ciò che può raggiungere; anzi, che non solo ciò che è irraggiungibile o inevitabile in modo assoluto, ma anche ciò che lo è solo in modo relativo, ci lascia del tutto tranquilli. È per questo che i mali che a un certo punto si sono aggiunti alla nostra individualità, o i beni che le debbono restare necessariamente negati, vengono considerati con indifferenza, e che, conformemente a questa peculiarità umana, ogni desiderio rapidamente si spegne, sì che, se non c’è alcuna speranza che lo alimenti, non può più produrre alcun dolore.
- Da tutto questo si ricava che ogni felicità è basata soltanto sul rapporto fra le nostre pretese e ciò che otteniamo; è indifferente quanto sia grande o piccola l’ampiezza dei due termini di questo rapporto, e il rapporto può venire stabilito tanto con la riduzione della prima grandezza, quanto con l’ampliamento della seconda. Analogamente, si ricava che ogni dolore, propriamente, proviene dalla sproporzione tra ciò che chiediamo e attendiamo e ciò che ci è concesso, una sproporzione che, con ogni evidenza, si trova soltanto nella conoscenza e che, attraverso una considerazione più attenta, potrebbe essere eliminata del tutto.
- Infatti, ogni volta che un uomo perde in qualche modo il controllo di se stesso, oppure viene atterrato da una sciagura, o si adira, o si perde d’animo, in questo modo dimostra di trovare le cose diverse da come se le aspettava, e quindi di essere stato in errore, di non aver conosciuto il mondo e la vita, di non aver saputo come, per mezzo del caso, la natura inanimata intralci a ogni passo la volontà di ciascuno, opponendole dei fini contrari o anche servendosi della malvagità: egli dunque, o non ha utilizzato la propria regione per giungere a una conoscenza generale di questa condizione della vita, oppure ha mancato di giudizio, non riuscendo a riconoscere nel caso particolare ciò di cui ha una conoscenza generale e, di conseguenza, si sorprende e perde il controllo di sé.
- Così pure ogni gioia troppo viva è un errore, un’illusione, poiché nessun desiderio realizzato può appagare durevolmente, e perché ogni possesso e ogni felicità ci sono concessi dal caso per un tempo indeterminato e quindi possono essere reclamati indietro all’improvviso. Ogni dolore deriva però dallo scomparire di un’illusione di questo genere; entrambi provengono dunque da una conoscenza difettosa: il saggio, perciò, resta sempre lontano tanto dal giubilo quanto dal dolore, e non c’è avvenimento che possa turbare la sua atarassía.
- In accordo con questo spirito e questo fine della Stoa, Epitteto stabilisce, ritornandoci di continuo come al nocciolo della sua sapienza, che si deve riflettere bene e distinguere ciò che dipende da noi e ciò che non ne dipende, al fine di non fare conto su quest’ultimo; per cui si può avere fiducia di rimanere liberi da ogni dolore, da ogni sofferenza e da ogni angoscia. Ciò che dipende da noi è solo la volontà; e qui si verifica un passaggio graduale alla dottrina della virtù, mentre si osserva che, come il mondo esterno, che non dipende da noi, determina felicità e infelicità, così dalla volontà provengono l’intima soddisfazione o l’insoddisfazione di noi stessi.
- Zenone, il fondatore dello stoicismo, sembra aver seguito in origine un cammino alquanto diverso. Il punto di partenza, per lui, era questo: che per il conseguimento del sommo bene, ossia della beatitudine, per mezzo della quiete dello spirito, bisognasse vivere in accordo con se stessi. Ora, questo però era possibile solo a condizione di poter determinare se stessi in ogni circostanza razionalmente, secondo concetti e non secondo impressioni e umori mutevoli; dato però che solo le massime del nostro agire sono in nostro potere, e non il successo o le circostanze esterne, si doveva, se si voleva mantenersi sempre consequenziali, fare solo di quelle e non di queste lo scopo, con il che si entrava daccapo nella dottrina della virtù.
- Tuttavia, già ai successori immediati di Zenone il suo principio morale – vivere in armonia – sembrò troppo formale e privo di contenuto. Gli diedero perciò un contenuto materiale, aggiungendo «vivere in armonia con la natura», la quale venne introdotta per la prima volta da Cleante e ampliò molto la questione, in ragione dell’ampia sfera del concetto e della indeterminatezza dell’espressione. Infatti Cleante si riferiva a tutta la natura in generale, Crisippo alla natura umana in particolare. L’unica cosa che poteva essere conforme a quest’ultima era quindi la virtù, come la soddisfazione degli istinti animali è conforme alla natura animale, e così si entrava daccapo con forza nella dottrina della virtù e, finisse pure per piegarsi o spezzarsi, l’etica doveva trovare il proprio fondamento nella fisica. Infatti gli stoici puntavano all’unità del principio, tanto che per loro nemmeno Dio e il mondo erano due entità distinte.
- L’etica stoica, considerata nell’insieme, è in effetti un tentativo molto stimabile e degno di considerazione di utilizzo della ragione, che è il privilegio maggiore che l’uomo disponga, per uno scopo importante e salvifico, ossia per sollevarlo al di sopra delle sofferenze e dei dolori che sono toccati in sorte a ogni vita, per mezzo di un suggerimento:
«In che modo tu possa condurre dolcemente la vita
affinché non ti agiti sempre e non ti tormenti l’insaziabile cupidigia
né il timore e la speranza di cose mediocri» (Orazio, Epistole I)
Con ciò rendendo l’uomo in sommo grado partecipe di quella dignità che, in quanto essere ragionevole, gli spetta, al contrario di ciò che accade all’animale, e che può essere intesa solo in questo senso e in nessun altro.
- Questo mio modo di concepire l’etica stoica mi ha costretto a trattarla qui, dove tratto di ciò che la ragione è e di ciò che essa può compiere. È vero che uno scopo di questo genere può fino a un certo punto essere conseguito con l’utilizzo della ragione e con un’etica esclusivamente razionale, dato che infatti anche l’esperienza mostra che coloro che hanno un carattere puramente razionale, quelli che si è soliti chiamare filosofi pratici – e con diritto, poiché, come l’autentico filosofo, ossia il filosofo teoretico, riconduce la vita al concetto, così i filosofi pratici riconducono il concetto alla vita -, sono certamente i più felici; tuttavia manca ancora moltissimo affinché in questo modo si possa conseguire qualcosa di perfetto e affinché la ragione, usata rettamente, possa realmente liberarci da tutto il peso e da tutte le sofferenze della vita e condurci alla felicità.
- C’è piuttosto una completa contraddizione in quel voler vivere senza soffrire che anche la comune espressione «vita beata» porta con sé. Questa contraddizione si rivela anche già nell’etica della ragione pura stessa, per il fatto che lo stoico è costretto a introdurre nelle sue istruzioni per una vita felice (poiché tale rimane sempre la sua etica) una raccomandazione del suicidio per il caso in cui i dolori del corpo, che non si lasciano alleviare da nessun principio e da nessun ragionamento filosofico, risultino predominanti e incurabili, così che l’unico fine dell’etica, la felicità, venga mandato a monte, e non rimanga altro, per sottrarsi alla sofferenza, che la morte, la quale però, in questo caso, deve essere presa con indifferenza come ogni altra medicina.
- Qui diventa evidente una radicale opposizione tra l’etica stoica e le altre etiche, le quali pongono immediatamente come scopo la virtù in sé, anche in presenza delle sofferenze più dolorose, e non vogliono che, per sottrarsi al dolore, si ponga fine alla vita, benché nessuna di esse abbia saputo esprimere il vero motivo per cui si deve rifiutare il suicidio, limitandosi faticosamente a mettere insieme motivi illusori di ogni tipo.
- Ma il contrasto sopra menzionato rivela e conferma proprio la differenza essenziale, che si radica nel principio fondamentale, tra lo stoicismo che, propriamente, è solo una forma particolare di eudemonismo, e le dottrine sopra menzionate, nonostante l’uno e le altre spesso si incontrino nei risultati e abbiano un’apparente parentela.
- Ma la sopra menzionata intima contraddizione, da cui è affetta l’etica stoica persino nel suo pensiero fondamentale, si mostra inoltre anche in questo, che il suo ideale, il sapiente stoico, così come essa stessa ce lo rappresenta, non ha potuto mai ottenere né vita né un’intima verità poetica, ma è rimasto un burattino legnoso e rigido con il quale non è possibile fare nulla e che non sa neanche lui dove andare con la sua saggezza, e la cui perfetta tranquillità, la cui soddisfazione, la cui felicità sono addirittura in contrasto con la natura umana e non ci consentono di giungere da lì a nessuna rappresentazione intuitiva.
- Come appaiono del tutto differenti, posti accanto a lui, gli oltrepassatori del mondo e i penitenti volontari che la sapienza indiana ci presenta e che ha realmente prodotto, oppure anche il Salvatore del cristianesimo, quella figura perfetta, piena di vita profonda, della più grande verità poetica e del più alto significato, che però, nella sua perfetta virtù, santità e superiorità, ci si presenta in uno stato di profondissima sofferenza.
§ 17 La rappresentazione
Finora ci siamo riferiti per intero alla rappresentazione intuitiva. Ora cercheremo soprattutto di mettere in chiaro il suo significato più autentico, quel significato che, di solito, viene a mala pena avvertito e grazie al quale le immagini della rappresentazione, invece di passarci davanti come un che di totalmente estraneo e muto, ci parlano direttamente, diventano comprensibili e acquistano un interesse che si impone alla totalità del nostro essere.
- I filosofi, ad eccezione degli scettici e degli idealisti, sono sostanzialmente d’accordo, a proposito della rappresentazione intuitiva, nel parlare di un oggetto che starebbe a fondamento della rappresentazione e che, pur essendo del tutto distinto da essa quanto all’essere e quanto all’essenza, tuttavia le sarebbe simile in ogni sua parte.
- Noi sappiamo che questo oggetto non può essere in alcun modo distinto dalla rappresentazione; scopriamo invece che l’uno e l’altra sono una sola e medesima cosa, dato che ogni oggetto presuppone da sempre e per sempre un soggetto, e proprio per questo resta sempre una rappresentazione; abbiamo anche riconosciuto che l’essere-oggetto appartiene alla forma più generale della rappresentazione, la quale è costituita appunto dalla scomposizione in oggetto e soggetto.
- Se ora quella conoscenza precisa della rappresentazione intuitiva che desideriamo e che ci è nota solamente in generale, in modo puramente formale, noi la chiediamo alla matematica, essa ci parlerà solo di queste rappresentazioni in quanto riempiono il tempo e lo spazio, vale a dire in quanto sono grandezze; ma, dato che esse sono sempre e solo relative, ossia consistono nel confronto di una rappresentazione con un’altra, e per di più dal punto di vista unilaterale della grandezza, non sarà qui che potremo trovare quel chiarimento che desideriamo più di ogni altra cosa.
- Se infine diamo uno sguardo al dominio della scienza della natura che è vasto e suddiviso in molti campi, possiamo distinguere subito in esso due parti fondamentali. La scienza della natura o è descrizione delle forme – io la chiamo morfologia – oppure è spiegazione delle loro trasformazioni – ed è quella che chiamo eziologia. La prima prende in considerazione le forme permanenti, la seconda la materia che diviene, secondo le leggi che regolano il passaggio di una forma nell’altra.
- Se ci affidiamo al loro insegnamento, però, ci accorgiamo subito che quel chiarimento che desideriamo non ci viene fornito né dall’eziologia né dalla morfologia. Quest’ultima ci presenta innumerevoli forme, che per noi sono rappresentazioni, infinitamente varie e tuttavia legate l’una all’altra da un’indiscutibile aria di famiglia, le quali, per questa via, ci rimangono eternamente estranee e, considerate solo in questo modo, ci stanno dinnanzi come geroglifici incomprensibili. L’eziologia, viceversa, ci insegna che, stando alla legge di cause ed effetto, un certo determinato stato della materia ne produce un altro, e con questo ha fornito una spiegazione e ha esaurito il proprio compito.
- Tutto questo, però, non getta alcuna luce sull’essenza profonda di uno qualsiasi di quei fenomeni; tale essenza viene chiamata forza naturale e sta al di fuori del dominio della spiegazione eziologica, che chiama legge naturale la costanza inalterabile del prodursi della manifestazione di questa forza, ogni qual volta si presentino le condizioni che l’eziologia stessa ha riconosciuto. Questa legge di natura, queste condizioni, questo presentarsi in relazione a un luogo determinato e a un tempo determinato, sono tutto ciò che essa conosce e che potrà mai conoscere; persino la più perfetta spiegazione eziologica della natura nel suo complesso altro non sarebbe, propriamente, che un elenco di forze inesplicabili e un’indicazione sicura delle regole secondo le quali i fenomeni di quelle forze si producono, si succedono, prendono il posto l’uno dell’altro nel tempo e nello spazio; l’intima essenza delle forze che così si manifestano resterebbe però sempre un’incognita, poiché la legge di cui l’eziologia si serve non conduce alla sua spiegazione, ma è costretta ad arrestarsi al fenomeno e alla sua classificazione. Anche dopo a tutte le spiegazioni possibili, infatti, essi continuano a rimanerci di fronte, del tutto sconosciuti, come pure rappresentazioni delle quali non comprendiamo il significato.
- Ciò che però ci spinge a ricercare è proprio in fatto che non basta sapere che abbiamo delle rappresentazioni, che esse son fatte in questo o quest’altro modo, e che si collegano le une alle altre secondo queste o quelle leggi, l’espressione delle quali è sempre il principio di ragione. Noi vogliamo sapere anche quale sia il significato di queste rappresentazioni: ci chiediamo se questo mondo non sia altro che rappresentazione, nel qual caso dovrebbe passarci davanti come un sogno inconsistente, come un fantasma indegno della nostra attenzione, o se non sia, invece, qualcosa d’altro, qualcosa di più, e che cosa sia questo qualcosa.
- Quel che è certo è che ciò che richiediamo è un che di essenzialmente e completamente diverso dalla rappresentazione, e che perciò le forme e le leggi di quest’ultima devono rimanergli del tutto estranee; ne segue che, prendendo le mosse dalla rappresentazione, non è possibile giungere ad esso servendosi del filo conduttore di quelle leggi, le quali collegano l’uno all’altro soltanto oggetti, soltanto rappresentazioni, e che sono le forme del principio di ragione. Vediamo sin d’ora che dall’esterno non si potrà mai raggiungere l’essenza delle cose: per quanto si ricerchi, per questa via non si troveranno mai altro che immagini e nomi.
§ 18 La volontà
In effetti, il significato tanto ricercato di questo mondo che mi sta davanti come mia rappresentazione, oppure il passaggio da esso, come pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quello che può esserci ancora al di là di esso, non potrebbe mai essere scoperto se il ricercatore stesso non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente. Egli però ha le proprie radici in quel mondo, si trova in esso come individuo; ciò significa che il suo conoscere, che è il sostegno che condiziona l’intero mondo come rappresentazione, è reso possibile in tutto e per tutto dalla mediazione di un corpo, le cui affezioni sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo. Questo corpo è, per il puro soggetto conoscente in quanto tale, una rappresentazione come un’altra qualsiasi, un oggetto tra gli oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni egli non le conosce sotto questo aspetto in modo diverso da come conosce tutti gli altri oggetti dell’intuizione, e gli rimarrebbero del tutto estranei e incomprensibili se il loro significato non gli venisse rivelato, per una fortunata circostanza, in un altro modo del tutto diverso.
- Non comprenderebbe l’influenza dei motivi meglio di quanto riesca a comprendere la connessione di qualsiasi altro effetto che gli si manifesti con la causa che gli è propria. Egli allora definirebbe l’intima e per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni e delle azioni del suo corpo, a piacere, come una forza, una qualità o un carattere, ma non per questo ne avrebbe una visione più chiara.
- Le cose però non stanno in questo modo; anzi, al soggetto del conoscere, che si manifesta come individuo è data la parola che scioglie l’enigma, e questa parola suona volontà. È questa e questa sola a fornirgli la chiave del suo proprio fenomeno, a mostrargli il meccanismo interiore del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto del conoscere, che si presenta come individuo in forza della propria identità con il corpo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: da una parte come intuizione della rappresentazione intellettuale, come oggetto fra oggetti, sottoposto alle loro leggi; e tuttavia, nello stesso tempo, gli è dato anche in un modo del tutto diverso, ossia come quel qualcosa che ciascuno conosce immediatamente e che è indicato dalla parola volontà.
- L’atto della volontà e l’azione del corpo non sono due stati diversi conosciuti oggettivamente, e che il filo della causalità annoda insieme, non stanno tra loro nella relazione di causa ed effetto; sono invece un’unica e medesima cosa, solo che si danno in due modi del tutto diversi: una volta del tutto immediatamente e una volta nell’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è altro che l’atto della volontà oggettivato, ossia comparso davanti all’intelletto.
- Il corpo, che in precedenza era stato chiamato l’oggetto immediato – qui, da un altro punto di vista lo indicheremo come l’oggettità della volontà. In un certo senso si può anche dire, perciò, che la volontà è la conoscenza a priori del corpo e che il corpo è la conoscenza a posteriori della volontà.
- Le decisioni volontarie, che sono in rapporto con il futuro, sono semplici considerazioni della ragione su ciò che un giorno si vorrà, non atti della volontà veri e propri: solo la loro effettiva realizzazione suggella la decisione che, sino a quando non si sia realizzata, è solo un proposito che può anche mutare e che esiste soltanto nella ragione, in astratto. È solo nella riflessione che il volere e l’agire sono distinti: nella realtà essi sono una cosa sola.
- Ogni vero atto genuino e immediato della volontà è subito e immediatamente anche un atto visibile del corpo; e d’altra parte, in modo corrispondente, ogni azione esercitata sul corpo è subito e immediatamente anche un’azione esercitata sulla volontà; in quanto tale, la chiamiamo dolore se ripugna alla volontà, benessere, piacere, se è conforme a essa. Le gradazioni dell’uno e dell’altro sono molto diverse. Ma è del tutto sbagliato considerare il dolore e il piacere come rappresentazioni: non lo sono affatto, e sono invece affezioni immediate della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ossia nel corpo: un forzato, istantaneo volere e non volere l’impressione che esso subisce.
- Vanno considerate immediatamente come semplici rappresentazioni, e vanno perciò escluse da quanto è stato detto, soltanto poche impressioni del corpo che non stimolano la volontà e per mezzo delle quali in corpo stesso diventa oggetto immediato della conoscenza, dato che come intuizione esso è già, nell’intelletto, un oggetto mediato come tutti gli altri oggetti. Mi riferisco alle affezioni dei sensi propriamente oggettivi, ossia la vista, l’udito e il tatto, e per di più nella misura in cui questi organi vengono stimolati nel modo che è loro peculiare, caratteristico, specifico, conforme alla loro natura: uno stimolo della sensibilità rafforzata e specificamente modificata che è così estremamente debole che la volontà non ne viene affetta; anzi, non essendo disturbata da alcuno stimolo della volontà, consegna all’intelletto solo i dati da cui si produrrà l’intuizione. Ogni affezione troppo forte o eterogenea di questi organi di senso, invece, è dolorosa, ossia contraria alla volontà, alla cui oggettità anch’essi, dunque, appartengono.
- Oltre a ciò, l’identità di corpo e volontà si mostra, tra l’altro, anche nel fatto che ogni movimento della volontà violento ed eccessivo, ossia ogni emozione, scuote in modo immediato il corpo e il suo meccanismo interiore, turbando il corso delle sue funzioni vitali.
- Infine la conoscenza che ho della mia volontà, sebbene sia una conoscenza immediata, non è tuttavia separabile da quella del mio corpo. Io non conosco la mia volontà nel suo complesso, né nella sua unità, né nella pienezza della sua essenza; la conosco, invece, nei suoi singoli atti, e dunque nel tempo, che è la forma del fenomeno del mio corpo come di quello di ogni altro oggetto: il mio corpo è perciò la condizione che mi permette di conoscere la mia volontà. Questa volontà, senza il mio corpo, io non sono in grado di rappresentarla effettivamente.
- L’identità della volontà e del corpo può essere descritta soltanto come qui, in effetti per la prima volta, ossia dicendo che può essere solo elevata dalla coscienza immediata, dalla conoscenza in concreto, al sapere della ragione, oppure essere trasportata nella conoscenza in astratto; non può essere in alcun modo provata, ossia non la si può ricavare come conoscenza mediata da una conoscenza immediata d’altro genere, proprio perché essa stessa è la conoscenza più immediata di tutte, e se non la afferriamo e la fissiamo come tale, è inutile che ci aspettiamo di acquisirla in qualche modo mediatamente, come conoscenza derivata.
- Io vorrei perciò distinguere questa verità da tutte le altre (verità logica, empirica, trascendentale e metalogica) e chiamarla verità filosofica. Essa può essere espressa in diversi modi, per esempio dicendo che il mio corpo e la mia volontà sono una cosa sola; oppure che ciò che io, in quanto rappresentazione intuitiva, chiamo il mio corpo, lo chiamo, in quanto ne sono consapevole in modo del tutto diverso e non paragonabile a nessun altro, la mia volontà; o ancora che il mio corpo è l’oggettità della mia volontà; oppure che il mio corpo, prescindendo dal fatto che è una mia rappresentazione, altro non è che la mia volontà; e via dicendo.
§ 19 Oltre la coscienza
Ormai è diventato chiaro cosa sia che, nella coscienza di ciascuno, distingue la rappresentazione del nostro proprio corpo da tutte le altre, che per il resto sono del tutto simili ad essa, vale a dire che il corpo si presenta alla coscienza anche in un’altra maniera, del tutto diversa, che viene indicata con la parola volontà; e ci è anche diventato chiaro che proprio la duplice conoscenza che abbiamo del nostro corpo ci dà su di esso – tanto sul suo agire e muoversi in forza di motivi, quanto sul suo patire a causa delle azioni esterne; in una parola: su ciò che esse è non in quanto rappresentazione ma, oltre a ciò, anche in sé – quel chiarimento sull’essenza, sull’attività e sulla passività di tutti gli altri oggetti reali che non possiamo ottenere in modo immediato.
- Il soggetto conoscente è individuo proprio in forza di questa particolare relazione con un unico corpo. Ma la relazione in virtù della quale il soggetto conoscente è individuo sussiste unicamente tra lui e una sola di tutte le sue rappresentazioni, dato che soltanto di quest’ultima egli è consapevole non come di una semplice rappresentazione, ma allo stesso tempo anche in un altro modo, ossia come volontà. Ora ecco che l’individuo conoscente dovrà ammettere che il tratto distintivo di quell’unica rappresentazione sia il fatto che la conoscenza che egli ne ha si trova in questa duplice relazione unicamente con quella rappresentazione, che soltanto di quest’unico oggetto intuitivo egli possa avere una visione in due modi diversi a un tempo; oppure dovrà ammettere che questo unico oggetto sia essenzialmente diverso da tutti gli altri, che esso solo sia, fra tutti, allo stesso tempo volontà e rappresentazione, e che gli altri, al contrario, siano semplice rappresentazione, vale a dire meri fantasmi; che dunque il suo corpo sia l’unico individuo reale nel modo, vale a dire l’unico fenomeno della volontà e l’unico oggetto immediato del soggetto.
- Che gli altri oggetti, considerati come pure rappresentazioni, siano uguali al suo corpo, ossia che, come lui, riempiano lo spazio (anche esso forse presente solo come rappresentazione) e che, come lui, agiscano nello spazio, lo si può dimostrare con certezza per mezzo di quella legge di causalità che, per le rappresentazioni, è sicura a priori e che non ammette alcun effetto senza una causa; tuttavia, prescindendo dal fatto che da un effetto si può risalire solo a una causa generale e non a una causa corrispondente all’effetto, va detto che qui ci muoviamo sempre di nuovo solo nel dominio della pura rappresentazione: solo per essa vale la legge di causalità, al di là di essa non è in alcun modo possibile andare.
- Se però gli oggetti conosciuti dall’individuo solo come rappresentazioni siano anche, come il suo corpo proprio, manifestazioni fenomeniche di una volontà, questo è il senso autentico della domanda intorno alla realtà del mondo esterno. Ora, se la nostra conoscenza, che è sempre legata all’individualità e ha proprio in ciò la sua limitazione, porta con sé la necessità che ciascuno possa essere uno, e possa tuttavia conoscere tutte le altre cose.
- Di conseguenza, quella doppia conoscenza che abbiamo dell’essenza e dell’attività che abbiamo del nostro proprio corpo, che a questo punto dovrebbe risultare chiara e che ci è data in due modi del tutto eterogenei, la utilizziamo d’ora in avanti come una chiave per penetrare l’essenza di ogni fenomeno della natura: tutti gli oggetti che non sono dati alla nostra coscienza allo stesso modo in cui ci è dato il nostro corpo, ossia che non sono dati con quella duplicità di cui si è detto, ma solo come rappresentazioni, li valuteremo a partire dall’analogia con il nostro corpo.
- Al di fuori della volontà e della rappresentazione non possiamo conoscere né pensare alcunché. Se noi vogliamo attribuire al mondo corporeo, che sussiste solo nella nostra rappresentazione, il massimo di realtà che per noi sia concepibile, allora gli attribuiremo quella realtà che per ciascuno di noi ha il proprio corpo, poiché esso è, per ognuno di noi, la realtà più reale di tutte. Ma se analizziamo la realtà di questo corpo e delle sue azioni, noi non incontriamo in esso, oltre al fatto di essere una nostra rappresentazione, nient’altro che la volontà, con il che la sua stessa realtà è esaurita. Non possiamo perciò trovare da nessuna parte una realtà diversa che possa essere attribuita al mondo corporeo.
- Se dunque il mondo corporeo deve essere ancora qualcosa in più che la nostra semplice rappresentazione, dobbiamo dire che esso, al di là della rappresentazione, quindi in sé e nella sua essenza più profonda, è ciò che in noi stessi troviamo immediatamente come volontà.
§ 20 I motivi
- Come essenza in sé del nostro corpo proprio, come ciò che questo corpo è al di là del suo essere oggetto dell’intuizione, del suo essere rappresentazione, la volontà si fa conoscere anzitutto nei movimenti volontari del corpo stesso.
- Questi atti della volontà hanno però sempre un fondamento esterno nei motivi. Questi ultimi, tuttavia, non determinano se non ciò che io voglio in questo tempo, in questo luogo, in queste circostanze; ma non il fatto che io, in generale, voglio, non ciò che io, in generale, voglio, ossia la massima che caratterizza il mio volere nella sua interezza. Il mio volere, perciò, non lo si può spiegare in tutta la sua essenza per mezzo dei motivi i quali, invece, determinano solo la sua manifestazione in un dato istante, sono solo l’occasione in cui la mia volontà si manifesta; quest’ultima, al contrario, resta al di fuori del dominio della legge della motivazione: è solo il suo fenomeno a essere, in ogni istante, necessariamente determinato da essa. Solo se è dato il presupposto del mio carattere empirico, il motivo è un principio sufficiente a spiegare la mia condotta; se invece faccio astrazione del mio carattere e chiedo perché, in generale, voglio questa cosa e non quest’altra, non c’è risposta possibile, appunto perché è solo il fenomeno della volontà a essere sottoposto al principio di ragione, non la volontà stessa che, in questo senso, si può dire priva di fondamento.
- Il fatto che un fenomeno si fondi sull’altro – in questo caso che l’azione si fondi sul motivo – non impedisce in alcun modo che la sua essenza in sé sia una volontà che non ha alcun fondamento, in quanto il principio di ragione, in tutte le sue forme, è la pura forma della conoscenza, la cui validità si estende solamente alla rappresentazione, al fenomeno, al rendersi visibile della volontà, ma non a quella stessa volontà che si rende visibile.
- In generale, qualunque spiegazione eziologica non ci può fornire altro che la collocazione nel tempo e nello spazio di ogni singolo fenomeno, il suo necessario prodursi in quel posto secondo una regola stabile. L’intima essenza di ogni fenomeno resta invece, per questa via, sempre inesplicabile, e ogni spiegazione eziologica la presuppone e si limita a indicarla col nome di forza o di legge naturale o, quando si tratta di azioni, con il nome di carattere, di volontà.
- Sebbene, dunque, ogni singola azione, sotto il presupposto di un determinato carattere, si sviluppi in modo necessario in conformità al motivo che si presenta, e sebbene la crescita, il processo di nutrizione e tutte le modificazioni del corpo animale si verifichino secondo cause (stimoli) che operano in modo necessario, tuttavia la serie completa delle azioni, e di conseguenza anche ogni azione nella sua singolarità, e persino la condizione di ciascuna di esse, lo stesso corpo nella sua interezza che lo compie, e di conseguenza anche il processo in forza del quale e nel quale esso consiste, altro non è che il fenomeno della volontà, la visibilità, l’oggettità della volontà.
§ 21 L’essenza profonda della natura
Chi ora, grazie a tutte queste spiegazioni, ha conseguito, anche in astratto, quindi in modo chiaro e sicuro, quella conoscenza che ciascuno possiede immediatamente in concreto, ossia come sentimento, del fatto che l’essenza in sé del fenomeno è la sua volontà, e del fatto che quest’ultima costituisce l’elemento immediato della sua coscienza nella quale soggetto e oggetto non si distinguono in maniera del tutto chiara, e tuttavia non è conoscibile dall’individuo nella sua interezza, bensì solo nei suoi singoli atti. Chi ha raggiunto questo convincimento dovrà riconoscere che esso è per lui la chiave per la conoscenza dell’essenza profonda dell’intera natura. Costui dovrà riconoscere che tutti i fenomeni provocati dalle forze della natura, all’apparenza così diverse le une dalle altre, sono nella loro intima essenza una sola e medesima forza, quella stessa forza che gli è nota immediatamente nel modo più profondo e meglio di qualsiasi altra e che, dove si produce nel modo più chiaro, prende il nome di volontà. Questo utilizzo della riflessione è il solo che non ci costringe più all’interno del fenomeno, bensì ci innalza verso la cosa in sé. Fenomeno significa rappresentazione, nient’altro: ogni rappresentazione, di qualsiasi tipo essa sia, ogni oggetto, è fenomeno. Cosa in sé è invece solo la volontà; come tale essa non è affatto rappresentazione ma è completamente diversa da essa: è ciò di cui ogni rappresentazione, ogni oggetto, è il fenomeno, l’apparenza visibile, l’oggettità. È ciò che vi è di più intimo, il nocciolo tanto di ciascun singolo quanto del tutto: si manifesta nell’azione cieca di ogni forza della natura, ma si manifesta anche nella condotta ragionata dell’uomo; la grande differenza che c’è tra questi due casi concerne soltanto l’intensità della manifestazione, non l’essenza di ciò che in essa si manifesta.
§ 22 Il concetto di forza
La parola volontà, che a noi, come una parola magica, deve svelare l’intima essenza di ogni cosa nella natura, non indica affatto un’entità sconosciuta conseguita per via deduttiva, bensì qualcosa che viene conosciuto in modo immediato e che viene conosciuto così bene che noi sappiamo e comprendiamo che cosa la volontà sia molto meglio di qualsiasi altra cosa. Sinora si sussumeva il concetto di volontà sotto il concetto di forza: io faccio esattamente l’opposto e voglio che ogni forza della natura sia pensata come volontà. Attenzione: non si creda che questa sia una questione meramente verbale, o che non faccia differenza; si tratta di una questione di altissimo significato e di enorme importanza. Alla base del concetto di forza, come alla base di tutti gli altri concetti, sta infatti come fondamento la conoscenza intuitiva del mondo oggettivo, vale a dire il fenomeno, la rappresentazione, che esaurisce il significato di quel concetto. Esso viene ricavato per via d’astrazione dall’ambito nel quale dominano causa ed effetto, ossia dalla rappresentazione intuitiva; il suo significato è appunto l’esser-causa della causa, nel punto in cui non è più ulteriormente spiegabile eziologicamente, ma diventa precisamente la premessa necessaria di ogni spiegazione eziologica. Al contrario, il concetto di volontà è l’unico, fra tutti i concetti possibili, che non ha la sua origine nel fenomeno, che non ha la sua origine nella semplice rappresentazione intuitiva, ma che proviene dal profondo, da quella coscienza immediata di ciascuno, nella quale ciascuno conosce e allo stesso tempo è il suo proprio individuo, nella sua essenza, immediatamente, senza nessuna forma, nemmeno quella di soggetto e oggetto, dato che qui conoscente e conosciuto coincidono. Se noi perciò riconduciamo il concetto di forza a quello di volontà, abbiamo di fatto ricondotto un che di sconosciuto a qualcosa di infinitamente più noto, anzi, proprio a ciò che è davvero noto immediatamente e completamente e che estende in modo assai significativo la nostra conoscenza.
§ 23 La volontà come fonte unica
La volontà, come cosa in sé, è del tutto diversa dal suo fenomeno ed è completamente libera da tutte le sue forme, che essa assume solo quando si manifesta: ciò significa che esse riguardano solo la sua oggettità, ma che le sono estranee.
- Già la forma più generale di ogni rappresentazione, quella dell’essere oggetto per un soggetto, non la tocca; meno ancora la toccano le forme ad essa subordinate, che hanno globalmente la loro espressione comune nel principio di ragione, cui notoriamente appartengono anche tempo e spazio e, di conseguenza, anche la molteplicità, che esiste e diventa possibile solo per loro tramite. Da questo ultimo punto di vista io chiamerò tempo e spazio il principium individuationis, termine preso in prestito dalla Scolastica antica.
- La volontà è una, ma non com’è uno un oggetto, il cui essere-uno è conosciuto solo in forza del contrasto con la molteplicità possibile; e nemmeno com’è uno un concetto, il quale prende forma dalla molteplicità solo grazie all’astrazione: è una, invece, in quanto si trova al di fuori del tempo e dello spazio, al di fuori del principium individuationis, ossia al di fuori della molteplicità possibile.
- La mancanza di fondamento della volontà fa confondere gli atti umani come presi per liberi, mentre non lo sono affatto, dato che ogni singola azione segue con inflessibile necessità dall’azione del motivo sul carattere.
- Poiché però nell’autocoscienza la volontà viene conosciuta immediatamente e in sé, in tale coscienza si trova anche quella della libertà. Tuttavia non si fa caso al fatto che l’individuo, la persona, non è volontà come cosa in sé ma, appunto, fenomeno della volontà, e come tale già determinato e già passato nella forma del fenomeno, il principio di ragione. Di qui deriva la singolare circostanza che ciascuno considera se stesso, a priori, come del tutto libero, anche nelle proprie singole azioni, e ritiene di poter dare inizio in qualsiasi momento a un nuovo modo di vivere, come se potesse diventare un altro. A posteriori, tuttavia, grazie all’esperienza, scopre stupito di non essere libero, ma di essere invece sottomesso alla necessità; scopre che, malgrado tutti i suoi buoni propositi e le sue riflessioni, il suo modo di agire non si modifica e, dall’inizio della sua vita sino alla fine, è costretto a mettere in atto proprio quel carattere che egli stesso disapprova e che è come costretto a recitare sino alla fine la parte che si è assunto.
- Nella natura solo all’uomo e tutt’al più agli animali si è attribuita una volontà, poiché il conoscere, il rappresentare è in effetti il carattere più autentico ed esclusivo dell’animalità. Ma che la volontà agisca anche laddove non la guida alcuna conoscenza lo vediamo subito dall’istino e dagli impulsi meccanici degli animali.
- Il loro agire si realizza senza un motivo, non è guidato dalla rappresentazione e ci mostra subito e nel modo più chiaro che la volontà agisce anche senza alcuna conoscenza. È evidente che negli atti degli animali, come pure nel resto delle loro azioni, è la volontà che agisce; si tratta però di un’attività cieca, accompagnata ma non guidata dalla conoscenza.
- Anche in noi la medesima volontà agisce spesso ciecamente: in tutte quelle funzioni del nostro corpo che non sono guidate da nessuna conoscenza cosciente, in tutti quei processi vitali e vegetativi, come la digestione, la circolazione sanguigna, ecc.
- Non solo le azioni del corpo, ma il corpo stesso è in tutto e per tutto fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta; tutto ciò che succede in esso deve per forza succedere in forza della volontà, sebbene qui questa volontà non sia guidata dalla conoscenza, né determinata da motivi, ma agisca invece in modo cieco, secondo cause che, in questo caso, si chiamano stimoli.
- Il motivo è la causalità sostenuta dal conoscere.
- Ci resta da fare ancora solo l’ultimo passaggio: estendere il nostro modo di vedere anche a tutte le forze che nella natura agiscono secondo le leggi generali, immutabili, in conformità alle quali si producono i movimenti di tutti i corpi che, essendo del tutto privi di organi, non hanno alcuna sensibilità allo stimolo né alcuna conoscenza del motivo. Dobbiamo dunque applicare la chiave che abbiamo utilizzato per intendere le cose nella loro essenza in sé, chiave che è la sola che ci può fornire la conoscenza immediata della nostra propria essenza, anche ai fenomeni del mondo inorganico, che occupano il posto più lontano da quello nel quale ci troviamo noi.
- Tuttavia la distanza, o meglio ancora l’apparenza di una totale diversità tra i fenomeni della natura inorganica e la volontà, che noi percepiamo come ciò che vi è di più intimo nella nostra propria essenza, deriva soprattutto dal contrasto fra la regolarità completamente determinata del primo tipo di fenomeni e l’apparente arbitrio privo di regole dell’altro tipo. Infatti, negli uomini l’individualità si fa innanzi nel modo più potente; ognuno ha il carattere suo proprio e per questo il medesimo motivo non ha su tutti lo stesso potere, e mille circostanze secondarie, che trovano spazio nell’ampia sfera di conoscenza di un certo individuo ma che restano sconosciute all’altro, modificano la sua azione; ragion per cui la condotta non si lascia predeterminare dal solo motivo, poiché le manca l’altro fattore, la cognizione precisa del carattere individuale e della conoscenza che si accompagna ad esso.
- Dobbiamo, per chiarire questo punto, per dimostrare l’identità della volontà una e indivisibile in tutti i suoi fenomeni così diversi, in quelli più deboli come in quelli più forti, prendere in considerazione anzitutto la relazione che la volontà come cosa in sé ha con il proprio fenomeno, vale a dire la relazione che il mondo come volontà ha con il mondo come rappresentazione.
§ 24 Che cos’è la cosa in sé?
- Il grande Kant ci ha insegnato che tempo, spazio e causalità, in tutta la loro legittimità e nella possibilità di tutte le loro forme, sussistono nella nostra coscienza, in modo del tutto indipendente dagli oggetti che si manifestano in essi e che ne costituiscono il contenuto; o in altre parole, che essi possono essere trovati tanto prendendo le mosse dal soggetto quanto prendendo le mosse dall’oggetto; e che perciò si possono chiamare con ugual diritto tanto modalità dell’intuizione del soggetto quanto anche caratteri dell’oggetto in quanto è oggetto, ossia in quanto è rappresentazione. Quelle forme si possono anche considerare come l’indivisibile confine tra oggetto e soggetto; perciò è vero che ogni oggetto deve in effetti manifestarsi in esse, ma anche che il soggetto, che è indipendente dall’oggetto che si manifesta, le possiede e le domina pienamente.
- Ora, se gli oggetti che si manifestano in tali forme non fossero vuoti fantasmi ma avessero invece un significato, dovrebbero indicare qualcosa, essere l’espressione di qualcosa che non fosse a sua volta oggetto, rappresentazione, un che di esclusivamente relativo, ossia di esistere per un soggetto; ma che esistesse invece senza questo genere di dipendenza da qualcos’altro che le sta di contro come condizione essenziale e dalle sue forme, vale a dire che non fosse rappresentazione, bensì cosa in sé.
- Si può quindi quanto meno chiedere: quelle rappresentazioni, quegli oggetti, sono anche qualcosa di più, a prescindere dal loro essere rappresentazioni, dal loro essere oggetti per un soggetto? E che Sosa sarebbero, in questo senso? Che cos’è quel loro altro lato che è del tutto diverso dalla rappresentazione? Che cos’è la cosa in sé?
- Qualsiasi cosa sia la cosa in sé, Kant ha giustamente concluso che tempo, spazio e causalità (che noi abbiamo poi riconosciuto come forme del principio di ragione, il quale, a sua volta, è stato riconosciuto come forma generale del fenomeno) non sono sue determinazioni, ma le possono essere attribuiti solo in quanto essa si è tradotta in rappresentazione, il che significa che appartengono solo al suo fenomeno, non alla cosa in sé come tale.
- Tempo, spazio e causalità il soggetto li conosce e li costruisce da sé, in modo del tutto indipendente dall’oggetto, e debbono dipendere dall’essere-rappresentazione e non da ciò che diventa rappresentazione.
- Essi debbono essere la forma della rappresentazione in quanto tale, e non proprietà di ciò che ha assunto questa forma.
- Debbono essere già dati con la semplice contrapposizione di soggetto e oggetto (non quella concettuale, ma quella di fatto), e debbono di conseguenza essere solo la determinazione precisa della forma della conoscenza in generale, della quale quella contrapposizione è appunto la determinazione più universale.
- Ora, ciò che nel fenomeno, nell’oggetto, è di nuovo condizionato da tempo, spazio e causalità, in quanto solo per loro tramite può essere rappresentato, vale a dire ciò che si presenta come molteplicità, per mezzo della coesistenza e della successione, e come mutamento e durata per mezzo della legge di causalità e della materia rappresentabile solo sotto la condizione della causalità, e infine tutto ciò che non è rappresentabile senza tali forme: tutto questo, nel suo complesso, non appartiene essenzialmente a ciò che appare, a ciò che è passato nella forma della rappresentazione, ma dipende solo da questa stessa forma.
- E viceversa ciò che, nel fenomeno, non è condizionato da tempo, spazio e causalità, ciò che non può essere ricondotto ad essi, né essere spiegato per loro tramite, sarà proprio ciò in cui si manifesta in modo immediato l’ente che appare, la cosa in sé.
- Segue da ciò che la conoscibilità più perfetta, ossia la più grande chiarezza, perspicuità e più esauriente investigabilità, appartiene necessariamente a ciò che è proprio della conoscenza in quanto tale, vale a dire della forma della conoscenza, ma non a ciò che, non essendo in sé rappresentazione, non essendo oggetto, è diventato conoscibile, ossia a ciò che è diventato rappresentazione, oggetto, solo in forza dell’ingresso in quelle forme.
- Dunque solo ciò che dipende unicamente dalla conoscibilità, dall’essere, in generale e come tale, rappresentazione (non da ciò che viene conosciuto ed è solo diventato rappresentazione); ciò che quindi appartiene senza distinzione a quanto viene conosciuto; ciò che, di conseguenza, può essere trovato ugualmente bene sia prendendo le mosse dal soggetto sia prendendo le mosse dall’oggetto – questo solo può offrire senza riserve una conoscenza sufficiente, del tutto esauriente, chiara sino in fondo.
- Ciò non consiste altro che nelle forme, di cui siamo consapevoli a priori, di ogni fenomeno, che possono essere espresse nel loro insieme dal principio di ragione, i diversi aspetti del quale, che si riferiscono alla conoscenza intuitiva (la sola con la quale qui abbiamo a che fare), sono tempo, spazio e causalità.
- È solo su di essi che si fondano l’intera matematica pura e la scienza naturale pura a priori. Solo in queste scienze, perciò, la conoscenza non trova alcuna oscurità, non urta contro ciò che non può essere indagato nel suo fondamento (l’infondato, ossia la volontà), contro ciò che non si può ulteriormente dedurre.
- D’altra parte, però, queste conoscenze non ci mostrano nient’altro che semplici rapporti, relazioni di una rappresentazione con un’altra, forma senza alcun contenuto. Ogni contenuto che essi ricevano, ogni fenomeno che riempia quelle forme, contiene già qualcosa che non è completamente conoscibile in tutta la sua essenza, che non è spiegabile in tutto e per tutto per mezzo di un’altra cosa, qualcosa che è dunque privo di fondamento, per cui subito la conoscenza perde evidenza e ci rimette la propria perfetta trasparenza.
- Ma questa realtà che si sottrae all’indagine è proprio la cosa in sé, è ciò che, nella sua essenza, non è rappresentazione, non è oggetto della conoscenza, e che diventa invece conoscibile solo dopo esser passata in quelle forme.
- La forma le è originariamente estranea e quella realtà non può mai diventare una sola cosa con essa, non può venire ricondotta alla semplice forma e, dato che tale forma è il principio di ragione, non può nemmeno dare ragione di sé.
- Perciò, anche se tutta la matematica ci fornisce una conoscenza esauriente di ciò che, nei fenomeni, è la grandezza, la posizione, il numero, in breve delle relazioni spaziali e temporali; se tutta l’eziologia ci indica compiutamente le condizioni legittime in conformità alle quali si producono i fenomeni, con tutte le loro determinazioni, nel tempo e nello spazio, senza tuttavia, con ciò, insegnarci altro se non il perché ciascun fenomeno determinato debba ogni volta mostrarsi ora qui e proprio qui ora; ebbene, ciò nonostante con il loro aiuto noi non penetriamo in alcun modo nell’essenza profonda delle cose, resta comunque sempre qualcosa di cui non si può dare spiegazione, e che deve invece essere sempre presupposta dalla spiegazione stessa: le forze della natura, il particolar modo di agire delle cose, la qualità, il carattere di ciascun fenomeno, l’infondato, ciò che non dipende dalla forma del fenomeno, dal principio di ragione, ciò a cui questa forma in sé è estranea, ma che è entrato in essa e si manifesta secondo la sua legge, la quale determina tuttavia solo il manifestarsi, non ciò che esso rappresenta, solo il come, non il che cosa del fenomeno, solo la forma, non il contenuto.
- È vero che in ogni tempo c’è stata una eziologia che, non comprendendo il proprio compito, si è sforzata di dare una spiegazione della realtà con gli strumenti conoscitivi che disponeva. Dello stesso genere è anche il materialismo rozzo che solo per ignoranza può essere ritenuto una dottrina originale; dottrina che, negando stupidamente la forza vitale, vorrebbe dapprima spiegare i fenomeni per mezzo delle forze fisiche e chimiche, e poi far sorgere a loro volta queste ultime dall’attività meccanica della materia, da posizione, forma e movimento di atomi solo sognati, e ricondurre tutte le forze della natura ad azione e reazione, che sarebbero la sua cosa in sé. Persino la luce, di conseguenza, dovrebbe essere una vibrazione meccanica, se non la vibrazione di un etere immaginato e postulato ad hoc il quale, per dir così, tamburella sulla retina milioni di vibrazioni.
- Ammesso che le cose stessero così, tutto sarebbe facilmente spiegato e fondato, tutto si ridurrebbe addirittura a un problema di calcolo che sarebbe come il Santissimo nel tempio della sapienza, al quale giungeremmo infine felicemente, guidati dal principio di ragione. Ma l’intero contenuto del fenomeno sarebbe scomparso, e rimarrebbe soltanto la semplice forma: il che cosa che appare si ridurrebbe al come appare, e questo come sarebbe ciò che è conoscibile a priori, dipendente in tutto, perciò, dal soggetto, esistente solo per lui, e dunque, in ultima analisi, un puro fantasma, in tutto e per tutto rappresentazione e forma della rappresentazione: non sarebbe più possibile interrogarsi su alcuna cosa in sé.
- In ogni cosa della natura c’è qualcosa di cui non può essere indicata alcuna ragione, di cui non è possibile fornire alcuna spiegazione, di cui non è possibile ricercare alcuna causa ulteriore: e questa è la modalità specifica del suo agire, ossia proprio la sua modalità di esistenza, la sua essenza. È vero che di ogni singola azione di ogni cosa è possibile stabilire una causa dalla quale ricavare che essa deve agire proprio in un determinato tempo e in un determinato luogo, ma non se ne può stabilire nessuna che ci consenta di ricavare che essa, in generale, agisce e che agisce proprio così come agisce. Anche ammesso che non abbia nessun’altra proprietà, che sia un granello di polvere nello spazio, nondimeno quel qualcosa di inesplicabile si mostrerà in esso ugualmente come peso e impenetrabilità; e questo sarà per esso ciò che per l’uomo è la sua volontà e, come quest’ultima, non sarà nella sua essenza passibile di spiegazione, anzi, è in sé identico ad essa.
- Certo che per ogni manifestazione del volere, per ogni suo singolo atto in un dato tempo e in un dato luogo, si può stabilire un motivo al quale quell’atto, dato per presupposto il carattere dell’uomo, doveva seguire in modo necessario. Ma del fatto che debba avere questo carattere, che sia in generale volere e che, tra molti motivi sia proprio questo e non un altro, o addirittura un motivo qualsiasi, a muovere la sua volontà, di tutto questo non si può dare alcuna ragione.
- Ciò che per l’uomo è il suo carattere imperscrutabile, presupposto indispensabile di ogni spiegazione dei suoi atti a partire dai motivi, per ogni corpo organico è la sua qualità essenziale, la modalità del suo agire, le manifestazioni della quale sono provocate da un’azione esterna; mentre, al contrario, la sua modalità, la sua qualità essenziale, non è determinata da nulla di esterno, e non risulta perciò spiegabile: i suoi singoli fenomeni, nei quali soltanto essa si manifesta, sono sottoposti al principio di ragione, ma essa è in se stessa priva di ragione.
- È un grave errore, ma comune, quello di pensare che i fenomeni più frequenti, più generali e più semplici siano quelli che comprendiamo meglio; essi sono invece semplicemente quelli ai quali il nostro sguardo e la nostra ignoranza si sono più abituati. Si è tacitamente convenuto di prendere le mosse da pure qualitates occultae, rinunciando a far luce su di loro, dato che si intendeva costruire su di esse e non scavare al loro interno.
- Di che utilità possono essere delle spiegazioni che, da ultimo, ci riportano a qualcosa di non meno sconosciuto del problema da cui abbiamo preso le mosse? Si capisce forse di più, alla fine, di quelle forze generali della natura di quanto si capiva dell’intima essenza di un animale? Non sono le prime inesplorabili quanto la seconda?
- Imperscrutabile, poiché priva di ragione, poiché è il contenuto, il «ciò» che il fenomeno è, un «ciò» che non può essere mai ricondotto alla forma, al «come», al principio di ragione.
- Dice Spinoza (lettera 62) che una pietra lanciata in aria, se avesse coscienza, crederebbe di volare per sua propria volontà. Io aggiungo solo che la pietra avrebbe ragione. Il lancio è per essa ciò che per me è il motivo, e ciò che in essa si presenta come coesione, peso, persistenza nello stato acquisito è, considerato secondo la sua essenza, lo stesso che io riconosco in me come volontà e che essa stessa, se fosse in grado di conoscere, conoscerebbe come volontà. Spinoza, in quel passo, ha rivolto la sua attenzione alla necessità con cui la pietra vola e ha cercato, correttamente, di riportarla alla necessità dei singoli atti volontari di una persona. Io, invece, prendo in considerazione quell’intima essenza che è il solo presupposto capace di conferire significato e validità a ogni necessità reale (vale a dire alla necessità della derivazione dell’effetto dalla causa), e che nell’uomo si chiama carattere, nella pietra qualità, ma che nell’uno e nell’altra è la stessa, dato che dove è conosciuta in modo immediato è designata come volontà, e ha nella pietra il grado più debole, nell’uomo il grado più forte di visibilità, di oggettità.
- Questa identità del tendere che appartiene a tutte le cose con il nostro volere l’ha già riconosciuta, percependola correttamente, s.Agostino (da De Civitate Dei XI,28):
«Se fossimo bestie ameremmo la vita della carne e ciò che è secondo i suoi sensi; questo nostro bene ci appagherebbe e, in base ad esso, non cercheremmo altro. Parimenti, se fossimo alberi, non potremmo amare nulla con un movimento sensibile; tuttavia parrebbe sempre che desideriamo il modo di produrre i frutti più abbondanti e più copiosi. Se fossimo pietre o flutti, vento o fiamma o qualcosa di analogo, senza vita e sensibilità, non ci mancherebbe una certa tendenza verso il nostro luogo e verso l’ordine. Poiché la forza dei pesi, che trascinano in basso per la pesantezza, in alto per la leggerezza, è come l’amore dei corpi: come l’anima è condotta dall’amore, così il corpo dal peso, quale che sia la sua direzione».
§ 25 Il concetto di idea
Sappiamo che la molteplicità, in generale, è determinata dal tempo e dallo spazio, che è pensabile solo in essi; noi, da questo punto di vista, li chiamiamo il principium individuationis. Tempo e spazio però li abbiamo conosciuti come forme del principio di ragione, principio che esprime tutta la nostra conoscenza a priori; quest’ultima però, come abbiamo messo in chiaro più sopra, proprio in quanto tale, si riferisce solo alla conoscibilità delle cose, non alle cose stesse, vale a dire che essa è unicamente la forma della nostra conoscenza, non una proprietà della cosa in sé che, in quanto tale, è libera da ogni forma della conoscenza, anche da quella più generale di tutte, che consiste nell’essere oggetto per il soggetto, il che significa che essa è qualcosa di completamente diverso dalla rappresentazione. Ora, se questa cosa in sé è la volontà, essa, considerata in quanto tale, e separata dal suo fenomeno, si trova al di fuori del tempo e dello spazio e non conosce perciò alcuna molteplicità ed è, di conseguenza, una; non però al modo in cui uno è un individuo, né al modo in cui uno è un concetto, ma come qualcosa a cui sia estranea la condizione della stessa possibilità della molteplicità, ossia il principium individuationis. Perciò la molteplicità delle cose nello spazio e nel tempo che, nel loro insieme, costituiscono la sua oggettità, non la tocca affatto ed essa rimane, nonostante loro, indivisibile. Né capita che vi sia una parte più piccola di essa nella pietra e una parte più grande nell’uomo, dato che la relazione della parte con il tutto appartiene in modo esclusivo allo spazio e non ha alcun senso se si prescinde da questa forma dell’intuizione; il più e il meno riguardano solo il fenomeno, vale a dire la visibilità, l’oggettivazione; questa sì che è presente a un grado più alto nella pianta più che nella pietra, nell’animale che nella pianta: è il suo rendersi visibile, la sua oggettivazione ad avere variazioni così infinite quante ve ne sono tra il più tenue crepuscolo e la più luminosa luce solare, tra il suono più forte e l’eco più debole. Meno ancora, però, di quanto la tocchino le gradazioni della sua oggettivazione, la tocca la molteplicità dei fenomeni in questi diversi livelli, vale a dire la massa degli individui di ogni forma, o delle singole manifestazioni di ogni forza, dato che tale molteplicità è condizionata immediatamente dal tempo e dallo spazio, i quali non entrano affatto in essa.
- La volontà si manifesta tutta intera e con la medesima forza in una sola quercia come in milioni di esse; il loro numero, il loro moltiplicarsi nello spazio e nel tempo, non ha alcun significato dal punto di vista della volontà, ma solo da quello della molteplicità degli individui conoscenti che esiste nello spazio e nel tempo e che, proprio perciò, sono moltiplicati e dispersi, ma il cui essere molteplici concerne solo il fenomeno della volontà, non la volontà stessa.
- Si potrebbe perciò anche sostenere che se, per assurdo, un unico essere, fosse pure il più insignificante, venisse completamente annientato, con esso dovrebbe tramontare il mondo intero. Per me, intanto, nella considerazione dell’immensità del mondo, ciò che conta più di tutto è che l’essenza in sé di cui il mondo è fenomeno – qualsiasi essa possa essere – non può davvero aver spezzato e disperso nell’infinito il suo vero sé; questa estensione infinita appartiene invece unicamente al suo fenomeno, mentre essa, al contrario, è presente tutta intera e indivisa in ciascuna cosa della natura, in ciascun essere vivente. Perciò non si perde nulla se ci si sofferma a una realtà singola qualsiasi, e nemmeno si consegue la vera sapienza misurando l’universo sconfinato o volando di persona attraverso lo spazio senza fine; essa si acquisisce invece indagando a fondo una realtà singola qualsiasi, cercando di conoscere e di comprenderne la vera e compiuta essenza.
- Questi diversi livelli di oggettivazione della volontà – i quali, espressi in innumerevoli individui, si configurano come i loro inafferrabili modelli ideali, o come le forme eterne delle cose, e che non entrano essi stessi nel tempo e nello spazio, che sono il medium degli individui, ma stanno fermi, non sono soggetti ad alcun mutamento, sono sempre, non divengono mai, mentre i singoli nascono e periscono, divengono sempre e non sono mai -, che, dicevo, questi diversi livelli di oggettivazione della volontà non sono altro che le idee di Platone.
- Per idea intendo dunque ogni determinato e stabile livello di oggettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé ed è quindi estraneo alla molteplicità, livelli che costituiscono per le singole cose le forme eterne, o i loro modelli ideali.
§ 26 La legge naturale
Al livello più basso dell’oggettivazione della volontà si trovano le forze più generali della natura, le quali in parte appaiono in ogni materia, senza eccezioni, come nel caso della gravità e dell’impenetrabilità, in parte sono distribuite nella materia che è in generale presente – sì che alcune dominano su un certo tipo di materia, altre su un tipo diverso, che proprio da ciò acquista la sua differenza specifica – come nel caso della solidità, della fluidità, dell’elasticità, dell’elettricità, del magnetismo, delle proprietà chimiche e delle qualità di ogni genere.
- Esse sono in sé fenomeni immediati della volontà tanto quanto lo è la volontà umana e, in quanto tali, sono prive di ragione come ne è privo il carattere dell’uomo; solo i loro singoli fenomeni sono sottomessi al principio di ragione, come lo sono le azioni dell’uomo, mentre, al contrario, esse non possono in alcun modo essere indicate né come effetto né come causa, ma sono invece le condizioni che precedono e che sono presupposte da qualsiasi causa e da qualsiasi effetto per mezzo delle quali si dispiega e si rende manifesta la loro intima essenza.
- Nei livelli più alti dell’oggettità della volontà noi vediamo che si fa avanti in modo significativo l’individualità, in modo particolare nell’uomo, sotto forma di una grande diversità dei caratteri individuali, vale a dire sotto la forma della personalità completa, che si manifesta già dal punto di vista esteriore con una fisionomia individuale fortemente accentuata che comprende l’intera conformazione corporea. Una individualità di questo livello gli animali non la possiedono affatto; solo gli animali superiori ne hanno una sfumatura, sulla quale domina però in tutto e per tutto il carattere della specie, in modo che la fisionomia individuale risulta appena percepibile.
- Dato che tempo, spazio, molteplicità ed essere determinato da una causa non competono né alla volontà né all’idea (che è il grado di oggettivazione della volontà), ma solo ai suoi singoli fenomeni, essa deve prodursi esattamente allo stesso modo in tutti i milioni di fenomeni di una di quelle forze naturali, per esempio della gravità e dell’elettricità, e il suo fenomeno può essere modificato solo da circostanze esterne.
- Questa unità della sue essenza in tutti i suoi fenomeni, questa inalterabile costanza del suo accadere ogni volta che, seguendo il filo conduttore della causalità, se ne presentino le condizioni determinate, si chiama legge naturale.
- È prodigioso che la natura non dimentichi mai, neppure una volta, le proprie leggi; che, per esempio, se è conforme a una legge naturale che, dall’incontro di certe sostanze, sotto determinate condizioni, si abbia una combinazione chimica, si sviluppino dei gas, si verifichi una combustione, al concorrere delle medesime condizioni, sia che le abbiamo predisposte noi, sia che si verifichino totalmente per caso (nel qual caso la puntualità dell’accadimento è tanto più sorprendente quanto più è inaspettata), tanto oggi quanto mille anni fa, si verifichi subito e senza indugio quel determinato fenomeno.
- Ogni forza naturale generale e originaria non è dunque altro, nella sua intima essenza, che l’oggettivazione della volontà a un grado inferiore; noi definiamo ciascuno di questi gradi come una idea eterna, nel senso di Platone. La legge naturale è invece la relazione dell’idea con la forma del suo fenomeno. Questa forma è costituita da tempo, spazio e causalità, che hanno una coesione reciproca e un rapporto necessari e indissolubili. Per mezzo del tempo e dello spazio l’idea si moltiplica in innumerevoli fenomeni, ma l’ordino con cui tali fenomeni si producono in quelle forme della molteplicità è saldamente determinato dalla legge di causalità, una sorta di norma che fissa il punto limite che separa quei fenomeni che appartengono a idee diverse, in forza della quale spazio, tempo e materia sono ripartiti tra i fenomeni. Perciò questa norma si riferisce necessariamente all’identità dell’intera materia data, che costituisce il sostrato comune di tutti quei differenti fenomeni.
- Ho già definito la materia come unione di tempo e spazio, la quale si mostra come mutamento degli accidenti nel permanere della sostanza, di cui la causalità, ossia il divenire, è appunto la possibilità in generale. Abbiamo anche detto, perciò, che la materia è in tutto e per tutto causalità. Abbiamo riconosciuto l’intelletto come il correlato soggettivo della causalità, e abbiamo detto che la materia (dunque l’intero mondo come rappresentazione) esiste solo per l’intelletto, che ne costituisce la condizione, il sostegno, in quanto ne è il correlato necessario.
- Malebranche, nella sua dottrina delle cause occasionali, ha veramente ragione: ogni causa naturale è solo una causa occasionale, dà solo l’occasione, il pretesto per la manifestazione fenomenica di quella volontà una e indivisibile che è l’in-sé di tutte le cose e la cui graduale oggettivazione costituisce questo mondo visibile nella sua interezza. Solo il manifestarsi, il rendersi visibile in un dato luogo e in un dato tempo, è provocato dalla causa e dipende quanto a questo da essa, non però l’intero del fenomeno, non la sua intima essenza: quest’ultima è la volontà stessa, sulla quale il principio di ragione non trova alcuna applicazione e che è perciò priva di ragione. Nessuna cosa al mondo ha una causa assoluta e generale della propria esistenza, ma solo una causa del suo esserci proprio qui e proprio ora.
- Il modo in cui il carattere sviluppa le proprie qualità è del tutto simile a quello per cui ogni corpo della natura incosciente mostra le proprie. L’acqua resta acqua, con tutte le qualità che le son proprie, sia che essa, sotto la forma di un lago tranquillo, rifletta le proprie rive, sia che precipiti spumeggiante dalle rocce, o che venga fatta artificialmente zampillare verso l’alto: tutto questo dipende dalla cause esterne; l’una forma le appartiene per natura quanto l’altra, ed essa mostra l’una o l’altra a seconda delle circostanze, ugualmente disponibile a tutte, ma rimanendo in ciascun caso fedele al proprio carattere e rendendo visibile sempre solo quest’ultimo. Allo stesso modo, sarà sempre ciascun carattere umano a rendersi visibile in qualsiasi situazione, ma i fenomeni nei quali si manifesterà saranno diversi a seconda della diversità delle circostanze.
§ 27 Fin dove giunge la spiegazione causale
Tutte le precedenti considerazioni intorno alle forze della natura e alle loro manifestazioni fenomeniche ci hanno chiarito fino a che punto possa giungere la spiegazione causale e dove essa debba arrestarsi se non vuole diventare schiava dello sforzo insensato di ricondurre il contenuto di tutti i fenomeni alla loro semplice forma, così che, alla fine, non rimanga altro che la forma stessa.
- L’eziologia deve ricercare le cause di tutti i fenomeni della natura, ossia le circostanze in cui essi sempre si fanno innanzi; poi però deve ricondurre i fenomeni, diversamente configurati a seconda della multiformità delle circostanze, a ciò che agisce in ogni fenomeno e che è presupposto della causa, ossia alle forze originarie della natura, distinguendo con precisione se una differenza del fenomeno abbia origine da una differenza della forza oppure soltanto da una differenza delle circostanze in cui la forza si manifesta.
- Pigrizia e ignoranza rendono inclini a richiamarsi troppo presto alle forze originarie; lo si vede, con una esagerazione che sa di ironia, nell’«entità» e nella «quiddità» degli Scolastici.
- Non è lecito ricorrere, in luogo di una spiegazione fisica, all’oggettivazione della volontà, più di quanto non sia lecito ricorrere alla forza creatrice di Dio.
- La fisica, infatti, esige cause, ma la volontà non è mai causa: la sua relazione con il fenomeno non è mai conforme al principio di ragione; invece, ciò che in sé è volontà da un altro punto di vista esiste come rappresentazione, ossia è fenomeno e, come tale, obbedisce alle leggi che costituiscono la forma del fenomeno; è per questo che, per esempio, ogni movimento, nonostante sia senza dubbio fenomeno della volontà, deve tuttavia avere una causa in forza della quale possa essere spiegato in relazione a un tempo e a un luogo determinati, ossia non in generale, secondo la sua essenza profonda, bensì come fenomeno particolare.
- Al contrario, l’universale, l’essenza comune di tutti i fenomeni dello stesso genere, ciò senza il cui presupposto la spiegazione causale non avrebbe né senso né significato, è la forza generale della natura, che nella fisica deve rimanere una qualitas occulta, proprio perché questo è il punto in cui ha fine la spiegazione eziologica e incomincia quella metafisica.
- Ma la catena delle cause e degli effetti non viene mai spezzata da una forza originaria alla quale ci si debba richiamare o alla quale ci si debba riportare come al suo primo anello: tanto l’anello più vicino della catena quanto quello più lontano presuppongono invece già la forza originaria, senza la quale non si potrebbe spiegare niente. Una serie di cause e di effetti può essere la manifestazione fenomenica delle cause più diverse, il cui successivo ingresso nella visibilità è guidato da essa; la diversità di queste forze originarie, non derivabili l’una dall’altra, non spezza però in alcun modo l’unità di quella catena di cause e la connessione fra tutti gli anelli che la compongono.
- L’eziologia della natura dà conto delle cause che hanno provocato necessariamente il singolo fenomeno che si sta cercando di spiegare…. La filosofia, al contrario, considera ovunque, e dunque anche nella natura, solo l’universale; le forze originarie stesse sono qui il suo oggetto ed essa riconosce in loro i diversi gradi di oggettivazione della volontà, che è l’intima essenza, l’in-sé di questo mondo che, ove si prescinda da essa, viene descritto dalla filosofia come una semplice rappresentazione del soggetto.
- È davvero un’aberrazione della scienza naturale, il voler ricondurre i gradi più alti dell’oggettità della volontà a quelli più bassi, dato che il disconoscere e il negare forze naturali originarie e dotate di autonoma consistenza è altrettanto sbagliato quanto l’ammettere senza motivo forze particolari laddove si ha solo un determinato modo di manifestarsi di forze note.
- Non va dimenticato che in tutte le idee, vale a dire in tutte le forze della natura inorganica e in tutte le forme di quella organica, è una e un’identica volontà a manifestarsi, ossia ad assumere la forma della rappresentazione, dell’oggettità. La sua unità deve quindi poter essere conosciuta anche attraverso una profonda affinità fra tutte le sue manifestazioni fenomeniche. Ora, questa affinità, nei gradi più alti della sua oggettità, nei quali l’intero apparire fenomenico è più chiaro, vale a dire nel regno vegetale e nel regno animale, si manifesta grazie a una generale, radicale analogia di tutte le forme con l’archetipo che si ritrova in tutti i fenomeni.
- Anzi, proprio perché tutte le cose del mondo sono l’oggettità di una sola e medesima volontà, e di conseguenza nella loro intima essenza sono identiche, non solo deve esserci tra loro quella evidente analogia, e non solo in ogni fenomeno meno perfetto deve presentarsi la traccia, l’accenno, il disegno del fenomeno superiore più prossimo ma, dato che tutte quelle forme appartengono solo al mondo come rappresentazione, si può persino ammettere che già nelle forme più generali della rappresentazione, in questa vera e propria impalcatura fondamentale del mondo fenomenico, cioè nello spazio e nel tempo, possa essere ricercato e mostrato l’archetipo, l’accenno, il disegno di tutto ciò che riempie quelle forme.
- In conformità al punto di vista indicato, si potranno senza dubbio individuare nell’organismo le tracce di attività chimiche e fisiche, ma non sarà mai possibile spiegare quello con queste, poiché esso non è in alcun modo un fenomeno scaturito dall’azione combinata di tali forze, ossia che si sia prodotto casualmente, bensì un’idea più elevata che ha subordinato a sé le idee inferiori in forza di un’assimilazione più travolgente; poiché l’unica volontà, che si oggettiva in tutte le idee, mentre tende alla più alta possibile tra le oggettivazioni, qui abbandona dopo il conflitto i gradi più bassi della sua manifestazione fenomenica per apparire tanto più forte in un grado più elevato.
- Così vediamo dovunque nella natura conflitto, lotta e alternanza di vittorie, e proprio per questo, d’ora in avanti, riconosceremo chiaramente l’essenziale discordia della volontà con se stessa. Ogni grado di oggettivazione di oggettivazione della volontà contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo. Questo conflitto si perpetua in tutta quanta la natura; di più: è solo grazie ad esso che la natura esiste.
- Dove la volontà ha raggiunto il suo grado più alto di oggettivazione, agli animali non è più sufficiente la conoscenza dell’intelletto, che assume i propri dati dai sensi, producendo in questo modo semplici intuizioni legate al presente; quell’essere complesso, multiforme, plasmabile, infinitamente bisognoso ed esposto a innumerevoli rischi, che è l’uomo, per poter sopravvivere, doveva essere illuminato da una duplice forma di conoscenza, ed è come se in lui alla conoscenza intuitiva dovesse aggiungersene, come una sorta di riflesso, un’altra più elevata: la ragione come facoltà dei concetti astratti. Con essa ha fatto la sua comparse la capacità di riflettere, che abbraccia con il suo sguardo il futuro e il passato, e, in seguito, quella di meditare, di preoccuparsi, di agire con premeditazione sciogliendosi dai vincoli del presente, e infine anche una coscienza perfettamente chiara delle decisioni della propria volontà in quanto tali.
- Ora, con la semplice conoscenza intuitiva si era profilata la possibilità dell’illusione e dell’inganno, il che aveva pregiudicato la precedente infallibilità dell’impulso inconsapevole della volontà, tanto che istinto e impulso meccanico, come manifestazioni inconsapevoli della volontà in mezzo a quelle guidate dalla conoscenza, hanno dovuto venirle in aiuto; ebbene, con il sopravvenire della ragione quella sicurezza e quella infallibilità delle manifestazioni della volontà (che, all’altro estremo, nella natura inorganica, appaiono addirittura come rigorosa conformità a una legge) vanno quasi completamente perdute: l’istinto si ritrae del tutto, la riflessione, che ora deve sostituire tutto il resto, produce esitazione e incertezza, e diventa possibile l’errore, che in molti casi impedisce una adeguata oggettivazione della volontà per mezzo degli atti. Infatti, anche se la volontà ha già assunto, nel carattere, la sua direzione determinata e immodificabile, in relazione alla quale il volere stesso si realizza infallibilmente secondo la spinta del motivi, l’errore tuttavia può falsarne le manifestazioni, quando dei motivi illusori, simili a quelli reali, sopravvengono e si sostituiscono ad essi; questo capita, ad esempio, quando la superstizione ci suggerisce dei motivi immaginari, dai quali l’uomo è indotto a tenere una condotta del tutto opposta a quella che, diversamente, la sua volontà avrebbe prodotto nelle medesime circostanze.
§ 28 L’oggettivazione della volontà
Abbiamo preso in considerazione la grande varietà e diversità dei fenomeni in cui si oggettiva la volontà; abbiamo potuto vedere la lotta infinita e implacabile che essi combattono l’uno contro l’altro. Tuttavia, la volontà stessa, come cosa in sé, non è affatto compresa in quella molteplicità, né è toccata da quella mutevolezza. La diversità delle idee (platoniche), ossia dei gradi di oggettivazione, la moltitudine di individui in cui ciascuna di esse si presenta, la lotta delle forme per la materia: tutto questo non la riguarda, ma è solo la modalità della sua oggettivazione, e solo per mezzo di quest’ultima ha con essa una relazione mediata, grazie alla quale entra a far parte dell’espressione della sua essenza per la rappresentazione.
- Come una lanterna magica mostra molte immagini diverse, ma a renderle visibili è solo una fiamma, sempre la stessa, così in tutta la varietà dei fenomeni che, l’uno accanto all’altro, riempiono il mondo o che, come avvenimenti, si sopprimono l’uno dopo l’altro, a manifestarsi è solo un’unica volontà, il cui rendersi visibile, la cui oggettità, è il Tutto, e che permane immobile in tutti i cambiamenti; essa sola è la cosa in sé, tutti gli oggetti, invece, sono solo apparenze, e per usare il linguaggio di Kant, fenomeni.
- Benché nell’uomo, come idea (platonica), la volontà trovi la sua oggettivazione più chiara e più compiuta, tuttavia essa, da sola, non sarebbe in grado di esprimerne l’essenza.
- L’idea dell’uomo, per apparire nel significato che le appartiene, non doveva presentarsi sola e separata, ma doveva invece essere accompagnata dalla scala discendente dei diversi gradi della natura, attraverso tutte le forme degli animali, attraverso il regno vegetale, fino al mondo inorganico. In tutti questi gradi si ha una completa oggettivazione della volontà; essi vengono presupposti dall’idea dell’uomo, come i fiori dell’albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco, le radici, e costituiscono una piramide il cui vertice è l’uomo.
- Questa necessità interna della scala graduale dei fenomeni della volontà, che non è separabile da una sua adeguata oggettivazione, noi la troviamo però espressa anche, nell’insieme dei fenomeni stessi, da una necessità esterna, in forza della quale l’uomo, per la propria conservazione, ha bisogno degli animali, e questi ultimi, di grado in grado, hanno bisogno l’uno dell’altro e anche delle piante che, a loro volta, hanno bisogno del suolo, dell’acqua, degli elementi chimici e delle loro combinazioni, del pianeta, del sole, della rotazione e della rivoluzione intorno ad esso, dell’inclinazione e dell’ellittica, e così via.
- In ultima istanza, questa situazione dipende dal fatto che la volontà deve nutrirsi di se stessa: al di fuori di essa non esiste nulla, ed essa è una volontà affamata. Di qui la caccia, l’angoscia, la sofferenza.
- Come la conoscenza dell’unità della volontà come cosa in sé, nell’infinita varietà e diversità dei fenomeni, è la sola che possa darci la vera spiegazione di quella prodigiosa, incontestabile analogia di tutte le produzioni della natura, di quell’aria di famiglia, che ci consente di considerarle come variazioni del medesimo tema non obbligato; così, in un certo senso, la conoscenza chiara e approfondita di quell’armonia, di quella connessione essenziale che unisce tutte le parti del mondo, di quella loro necessaria gradazione che abbiamo appena preso in esame, ci consentirà di gettare uno sguardo veritativo e sufficiente nell’essenza profonda e nel significato dell’innegabile finalità di tutti i prodotti organici della natura, finalità che noi addirittura ammettiamo a priori nella trattazione e nel giudizio che diamo di essi.
- Questa finalità ha due modalità: da una parte è una finalità interna, ossia una concordanza di tutte le parti di un singolo organismo ordinata in modo che ne risulti la conservazione di quest’ultimo e della specie, e che perciò si presenta come lo scopo di quell’ordinamento. Dall’altra parte è una finalità esterna, ossia una relazione della natura inorganica con la natura organica in generale, o anche di singole parti della natura organica fra loro, che rende possibile la conservazione della natura organica nella sua interezza, o anche di singole specie animali, e perciò si presenta al nostro giudizio come un mezzo per il conseguimento di questo scopo.
- La finalità interna si connette ora alle nostre considerazioni nel modo seguente. Se, seguendo quanto si è detto, tutte le differenti forme della natura e tutta la molteplicità degli individui non appartengono alla volontà, ma solo alla sua oggettità e alla forma di quest’ultima, ne segue necessariamente che la volontà è indivisibile ed è presente tutta intera in ciascun fenomeno, sebbene i gradi della sua oggettivazione, le idee (platoniche), siano molto differenti.
- Per facilitare la comprensione di questo punto, possiamo considerare queste differenti idee come atti di volontà singoli e in sé semplici, nei quali si esprime in misura maggiore o minore la sua essenza; gli individui sono però a loro volta manifestazioni fenomeniche delle idee, cioè di quegli stessi atti, nel tempo, nello spazio e nella molteplicità.
- Ora, un atto (o un’idea) di questo genere, nei gradi più bassi dell’oggettità, mantiene la propria unità anche nel fenomeno; mentre nei gradi più alti, per manifestarsi, ha bisogno di un’intera serie di stati e di sviluppi nel tempo i quali, solo se considerati nel loro insieme, possono fornire la completa espressione della sua essenza.
- Così, per esempio, l’idea che si manifesta in una qualsiasi forza generale della natura ha sempre e solo una manifestazione semplice anche se si presenta in modo diversi a seconda delle relazioni esterne; se così non fosse non sarebbe neanche possibile provare la sua identità, cosa che può essere fatta proprio mettendo tra parentesi le differenze che scaturiscono solo dalle relazioni esterne. Così, ancora, il cristallo ha una sola manifestazione vitale costituita appunto dal suo cristallizzarsi; già la pianta, però, esprime l’idea di cui è fenomeno non più in una sola volta e attraverso una manifestazione semplice, ma in uno sviluppo successivo dei propri organi nel tempo. L’animale, poi, non solo sviluppa il proprio organismo nello stesso modo, in una successione di forme spesso molto differenti (metamorfosi), ma questa forma stessa, sebbene sia già oggettità della volontà in quel grado, non basta però a fornire una raffigurazione compiuta della sua idea; essa deve piuttosto essere integrata dalle azioni dell’animale, nelle quali si esprime il suo carattere empirico, che è sempre lo stesso in tutta la specie ed è il primo compimento della manifestazione dell’idea, il che presuppone, come condizione fondamentale, un organismo determinato.
- Nella specie umana il carattere empirico ha già in ciascun individuo una sua natura peculiare. Ciò che, attraverso il suo sviluppo necessario nel tempo e attraverso il suddividersi in singole azioni che da esso dipende, viene riconosciuto come carattere empirico è, se si fa astrazione da questa forma temporale del fenomeno, il carattere intellegibile che coincide quindi con l’idea o, più propriamente, con l’originario atto di volontà che in esso si manifesta. In questo senso, dunque, non solo il carattere empirico dell’uomo, ma anche quello di ogni specie animale, e anche di ogni specie vegetale, e addirittura di ogni forza originaria della natura inorganica, vanno considerati come manifestazione fenomenica di un carattere intellegibile, ossia di un atto a-temporale e indivisibile della volontà.
- Nell’animale vediamo la volontà di vivere, per così dire, più nuda che nell’uomo, dove essa è così ben rivestita dalla conoscenza e, oltre a ciò, mascherata dalla capacità di simulare, che la sua vera essenza non viene alla luce se non in modo casuale e frammentario. Del tutto nuda, ma anche molto più debole, essa si mostra nella pianta come semplice, cieco impulso a esistere, senza scopo e senza meta.
- Ma proviamo ora ad applicare ciò che abbiamo detto alla considerazione teleologica degli organismi, in quanto essa concerne la loro interiore conformità al fine. Se nella natura inorganica l’idea, che va considerata sempre come un singolo atto di volontà, si manifesta solo in una singola espressione sempre uguale, sì che si può dire che qui il carattere empirico partecipa immediatamente dell’unità del carattere intellegibile, quasi facendo tutt’uno con esso, per questo qui non si può mostrare alcuna interna conformità al fine.
- Se, al contrario, tutti gli organismi esprimono la loro idea per mezzo di una successione di momenti che si sviluppano l’uno dopo l’altro, condizionata da una varietà di parti diverse che si trovano l’una accanto all’altra, la somma delle manifestazioni del loro carattere empirico è espressione di quello intellegibile soltanto nell’insieme; sì che questa necessaria giustapposizione delle parti e questa necessaria successione dello sviluppo non sopprimono affatto l’unità dell’idea che si manifesta, l’unità dell’atto di volontà che si esprime; piuttosto, questa unità trova ora la sua espressione nella relazione e nella concatenazione necessarie che legano l’una all’altra quelle parti e quegli sviluppi secondo la legge di causalità.
- Dato che la volontà una e indivisibile, e proprio per questo sempre concorde con se stessa, è quella che si manifesta nell’intera idea come in un atto unico, il suo fenomeno deve, anche se si disperde in una molteplicità di parti e di stati diversi, mostrare la propria unità conferendo loro una costante armonia; ciò accade per mezzo di una necessaria relazione e dipendenza di ciascuna parte da ogni altra, in forza della quale anche nel fenomeno si riproduce l’unità dell’idea. In conseguenza di ciò, noi conosciamo ora le diverse parti e le diverse funzioni dell’organismo come mezzo e come fine l’una dell’altra, e l’organismo stesso come lo scopo ultimo di tutte quante.
- Ora, per ciò che concerne quella che, secondo la suddivisione precedente, è la seconda specie di finalità, quella esteriore (la quale non si mostra nell’economia interna degli organismi, bensì nel sostegno e nell’aiuto che ricevono dall’esterno, tanto dalla natura inorganica, quanto gli uni dagli altri), anch’essa trova la propria spiegazione generale nell’esposizione che abbiamo appena proposto, proprio in quanto il mondo intero, con tutti i suoi fenomeni, è l’oggettità di un’unica e indivisibile volontà, l’idea che sta alle altre idee come l’armonia sta alle singole voci, sì che quell’unità della volontà deve mostrarsi anche nell’accordo di tutti i fenomeni tra loro.
- Il carattere di ogni singolo uomo può, essendo del tutto individuale e non essendo interamente compreso nel carattere della specie, essere considerato come un’idea particolare corrispondente a un peculiare atto di oggettivazione della volontà. Questo stesso atto sarebbe quindi il suo carattere intellegibile, del quale il carattere empirico non è che la manifestazione fenomenica. Il carattere empirico è in tutto e per tutto determinato da quello intellegibile, che è volontà priva di fondamento, ossia volontà che, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di ragione (che è la forma del fenomeno). Il carattere empirico deve, nel corso della vita, fornire l’immagine di quello intellegibile, realizzarsi in modo diverso da quello che è richiesto dall’essenza di quest’ultimo. Tale determinazione si estende però solo a ciò che, nel corso di una vita determinata in questo modo, è essenziale, non all’inessenziale. Inessenziale ad essa è la determinazione precisa degli avvenimenti e delle azioni che costituiscono il terreno in cui il carattere empirico si mostra. Questi ultimi sono determinati da circostanze esteriori che forniscono i motivi ai quali il carattere reagisce in conformità alla propria natura; ora, dato che essi possono essere i più svariati, svariate devono essere anche le direzioni in cui, sotto la loro influenza, deve dirigersi la conformazione esterna del carattere empirico, ossia la conformazione fattualmente o storicamente determinata del corso della vita. Quest’ultimo potrà realizzarsi nelle forme più diverse, anche se ciò che vi è di essenziale in questo fenomeno, il suo contenuto, rimane il medesimo; così, per esempio, è inessenziale che si giochi puntando delle noci o dei soldi, mentre lo è che si bari al gioco, o che si giochi onestamente: questo dipende dal carattere intellegibile, quello dall’influsso delle circostanze esterne. Come lo stesso tema musicale si può presentare in cento variazioni, così lo stesso carattere si può presentare in cento diverse forme di vita. Ma per quanto diversificata possa essere l’influenza esterna, il carattere empirico che si manifesta nel corso della vita deve comunque, in qualsiasi modo si realizzi, oggettivare precisamente il carattere intellegibile, adattando la sua oggettivazione alla materia offerta dalle circostanze fattuali.
- Se vogliamo pensare a come la volontà, nell’atto originario della sua oggettivazione, determini le diverse idee nelle quali essa si oggettiva (vale a dire le diverse forme degli esseri naturali di ogni specie, tra i quali suddivide la propria oggettivazione e che, di conseguenza, devono avere necessariamente un rapporto reciproco nel fenomeno), dobbiamo ammettere qualcosa di analogo a quell’influsso delle circostanze esterne sul corso della vita, che pure è determinato nella sua essenza dal carattere. Dobbiamo ammettere che fra tutti quei fenomeni dell’unica volontà abbia luogo, in generale, un reciproco adattamento e accomodamento, escludendo comunque tutte le determinazioni temporali, dato che l’idea si trova fuori del tempo. Per conseguenza, ogni fenomeno si è dovuto adattare all’ambiente in cui è sopraggiunto; e quest’ultimo, a sua volta, si è dovuto adattare ad esso, anche se, dal punto di vista temporale, quest’ultimo era molto più recente; questo consensus naturae noi lo vediamo ovunque.
- Di conseguenza, questo metodo di spiegazione può anche valere in senso inverso, e indurci ad ammettere non solo che ogni specie ha dovuto adattarsi alle circostanze precedenti, ma anche che le stesse circostanze che si sono prodotte, nel tempo, in precedenza, hanno avuto a loro volta riguardo agli esseri che avrebbero dovuto sopravvenire più tardi.
- Perciò, nell’esame che stiamo conducendo, dal modo con cui l’oggettivazione della volontà si suddivide tra le idee, la successione temporale non ha alcun significato, e le idee che si sono manifestate per prime, in conformità alla legge della causalità alla quale, in quanto fenomeni, sottomesse, non hanno alcun diritto di precedenza su quelle il cui fenomeno è sopraggiunto più tardi; anzi, queste ultime sono le oggettivazioni più perfette della volontà, cui le prime si sono dovute adattare, allo stesso modo in cui le ultime si sono dovute adattare alle prime.
- In generale, dunque, l’istinto degli animali costituisce l’introduzione migliore a una comprensione della teleologia della natura. Infatti, come l’istinto è un agire simile a quello prodotto dal concetto della finalità, pur non avendone alcuno, così ogni figura della natura è simile a quelle che rispondono a un concetto di finalità, e persino quando ne è priva. Nella teleologia della natura esterna come in quella interna, infatti, ciò che dobbiamo pensare come mezzo e come scopo è sempre e solo la manifestazione fenomenica dell’unità dell’unica volontà che, da questo punto di vista, è in armonia con se stessa, una manifestazione che si è moltiplicata per rispondere al nostro modo di conoscere nello spazio e nel tempo.
- Intanto, però, l’accomodarsi e l’adattarsi reciproco dei fenomeni, derivato da questa unità, non può estinguere quell’intima conflittualità che è essenziale alla volontà che abbiamo descritto sopra e che si manifesta nella lotta generalizzata della natura. Quell’armonia si spinge solo fino a rendere possibile la sussistenza del mondo e delle creature che lo abitano, le quali, senza di esse, sarebbero perite già da molto tempo. Perciò si estende solo alla sussistenza della specie e alle condizioni generali di vita, ma non a quelle dell’individuo.
- Se, quindi, grazie a quell’armonia e a quell’adattamento, le specie del mondo organico e le forze universali della natura in quello inorganico sussistono le une accanto alle altre, addirittura sorreggendosi reciprocamente, l’intima conflittualità della volontà che si è oggettivata in tutte quelle idee si mostra invece nella incessante guerra che stermina gli individui di quella specie e nel lottare perenne dei fenomeni di quelle forze naturali l’uno contro l’altro. La scena e l’oggetto di questa lotta sono costituiti dalla materia, della quale i contendenti cercano di strapparsi vicendevolmente il possesso, come anche dallo spazio e dal tempo, la cui unificazione nella forma della causalità costituisce propriamente la materia.
- Questo mondo, nel quale viviamo e siamo, è nella sua intera essenza in tutto e per tutto volontà e, a un tempo, in tutto e per tutto rappresentazione.
- Questa rappresentazione presuppone già, come tale, una forma, quella dell’oggetto e del soggetto, ed è perciò relativa.
- Se poi ci interroghiamo che cosa resti una volta che siano state soppresse questa forma e tutte le altre ad essa subordinate espresse dal principio di ragione, questo qualcosa, essendo un che del tutto diverso dalla rappresentazione, non può essere altro che volontà, la quale perciò è l’autentica cosa in sé.
- Ciascuno percepisce se stesso come questa volontà in cui consiste l’intima essenza del mondo, così come percepisce anche se stesso come il soggetto conoscente di cui il mondo intero è rappresentazione, mondo che, perciò, ha un’esistenza solo in relazione alla sua coscienza, nella quale trova il suo necessario sostegno.
- Ciascuno è, dunque, sotto questo doppio aspetto, il mondo intero stesso, il microcosmo, e trova entrambi i lati del mondo tutti interi e compiuti in se stesso. E ciò che così egli riconosce come la sua propria essenza costituisce anche l’essenza del mondo intero, il macrocosmo: anch’esso è, come lui, in tutto e per tutto volontà e in tutto e per tutto rappresentazione, e niente di più.
- Ogni volontà è volontà di qualcosa, ha un oggetto, uno scopo del suo volere; che cosa vuole dunque alla fine e a che cosa tende quella volontà che abbiamo presentato come l’essenza in sé del mondo?Questa domanda si basa, come moltissime altre, sulla confusione della cosa in sé col fenomeno.
- Solo al fenomeno, non alla cosa in sé, si estende il principio di ragione, una delle cui forme è anche la legge della motivazione. Ovunque si può dar ragione solo dei fenomeni in quanto tali, delle singole cose, ma non della volontà stessa, e nemmeno dell’idea in cui quest’ultima si oggettiva in modo adeguato. Così, di ogni singolo movimento o, in generale, dei cambiamenti nella natura, si deve cercare una causa, ossia uno stato che li abbia prodotti in modo necessario; non la si può cercare, invece, della forza naturale stessa che si manifesta in quel particolare fenomeno e in innumerevoli altri uguali ad esso: è un’autentica sciocchezza, prodotta dalla mancanza di riflessione, interrogarsi sulla causa della forza di gravità, dell’elettricità, e così via.
- Se per caso si riuscisse a dimostrare che la forza di gravità, o l’elettricità, non sono vere e proprie forze originarie della natura ma solo modalità fenomeniche di una forza naturale più generale già nota, allora ci si potrebbe interrogare sulla causa grazie alla quale questa forza naturale produrrebbe qui il fenomeno della forza di gravità, o dell’elettricità.
- Allo stesso modo, ogni singolo atto della volontà di un individuo conoscente (il quale è egli stesso solo un fenomeno della volontà come cosa in sé) ha di necessità un motivo senza il quale quell’atto non avrebbe avuto luogo; tuttavia, come la causa materiale contiene solamente la determinazione per cui, in un determinato tempo, in un determinato luogo, in questa materia, si deve produrre una manifestazione di questa o di un’altra forza naturale, così anche il motivo determina solo l’atto di volontà di un essere conoscente in un determinato tempo, in un determinato luogo, in presenza di determinate circostanze, come un atto singolo; in nessun modo, però, può determinare il fatto che quell’essere, in generale, voglia, e che voglia in questo modo particolare; questo fatto è invece l’espressione del suo carattere intellegibile che, come la volontà stessa, la cosa in sé, è priva di fondamento, in quanto si trova al di fuori del dominio del principio di ragione.
- Perciò ogni uomo ha sempre scopi e motivi determinati, in base ai quali orienta la propria condotta, e sa dar ragione in ogni momento di ogni sua singola azione; se però gli chiedessimo perché egli, in generale, voglia, o perché egli, in generale, voglia esistere, non avrebbe più alcuna risposta e piuttosto gli parrebbe insensata la domanda; proprio in ciò si esprimerebbe la coscienza che egli stesso non è altro che che volontà, il cui volere, in generale, si comprende da sé e ha bisogno di una più precisa determinazione soltanto nei suoi singoli atti, nei singoli istanti del tempo.
- Nei fatti, la mancanza di ogni finalità, di ogni confine, appartiene all’essenza della volontà in sé, che è un tendere all’infinito.
- La tensione della materia può perciò essere appena tenuta a freno, ma non può essere mai esaurita e soddisfatta. E la stessa cosa accade con ogni tendenza di tutti i fenomeni della volontà: ogni meta raggiunta è a sua volta l’inizio di un nuovo percorso, e così all’infinito.
§ 30 Breve riassunto libri 1 e 2
Dopo che nel primo libro abbiamo presentato il mondo come semplice rappresentazione, come oggetto per un soggetto, nel secondo libro abbiamo preso in considerazione l’altra sua faccia, scoprendo che si tratta della volontà, la sola cosa che resti del mondo una volta che si prescinda dalla rappresentazione. Così, coerentemente a questa conoscenza, abbiamo definito il mondo come rappresentazione, nel suo insieme come nelle sue parti, l’oggettità della volontà, il che, detto altrimenti, significa: volontà divenuta oggetto, ossia rappresentazione. Rammentiamoci adesso, inoltre, che un’oggettivazione della volontà di questo genere aveva sì molti gradi, determinati peraltro in modo preciso, attraverso i quali, con una chiarezza e compiutezza di grado in grado più elevate, l’essenza della volontà faceva il suo ingresso nella rappresentazione, veniva cioè a rappresentarsi come oggetto. In questi gradi abbiamo riconosciuto le idee di Platone, proprio in quanto essi sono le specie determinate, o le forme e le proprietà originarie, non passibili di cambiamento, di tutti i corpi naturali, sia inorganici che organici, come anche le forze universali che si rendono manifeste per mezzo delle leggi naturali. Queste idee, nel loro insieme, si presentano in innumerevoli individui e determinazioni particolari, e si pongono di fronte ad essi al modo in cui i modelli stanno di fronte alle loro copie. La molteplicità di questi individui si può presentare solo attraverso il tempo e lo spazio, il loro prodursi e perire solo attraverso la legge di causalità, forme nelle quali noi non riconosciamo altro che i differenti aspetti del principio di ragione, che è il principio ultimo di tutte le cose finite, di ogni individuazione, e la forma generale della rappresentazione, come essa si presenta alla conoscenza dell’individuo come tale. L’idea, invece, non è sottoposta a questo principio: non le appartengono quindi né la molteplicità né il cambiamento. Mentre gli individui in cui si presenta sono innumerevoli e inevitabilmente soggetti al divenire e al perire, essa rimane sempre immutabile una e sempre la stessa, e il principio di ragione non ha per lei alcun significato. Ora, dato che esso è la forma che subordina a sé l’intera conoscenza del soggetto, in quanto conosce come individuo, anche le idee si verranno a trovare del tutto al di fuori della sfera di conoscenza dell’individuo in quanto tale. Se quindi si vuole che le idee divengano oggetto della conoscenza, sarà necessario che nel soggetto conoscente l’individualità venga soppressa.
- Se dunque, per noi, la volontà è la cosa in sé, e l’idea invece l’oggettità immediata di quella volontà in un grado determinato, allora scopriamo che la cosa in sé di Kant e l’idea di Platone, che per lui è il solo che realmente è, questi due grandi oscuri paradossi dei più grandi filosofi dell’Occidente, pur non essendo in effetti identici, sono però strettamente connessi e si distinguono solo per una singola determinazione. Anzi, questi due grandi paradossi, proprio perché, nonostante la loro sintonia e affinità, suonano in modo così diverso, in ragione delle individualità straordinariamente diverse dei loro autori, sono addirittura il miglior commentario l’uno dell’altro, in quanto sono come due sentieri completamente diversi che conducono però a un’unica meta.
- Entrambe ritengono che il mondo visibile sia un’apparenza fenomenica e che, in se stessa, è nulla e che ha solo un significato e una realtà presi a prestito da ciò che in essa si esprime (la cosa in sé per Kant, per Platone l’idea): a quest’ultimo, il solo a essere veramente reale, sono del tutto estranee, secondo entrambe le dottrine, tutte le forme del fenomeno, anche quelle più universali e più essenziali.
- Kant, per negare queste forme, le ha concepite immediatamente come espressioni astratte e ha negato senz’altro che tempo, spazio e causalità, come semplici forme del fenomeno, appartengano alla cosa in sé; Platone, invece, non si è spinto fino in fondo e ha negato solo in modo indiretto che quelle forme appartengano alle sue idee, in quanto ha rifiutato di attribuire ad esse tutto ciò che è possibile solo grazie a tali forme, ossia la molteplicità di ciò che appartiene alla medesima specie, il nascere e il perire.
- Per rendere ancor più evidente la concordanza facciamo il seguente esempio. Supponiamo che davanti a noi ci sia un animale in piena attività vitale.
- Platone dirà: «Quello di questo animale non è un essere vero e proprio, ma solo un essere apparente; è un continuo divenire, un’esistenza relativa che può essere definita con uguale legittimità sia non-essere sia essere. Esiste veramente solo l’idea che raffigura se stessa in quell’animale, o l’animale in se stesso, che non dipende da nulla e che esiste solo in sé e per sé, che non diviene, non ha fine, ma è sempre nello stesso modo. Ora, sin quando in questo animale noi riconosciamo la sua idea, è del tutto indifferente e privo di significato se abbiamo davanti questo animale che è qui adesso oppure un suo antenato vissuto mille anni fa, e così pure se esso si trovi qui o in una terra lontana, se si presenti in questo o in quel modo, in questa o quella posizione, se agisca in questo o quel modo, e se, infine, sia proprio questo oppure un qualunque altro individuo della sua stessa specie: tutto ciò non ha alcuna importanza e concerne solo il fenomeno; solo l’idea dell’animale ha un autentico essere ed è oggetto di una conoscenza effettiva». Così Platone.
- Kant direbbe pressapoco così: «Questo animale è un fenomeno nel tempo, nello spazio e nella causalità, che sono nel loro insieme condizioni a priori della possibilità dell’esperienza, che troviamo unicamente nella nostra facoltà conoscitiva, non determinazioni della cosa in sé. Perciò questo animale, così come noi lo vediamo in un tempo determinato, in un dato luogo, come un individuo che fa parte della concatenazione dell’esperienza, ossia delle cause e degli effetti, e perciò necessariamente destinato a morire, non è una cosa in sé, ma soltanto un fenomeno che non ha valore se non in relazione alla nostra conoscenza. Per poter sapere che cosa questo animale sia in sé, ossia indipendentemente da tutte le determinazioni che si trovano nel tempo, nello spazio e nella causalità, noi dovremmo possedere una facoltà di conoscenza diversa dall’unica che i sensi e l’intelletto ci rendono possibile».
- Per avvicinare ancora di più l’espressione di Kant a quella platonica, si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità sono l’unica disposizione del nostro intelletto che consente all’essenza di tutto ciò che effettivamente esiste – la quale è una sola – di presentarsi come una molteplicità di enti della stessa specie che sempre di nuovo si generano e periscono, in una successione infinita. La comprensione delle cose per mezzo e in conformità a questa disposizione è la comprensione immanente; quella invece che diventa consapevole di come stanno in effetti le cose è la comprensione trascendentale. Quest’ultima la si consegue in astratto per mezzo della critica della ragion pura ma, in via eccezionale, può presentarsi anche intuitivamente.
§ 32 Platone e Kant
Malgrado l’intima concordanza fra Kant e Platone e malgrado l’identità della meta che stava davanti agli occhi di entrambi e la concezione del mondo che li aveva indotti e guidati nella filosofia, tuttavia l’idea e la cosa in sé per noi non sono assolutamente un’unica e medesima cosa: per noi, piuttosto, l’idea è solo l’oggettità immediata e perciò adeguata della cosa in sé; la cosa in sé, però, è la volontà, quella volontà che, in quanto non ancora oggettivata, non è ancora diventata rappresentazione. Poiché la cosa in sé deve, secondo lo stesso Kant, essere libera da tutte le forme che dipendono dal conoscere come tale, egli avrebbe dovuto negare esplicitamente alla sua cosa in sé il carattere dell’essere oggetto. L’idea platonica, invece, è necessariamente un oggetto, un conosciuto, un rappresentato e, proprio per questo, ma anche solo per questo, si distingue dalla cosa in sé. Essa ha semplicemente abbandonato le forme subordinate del fenomeno, che noi raccogliamo tutte sotto il principio di ragione, o meglio, non ha ancora fatto il suo ingresso in esse; ha mantenuto, però, la forma prima e più universale, ossia quella di essere in generale rappresentazione, il suo essere oggetto per un soggetto. Le forme ad essa subordinate (la cui forma più generale è il principio di ragione) sono ciò che moltiplica le idee nei singoli individui destinati a perire, il cui numero, rispetto all’idea, è del tutto ininfluente. Il principio di ragione è dunque ancora una volta la forma di cui si riveste l’idea come unica oggettità immediata della volontà, in quanto non ha assunto alcun’altra forma del conoscere come tale se non quella della rappresentazione in generale, ossia quella dell’essere oggetto per un soggetto. Solo essa, perciò, è la più adeguata oggettità della volontà e della cosa in sé: essa stessa è l’intera cosa in sé, ma solo sotto la forma della rappresentazione; ed è appunto qui che sta la grande concordanza tra Platone e Kant, sebbene, a rigor di termini, ciò di cui l’uno e l’altro parlano non sia la stessa cosa. Le singole cose, però, non sono affatto affatto una oggettità adeguata della volontà, poiché essa qui è già offuscata da quelle forme la cui espressione comune è costituita dal principio di ragione, e che sono però la condizione della conoscenza che è possibile all’individuo come tale.
§ 33 Conoscenza e volontà
Ora, dato che noi, come individui, non disponiamo di una conoscenza diversa da quella sottoposta al principio di ragione, e dato che questa forma esclude la conoscenza delle idee, è certo che, ove sia possibile che ci innalziamo dalla conoscenza delle singole cose a quella delle idee, ciò potrebbe accadere solo se anche nel soggetto si verificasse una trasformazione corrispondente.
- Il conoscere stesso, generalmente, appartiene all’oggettivazione della volontà nel suo grado più alto; e che sensibilità, nervi, cervello sono appunto, come le altre parti dell’organismo, espressioni della volontà in questo grado della sua oggettità; e che, perciò, la rappresentazione che si produce per loro tramite è anch’essa destinata al suo servizio, come un mezzo per il conseguimento dei suoi scopi, che ora sono diventati più complessi, per la conservazione di un essere che ha una molteplicità di bisogni.
- Originariamente, dunque, e per sua natura, la coscienza è costretta a seguire in tutto e per tutto la volontà e, come l’oggetto immediato, che diventa un punto di partenza grazie all’applicazione della legge di causalità, è solo volontà oggettivata, così anche tutta la conoscenza che risulta dal principio di ragione si mantiene in una relazione più o meno stretta con la volontà.
- L’individuo scopre infatti che il proprio corpo è un oggetto tra gli oggetti, con la totalità dei quali egli ha svariate connessioni e relazioni conformi al principio di ragione, e la cui considerazione riconduce sempre, in via diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla propria volontà.
- Dato che è il principio di ragione a porre gli oggetti in questa relazione con il corpo, e quindi con la volontà, ne segue che la conoscenza che è al servizio di quest’ultima tenterà di conoscere, degli oggetti, solo le connessioni stabilite dal principio di ragione, cioè tenterà di seguire le loro svariate relazioni nello spazio, nel tempo e nella causalità, poiché solo in forza di esse l’oggetto è, per l’individuo, interessante, ossia ha una relazione con la volontà.
- Di conseguenza, la conoscenza, che è asservita alla volontà, degli oggetti non conosce davvero niente di più che le loro relazioni; li conosce in quanto esistono in un certo tempo, in un determinato luogo, e in precise circostanze, in forza di queste date cause e con questi dati effetti; in una parola: li conosce come cose singole e, ove tutte queste relazioni fossero tolte, anche gli oggetti per essa svanirebbero, proprio perché essa di questi ultimi non conosceva che quelle relazioni.
- Non dobbiamo nemmeno nasconderci che ciò che degli oggetti le scienze prendono in considerazione altro non è, sostanzialmente, se non ciò che abbiamo appena detto, vale a dire le loro relazioni; le connessioni nel tempo e nello spazio, le cause dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, i motivi degli accadimenti: soltanto relazioni, dunque.
- Ciò che le distingue dalla conoscenza comune è solo la loro forma, la sistematicità, la capacità di facilitare la conoscenza grazie alla riunificazione di tutte le singolarità individuali nell’universale, ottenuta per mezzo della loro subordinazione ai concetti e la completezza che essa stessa, in questo modo raggiunge.
§ 34 Il distacco in funzione dell’idea
Il passaggio dalla conoscenza delle singole cose alla conoscenza dell’idea, che è possibile però, come si è detto, solo come eccezione, si verifica improvvisamente: la conoscenza si distacca dal servizio alla volontà e, proprio per questo, il soggetto cessa di essere puramente individuale ed è ora il soggetto puro della conoscenza, quel soggetto privo di volontà che non insegue più le relazioni conformi al principio di ragione, ma si acquieta ed è come assorbito nella ferma contemplazione dell’oggetto che gli sta dinnanzi, al di fuori delle sue connessioni con qualche altro oggetto.
- Quando, elevandoci con la forza della nostra mente, abbandoniamo il modo consueto di considerare le cose e smettiamo di cercare, seguendo il filo conduttore delle forme del principio di ragione, solo le loro relazioni reciproche, il cui termine ultimo è sempre una relazione con una volontà particolare;
- quando dunque delle cose non consideriamo più il dove, il quando e il perché e l’a che scopo, ma solo e soltanto il che cosa;
- quando non lasciamo più che il pensare astratto, i concetti della ragione si impadroniscano della coscienza, ma invece, in luogo di tutto questo, applichiamo tutta intera la forza della nostra mente all’intuizione, ci immergiamo in essa, e lasciamo che la coscienza venga saturata completamente dalla quieta contemplazione di qualche oggetto naturale presente, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edificio o qualsiasi altra cosa;
- quando ci si perde completamente in questo oggetto, ossia si dimentica il proprio essere naturale, la propria volontà, e si continua a consistere come puro soggetto, come limpido specchio dell’oggetto, allora è come se esistesse solo l’oggetto, senza nessuno che lo percepisca, e non è più possibile separare l’intuente dall’intuizione: essi sono diventati una cosa sola in quanto l’intera coscienza è interamente riempita e catturata da una singola immagine intuitiva.
- Quando dunque, in questo modo, l’oggetto si è sciolto da ogni relazione con qualcosa che stia al di fuori di esso, il soggetto si è sciolto da ogni relazione con la volontà, ciò che in questo modo viene conosciuto non è più la singola cosa come tale, bensì l’idea, la forma eterna, l’oggettità immediata della volontà in quel determinato grado; e proprio per questo, allo stesso tempo, chi è assorto in questa contemplazione non è più individuo, appunto perché l’individuo si è annullato proprio in questa contemplazione;
- egli è invece soggetto conoscente puro, libero dalla volontà, dal dolore, dal tempo.
- Non appena l’individuo conoscente si eleva a puro soggetto del conoscere e, proprio così facendo, eleva l’oggetto preso in considerazione a idea, il mondo come rappresentazione si manifesta nella sua interezza e purezza, e si verifica la compiuta oggettivazione della volontà, dato che solo l’idea è la sua oggettità adeguata.
- Questa racchiude in sé nello stesso modo oggetto e soggetto, che sono la sua unica forma e che si trovano però in essa in una situazione di perfetto equilibrio: come l’oggetto non è qui nient’altro che la rappresentazione del soggetto, così anche il soggetto, mentre è del tutto consegnato all’oggetto intuito, è diventato questo stesso oggetto, in quanto l’intera coscienza non è altro che la più limpida immagine di quest’ultimo.
- È appunto questa coscienza, in quanto capace di percorrere ordinatamente col pensiero tutte le idee, o i gradi dell’oggettità della volontà, a costituire l’intero mondo come rappresentazione. Le singole cose di ogni tempo e di ogni spazio non sono altro che idee moltiplicate, e perciò offuscate nella loro pura oggettità, dal principio di ragione (che è la forma di conoscenza dell’individuo come tale).
- Se prescindiamo del tutto dal vero e proprio mondo come rappresentazione, non ci rimane altro che il mondo come volontà.
- La volontà è l’in-sé dell’idea, che la oggettiva compiutamente; essa è anche l’in-sé della singola cosa e dell’individuo conoscente stesso, che la oggettivano in modo imperfetto. Come volontà, esterna alla rappresentazione e a tutte le sue forme, essa è una e la stessa nell’oggetto contemplato e nell’individuo che, spiccando il volo verso questa contemplazione, acquista coscienza di sé come soggetto puro: l’uno e l’altro, perciò, sono inseparabili, poiché in sé essi sono la volontà che conosce se stessa, mentre molteplicità e differenza esistono solo come modalità in cui essa acquista conoscenza, ossia solo nel fenomeno, in virtù del principio di ragione, che ne è la forma.
- Come senza l’oggetto, senza la rappresentazione, io non sono soggetto conoscente, ma solo volontà cieca, allo stesso modo senza di me, in quanto soggetto del conoscere, la cosa conosciuta non è oggetto, ma solo volontà, cieco impulso. Questa volontà è in sé, ossia al di fuori della rappresentazione, una e identica con la mia: solo nel mondo come rappresentazione, la cui forma minima è sempre quella di soggetto e oggetto, ci scindiamo in un individuo conosciuto e uno conoscente. Non appena il conoscere, il mondo come rappresentazione, è tolto, non resta altro se non la semplice volontà, il cieco impulso.
§ 35 La volontà e l’idea
Concordiamo con Platone quando attribuisce l’autentico essere unicamente alle idee mentre, al contrario, alle cose nello spazio e nel tempo, a ciò che per l’individuo costituisce il mondo reale, riconosce un’esistenza solo apparente, onirica. Con ciò si comprende che in così tanti fenomeni si manifesta una sola e medesima idea e che la sua essenza si rivela agli individui conoscenti solo in modo frammentario, mostrando loro una faccia dopo l’altra. L’idea inoltre si distingue dalla modalità in cui il suo fenomeno diventa osservabile per l’individuo, riconoscendo che la prima è essenziale, la seconda inessenziale. Per esempio il ghiaccio che si deposita sui vetri della finestra obbedendo alle leggi della cristallizzazione, che rivelano l’essenza della forza naturale che qui si manifesta, che rappresenta l’idea; ma i suoi disegni sono inessenziali ed esistono solo per noi. Ciò che appare nelle varie manifestazioni della natura è l’eco più debole di quella volontà che, più compiuta nelle piante, si presenta ancor più compiuta nell’animale e compiuta al massimo grado nell’uomo. Ma è solo l’essenziale di tutti questi livelli della sua oggettivazione che costituisce l’idea: il dispiegarsi di essa, in quanto si realizza nella forma del principio di ragione e in una molteplicità di fenomeni multiformi, all’idea non è invece essenziale, e si verifica solo nel modo in cui l’individuo lo conosce e ha realtà unicamente per essa.
- Ora, lo stesso vale necessariamente per il dispiegarsi di quell’idea che è l’oggettità più compiuta della volontà: di conseguenza la storia del genere umano, la ressa degli avvenimenti, i cambiamenti nel tempo, le svariate forme che la vita umana assume in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non la forma casuale della manifestazione fenomenica dell’idea: non appartiene all’idea, nella quale soltanto si trova l’oggettità adeguata della volontà, ma solo a fenomeno che cade nella sfera conoscitiva dell’individuo, ed è così estraneo, inessenziale e indifferente all’idea in se stessa quanto lo sono per le nuvole le figure che esse disegnano nel cielo, per il ruscello la forma dei suoi gorghi, per il ghiaccio le forme disegnate sui vetri.
- Per chi ha compreso bene tutto questo e sa distinguere la volontà dall’idea e quest’ultima dalla sua manifestazione fenomenica, gli accadimenti del mondo non hanno alcun significato in sé e per sé, ma solo in quanto sono le lettere dell’alfabeto che ci mette in condizione di leggere l’idea dell’uomo.
- Nelle svariate forme della vita umana e nell’incessante mutare degli avvenimenti, egli considererà permanente ed essenziale soltanto l’idea, nella quale la volontà di vivere trova la propria compiuta oggettità, e che mostra tutti i suoi diversi aspetti nelle qualità, nelle passioni, negli errori e nei pregi degli uomini, nell’egoismo, nell’odio, nell’amore, nella paura, nell’audacia, nella leggerezza, nella stupidità, nella scaltrezza, nell’arguzia, nel genio, e così via, tutte cose che, combinandosi e cristallizzandosi in mille forme (individui) differenti, mandano incessantemente avanti la macro e la micro storia del mondo, nella quale è del tutto indifferente che a mettere in moto gli eventi siano delle noci o delle monete.
- Posto che ci fosse concesso una volta di gettare un limpido sguardo nel regno delle possibilità e su tutte le catene di cause ed effetti, lo spirito della terra balzerebbe fuori e ci mostrerebbe come in un quadro gli individui più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che il caso ha soppresso prima che venisse il loro momento; e poi i grandi avvenimenti che avrebbero potuto modificare la storia del mondo e produrre periodi di altissima cultura, se l’accidente più cieco, il caso più insignificante, non li avessero soffocati sul nascere; e infine le forze meravigliose dei grandi individui che avrebbero potuto fecondare intere epoche del mondo ma che, sviati dall’errore o dalla passione, oppure costretti dalla necessità, le hanno utilizzate per cose indegne e infruttuose, oppure le hanno dissipate per puro e semplice divertimento. Se vedessimo tutto questo non potremmo non rabbrividire e rimpiangere i tesori che intere epoche del mondo hanno perduto.
- Ma lo spirito della terra sorriderebbe, e ci direbbe: «La fonte da cui scaturiscono gli individui e le loro forze è inesauribile e infinita come il tempo e lo spazio: poiché anch’essi, come queste forme di tutti i fenomeni, sono solo manifestazioni fenomeniche, il rendersi visibile della volontà. Quella fonte infinita non può essere esaurita da una misura finita: quindi, per ogni avvenimento od opera soffocati sul nascere, resta sempre aperta, per riprodursi, una non diminuita eternità. In questo mondo del fenomeno non si può parlare di una vera e propria perdita, né di un vero e proprio guadagno. Solo la volontà è: essa, la cosa in sé, essa, la fonte di tutti quei fenomeni. La sua auto-coscienza e l’affermazione o la negazione che da essa derivano è l’unico avvenimento in sé».
§ 36 Lo scoglio del fenomeno si oltrepassa con l’arte
La storia segue il filo degli avvenimenti: è pragmatica, in quanto li deduce secondo la legge della motivazione, legge che determina il manifestarsi della volontà là dove essa è illuminata dalla conoscenza.
- Nei livelli della sua oggettità la conoscenza si esprime con delle discipline, che chiamiamo scienze e che seguono il principio di ragione in tutte le sue diverse forme, e la loro indagine si arresta al fenomeno, alle sue leggi, ai suoi nessi e alle relazioni che ne derivano.
- Ma che tipo di conoscenza è quella che prende in considerazione ciò che, sussistendo al di fuori e indipendentemente da ogni relazione, è ciò che vi è di propriamente essenziale nel mondo, il vero contenuto dei suoi fenomeni, che non è sottoposto ad alcun cambiamento e che perciò può essere conosciuto in ogni tempo con uguale verità (in una parola: le idee, che sono l’oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà)?
- Si tratta dell’arte, l’opera del genio.
- Essa riproduce le idee eterne, cogliendole in modo puramente contemplativo; riproduce ciò che vi è di essenziale e di permanente in tutti i fenomeni del mondo e, a seconda della materia in cui li riproduce, si presenta come arte figurativa, poesia o musica. Sua unica origine è la conoscenza delle idee, suo unico scopo la comunicazione di questa conoscenza.
- Mentre la scienza, che segue la corrente incessante e instabile della quadruplice forma della relazione tra fondamento e conseguenza, viene spinta sempre al di là di ogni meta che sia stata raggiunta e non può mai trovare una meta finale nella quale acquietarsi definitivamente; ebbene, l’arte, al contrario, è dappertutto alla meta, poiché essa strappa l’oggetto della sua contemplazione dalla corrente del fiume del mondo e, isolandolo, lo tiene fermo davanti a sé; e questo oggetto particolare, che in quella corrente non era altro che una piccola fuggevole parte, diventa per essa qualcosa che rappresenta l’intero, un equivalente della molteplicità infinita nello spazio e nel tempo: si ferma perciò a questo singolo oggetto: arresta la ruota del tempo; per essa scompaiono le relazioni: solo l’essenziale, l’idea è il suo oggetto.
- Possiamo perciò senz’altro indicarla come la considerazione delle cose indipendentemente dal principio di ragione, in contrapposizione a quella considerazione delle cose che invece lo segue e che costituisce il cammino dell’esperienza e della scienza.
- Solo grazie alla pura contemplazione sopra descritta, totalmente assorta nell’oggetto, vengono colte le idee, e l’essenza del genio consiste appunto nella straordinaria attitudine a una contemplazione di questo genere; ora, dato che essa richiede il completo oblio della propria persona e delle sue relazioni, dobbiamo riconoscere che la genialità altro non è che la perfetta oggettività, ossia l’orientamento oggettivo dello spirito, contrapposto a quello soggettivo, che tende alla propria persona, ossia alla volontà. La genialità è quindi l’attitudine a mantenersi nel puro intuire, a perdersi nell’intuizione, a liberare la conoscenza, che originariamente esiste solo al servizio della volontà, all’asservimento a essa; è cioè il perdere completamente di vista il suo interesse, il suo volere, i suoi scopi, spogliandosi del tutto, per un certo tempo, della sua personalità, per rimanere come puro soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo; e non solo per pochi istanti, ma in modo così durevole e con così grande consapevolezza quanto è necessario per riprodurre quanto è stato concepito con arte meditata, e per fissare in pensieri durevoli ciò che fluttua sull’onda dei fenomeni.
- Questo sovrappiù di conoscenza, divenuto libero, diventa così un soggetto purificato dalla volontà, un limpido specchio dell’essenza del mondo.
- Si è visto nella fantasia un elemento essenziale al costituirsi della genialità; anzi, talvolta si è giunti perfino a identificarla con essa: la prima cosa è corretta ma la seconda no.
- Dato che l’oggetto del genio come tale sono le idee eterne, le forme essenziali permanenti del mondo e di tutti i suoi fenomeni, e dato che la conoscenza dell’idea è invece di necessità una conoscenza intuitiva, non astratta, ne segue che la conoscenza del genio dovrebbe essere limitata alla conoscenza degli oggetti che sono effettivamente presenti alla sua persona e che dipendono dalla catena di circostanze che li hanno ricondotti sino a lui, se la fantasia non allargasse di molto il suo orizzonte al di là della sua esperienza personale e non lo mettesse in grado di ricostruire, a partire da quel poco che è giunto sino alla sua appercezione effettiva, tutto il resto, e di far passare dinnanzi a sé, in questo modo, quasi tutte le immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono altro che esemplari imperfetti dell’idea che in essi si rappresenta: il genio, quindi, ha bisogno della fantasia per vedere nelle cose non ciò che la natura ha effettivamente prodotto, bensì ciò che essa cercava di produrre ma che, a causa della lotta reciproca delle sue forme, non è riuscita a portare a compimento.
- L’espressione geniale di un volto consiste nel fatto che in essa si rende visibile una netta prevalenza del conoscere sul volere, e di conseguenza anche nel fatto che in essa si manifesta un conoscere privo di relazione con una volontà, ossia un puro conoscere. Al contrario, nelle altre facce predomina l’espressione del volere, e si vede che il conoscere non opera se non in seguito a una spinta del volere, ossia che opera solo sotto la guida di motivi.
- La conoscenza intuitiva, in generale, che comprende nel proprio dominio l’idea, è esattamente contrapposta a quella razionale o astratta, che è guidata dal principio di ragione del conoscere. Così, com’è noto, una grande genialità si trova raramente unita a una predominante capacità razionale; è vero piuttosto, al contrario, che individui geniali sono spesso preda di affetti violenti e di passioni irragionevoli.
- Pensiamo che esista un fondamento puramente intellettuale dell’affinità tra genialità e follia, anche se una visione chiara e compiuta dell’essenza della follia, un concetto corretto e trasparente di che cosa distingua davvero l’uomo privo di senno da quello sano di mente non sono stati ancora raggiunti.
- Non si può negare che individui folli siano dotati di ragione e di intelletto: essi sono in grado di esprimersi e di comprendere e spesso sanno trarre correttamente delle conclusioni; inoltre, di regola, riescono a cogliere perfettamente sia ciò che è presente, sia la connessione tra causa ed effetto. Le visioni, simili alle fantasie prodotte dalla febbre, non sono affatto comunemente un sintomo della follia: il delirio falsa la percezione, la follia i pensieri. Il più delle volte i folli non sbagliano nella conoscenza di ciò che è immediatamente presente; il loro farneticare si riferisce piuttosto sempre a ciò che è assente e passato, e solo per questa via alla sua relazione con il presente.
- La malattia potrebbe riguardare prevalentemente scompensi della memoria. Nella memoria del folle il vero e il falso si confondono sempre di più. Sebbene conosca correttamente il presente, lo falsa ponendolo in una relazione fittizia con un passato immaginario.
- Se vediamo che il folle ha una conoscenza corretta del presente nella sua singolarità e anche di qualche singolo elemento del passato, ma non comprende la loro connessione, la loro relazione, e perciò cade in errore e vaneggia, ebbene proprio questo è il suo punto di contatto con l’individuo di genio: anche costui, trascurando la conoscenza delle relazioni conformi al principio di ragione per vedere e cercare nelle cose solo le loro idee, per afferrare la loro autentica essenza così come gli si rivela intuitivamente, in modo che una sola cosa rappresenta l’intera specie, anche l’individuo di genio, dico, in questo modo perde di vista la conoscenza della relazione che lega l’una all’altra le cose; il singolo oggetto della sua contemplazione o il presente che egli percepisce in modo eccessivamente vivace gli si presentano in una luce così chiara che gli altri anelli della catena alla quale appartengono si vengono a trovare nell’ombra, il che produce dei fenomeni che hanno con quelli della follia una certa somiglianza. Ciò che in una singola cosa non esiste, se non in modo incompiuto e indebolito dalle modificazioni, viene elevato alla compiutezza dell’idea dal modo in cui la considera il genio; egli vede quindi dappertutto solo gli estremi e, proprio per questo, il suo agire si spinge all’estremo: non sa cogliere la giusta misura, manca di moderazione. Conosce in modo compiuto le idee, ma non gli individui.
§ 37 Il genio e l’arte
Dobbiamo ammettere che la capacità di riconoscere nelle cose le loro idee, spogliandosi così per un istante della propria personalità, sia presente in tutti gli uomini, a meno che non esista qualcuno che sia incapace di un godimento estetico. Il genio, rispetto agli altri, ha solo il vantaggio di possedere quella capacità a un grado più elevato e in modo più stabile, il che gli permette di unire ad essa la riflessione necessaria a riprodurre in un’opera creata a proprio arbitrio ciò che egli ha conosciuto in questo modo: questa riproduzione costituisce l’opera d’arte.
- Tramite l’opera d’arte il genio comunica l’idea agli altri. L’opera d’arte è semplicemente un mezzo che facilità quel tipo di conoscenza in cui consiste il piacere estetico. L’artista, attraverso i suoi occhi, ci consente di gettare uno sguardo dentro al mondo.
§ 38 L’uomo e il sublime
Abbiamo scoperto che la contemplazione estetica ha due componenti inseparabili: la conoscenza dell’oggetto non come singola cosa, ma come idea platonica, ossia come forma permanente di tutte le cose della stessa specie; l’autocoscienza di chi non conosce come individuo, ma come puro soggetto della conoscenza, privo di volontà. Abbiamo visto che la condizione perché queste due componenti si presentino sempre unite è che venga messa da parte quella modalità della conoscenza che si basa sul principio di ragione, la quale è viceversa la sola che si ponga al servizio della volontà come della scienza.
- Ogni volere scaturisce dal bisogno, dunque dalla mancanza, dunque dalla sofferenza.
- L’appagamento mette fine ad essi; tuttavia, per un desiderio che viene soddisfatto, almeno dieci non lo sono; inoltre il desiderio dura a lungo e le richieste tendono all’infinito, mentre la soddisfazione è di breve durata e concessa con avarizia.
- Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato lascia subito il posto a un desiderio nuovo; il primo è un errore che è stato riconosciuto, il secondo un errore che ci è ancora sconosciuto.
- Una soddisfazione duratura e immodificabile non ce la può dare il conseguimento dell’oggetto del volere, qualsiasi esso sia: esso somiglia piuttosto sempre e solo all’elemosina che prolunga un po’ la penosa vita.
- Quindi, sino a che la nostra coscienza è saturata dalla nostra volontà, sino a che siamo consegnati all’impulse dei desideri, che è perennemente accompagnato da speranza e da timore, sino a che siamo soggetti del volere, non ci è concessa alcuna felicità durature né alcuna quiete.
- Quando però un’occasione esteriore o una disposizione interiore ci sottraggono improvvisamente all’infinita corrente del volere, quando la conoscenza ci strappa alla schiavitù della volontà, e la nostra attenzione non si rivolge più ai motivi del volere, ma concepisce le cose come libere dalla loro relazione con la volontà, vale a dire che le considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente oggettivo, dandosi completamente ad esse in quanto pure rappresentazioni, non in quanto motivi, allora ci si presenta tutto d’un tratto spontaneamente quella quiete che sulla prima via, quella del volere, avevamo cercato continuamente e che ci era sempre sfuggita via, e ci sentiamo davvero bene.
- È la condizione priva di dolore che Epicuro ha lodato come il bene supremo e come la condizione degli dèi.
- Ma questa è appunto la condizione sopra descritta come indispensabile per la conoscenza dell’idea come pura contemplazione, assorbimento nell’intuizione, perdersi nell’oggetto, oblio di ogni individualità, soppressione della modalità di conoscenza conforme al principio di ragione e che afferra soltanto le relazioni; una condizione nella quale a un tempo e indissolubilmente la singola cosa intuita si eleva all’idea della sua specie e l’individuo conoscente a puro soggetto del conoscere libero dalla volontà, in modo che l’una e l’altro, in quanto tali, non si trovano più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. Allora non si fa differenza se il sole lo si vede tramontare da un carcere o da un palazzo. Una disposizione interiore, una prevalenza del conoscere sul volere possono produrre questa condizione in qualsiasi circostanza.
- Questa liberazione della conoscenza aiuta a uscire dal Tutto in modo così completo e radicale come fanno il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono scomparse; non siamo più nemmeno individuo – l’individuo è dimenticato – ma solo puro soggetto della conoscenza; esistiamo solo come l’unico occhio del mondo, quell’occhio che guarda da tutti gli esseri conoscenti, ma che solo nell’uomo riesce a liberarsi completamente dall’asservimento alla volontà: ogni differenza individuale scompare, a tal punto che è del tutto indifferente se l’occhio che osserva sia quello di un re o di un mendicante, poiché al di là di quei confini non portiamo con noi né infelicità né pena.
- Ma l’incantesimo si spezza facilmente.
- Quella beatitudine dell’intuizione libera dalla volontà è infine anche ciò che diffonde sul passato lontano un incantesimo così meraviglioso e che, per una sorta di autosuggestione, ce lo presenta in una luce che lo rende più bello.
- L’intuizione oggettiva agisce nel ricordo allo stesso modo in cui agirebbe nel presente, se fossimo capaci di abbandonarci ad essa liberandoci dalla volontà. Da ciò deriva che, soprattutto quando un’urgenza ci preoccupa più del consueto, il ricordo improvviso di scene passate e lontane ci scorre davanti agli occhi come una sorta di paradiso perduto. La fantasia ci restituisce solo l’aspetto oggettivo, e noi ci immaginiamo che esso allora ci stesse di fronte con la stessa purezza, senza relazioni con la volontà, come ce lo raffiguriamo adesso nella fantasia; invece la relazione degli oggetti con il nostro volere ci tormentava allora come ci tormenta adesso. Possiamo, per mezzo tanto degli oggetti presenti quanto di quelli lontani, sottrarci a tutte le sofferenze, purché ci eleviamo alla loro considerazione puramente oggettiva, riuscendo in tal modo a produrre l’illusione che a essere presenti siano solo quegli oggetti e non noi stessi: allora, sbarazzatici del nostro maledetto io, diventeremo, in quanto puri soggetti del conoscere, una cosa sola con quegli oggetti, sì che, in quell’istante, la nostra pena, così estranea a loro, diventerà estranea a noi stessi. Il mondo come rappresentazione allora è il solo che resta, e il mondo come volontà è scomparso.
- A quanto detto vanno aggiunte ancora alcune considerazioni. La luce è la più gradevole delle cose, tanto che è diventata il simbolo di tutto ciò che è buono e salutare. In tutte le religioni essa indica la salvezza eterna, mentre la tenebra allude alla dannazione. L’assenza di luce ci rende tristi, il suo ritorno ci rallegra: i colori suscitano immediatamente un vivo senso di diletto.
- Ciò dipende dal fatto che la luce è il correlato e la condizione della più perfetta modalità della conoscenza intuitiva, la sola che non ha nulla a che fare con la volontà. La vista, infatti, contrariamente a ciò che accade con le affezioni degli altri sensi, non è affatto capace di produrre, in sé, immediatamente e il forza della propria azione sensibile, la piacevolezza e la spiacevolezza della sensazione, ossia non ha alcun legame immediato con la volontà; un legame di questo genere lo può avere invece solo l’intuizione che si produce nell’intelletto, che consiste nella relazione dell’oggetto con la volontà.
- La gioia che produce la luce è dunque in effetti solo la gioia che deriva dalla possibilità oggettiva della più pura e perfetta modalità della conoscenza intuitiva e, come tale, va ricavata dal fatto che il puro conoscere, liberato e sganciato da ogni forma del volere, procura gioia nel grado più alto e giuoca già di per sé un ruolo rilevante nel godimento estetico.
§ 39 Il sentimento del sublime
Fino a quando il venirci incontro della natura, il significato e la chiarezza delle sue forme, dalle quali le idee che in esse sono individualizzate ci parlano con chiarezza, è ciò che, dalla conoscenza delle semplici relazioni asservite alla volontà, ci trasporta nella contemplazione estetica e, proprio così facendo, ci eleva a soggetti del conoscere liberi dalla volontà; fino a quel momento è solo il bello che agisce su di noi e a emozionarci è il sentimento del bello.
- Se ora, però, quegli stessi oggetti le cui forme espressive ci invitano alla pura contemplazione ci stappano con violenza dalla volontà e dalle sue relazioni e ci consegnano unicamente alla conoscenza, alla pacata contemplazione, come puri soggetti del conoscere, afferrandone solo l’idea estranea a ogni relazione, e sentendoci di conseguenza, prorio per ciò, condotti al di sopra di noi stessi, della nostra persona, del nostro volere e di ogni volere, allora si presenta il sentimento del sublime.
- Ciò che distingue il sentimento del sublime da quello del bello è che nel bello il puro conoscere ha preso il sopravvento senza lotta, mentre la bellezza dell’oggetto, ossia la sua caratteristica di agevolare la conoscenza della sua idea, ha allontanato senza contrasto, e quindi senza che lo si potesse avvertire, anche la volontà e la conoscenza delle relazioni ad essa asservite dalla coscienza e, in questo modo, l’ha lasciata come puro soggetto del conoscere, così che della volontà non rimane nemmeno il ricordo.
- Nel sublime, invece, quello stato del puro conoscere viene conseguito anzitutto solo attraverso un distacco cosciente e violento da quelle relazioni del medesimo oggetto con la volontà che sono conosciute come sfavorevoli, attraverso un libero, cosciente elevarsi al di sopra della volontà e della conoscenza che ad essa si riferisce.
- Questa elevazione non solo deve essere conseguita in modo consapevole, ma deve anche essere mantenuta nella consapevolezza, ed è perciò accompagnata da un continuo ricordo della volontà; non però dal ricordo di un volere particolare, individuale, come il timore o il desiderio, bensì dal volere umano in quanto tale, così come è espresso in generale nella sua oggettità, nel corpo umano.
- Posto che un singolo atto reale della volontà metta piede nella coscienza in forza di un effettivo tormento personale e di un pericolo proveniente dall’oggetto, ecco che la volontà individuale, effettivamente scossa, prende subito il sopravvento, la quiete della contemplazione diventa impossibile, l’impressione del sublime va perduta e fa posto all’angoscia, nella quale lo sforzo compiuto dall’individuo per salvarsi trasferisce tutti gli altri pensieri.
- Quando ci perdiamo nella considerazione dell’infinita grandezza del mondo nello spazio e nel tempo, riflettendo sui secoli trascorsi e su quelli che devono venire; o anche, quando il cielo notturno ci mette veramente dinnanzi agli occhi innumerevoli mondi, e la nostra coscienza è penetrata dall’immensità dell’universo; ci sentiamo ridotti a nulla; in quanto individui, corpi animati, fuggevoli manifestazioni fenomeniche della volontà, ci sentiamo svanire nel nulla, come una goccia che svanisce nell’oceano.
- Ma allo stesso tempo, contro questo spettro della nostra nullità, contro questa impossibilità menzognera, si leva la coscienza immediata del fatto che tutti quei mondi esistono solo nella nostra rappresentazione, solo come modificazioni dell’eterno soggetto del puro conoscere, che è ciò che sentiamo di essere non appena dimentichiamo l’individualità, e che è il sostegno necessario e la condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La grandezza del mondo, che prima ci turbava, riposa ora dentro di noi: la nostra dipendenza da essa è soppressa dalla sua dipendenza da noi.
- Tutto questo, però, non giunge subito alla riflessione, ma si mostra solo come una vaga coscienza di essere, almeno in un certo senso (un senso che solo la filosofia riesce a chiarire), una cosa sola con il mondo, e perciò di non essere schiacciati, bensì sollevati dalla sua immensità. Essa è elevazione al di sopra del proprio essere individuale, sentimento del sublime.
§ 40 Il seducente
L’opposto del sublime è il seducente: con questa parola indico ciò che eccita la volontà con la promessa di esaudirla, di appagarla immediatamente.
- Il seducente distoglie lo spettatore dalla pura contemplazione che è richiesta per ogni concezione del bello, in quanto ne eccita necessariamente la volontà per mezzo di oggetti che la allettano immediatamente, così che l’osservatore non rimane più puro soggetto del conoscere, ma diventa invece il soggetto, bisognoso e dipendente, del volere.
§ 41 L’idea e l’oggetto correlato
Finora abbiamo esaminato il concetto del bello solo dal punto di vista soggettivo. Quando chiamiamo bella una cosa, stiamo dicendo che essa è oggetto della nostra considerazione estetica, il che implica in sé due cose: da una parte che la vista di essa ci rende obiettivi, ossia che quando la consideriamo in quel modo siamo consapevoli di noi stessi non più come individui ma come puro soggetto del conoscere privo di volontà; e dall’altra che noi nell’oggetto non conosciamo la singola cosa ma un’idea, il che può accadere solo sino a quando la nostra considerazione dell’oggetto non dipende dal principio di ragione, sino a quando, invece di inseguire il suo rapporto (il che è sempre collegato al rapporto con la nostra volontà) con qualcosa che stia al di fuori di esso, si acquieta nell’oggetto stesso. Infatti, l’idea e il puro soggetto del conoscere si presentano sempre insieme alla conoscenza come correlati necessari, alla comparsa dei quali anche tutte le differenze temporali scompaiono immediatamente, dato che l’uno e l’altro sono completamente estranei a tutte le figure del principio di ragione e si trovano perciò al di fuori delle relazioni poste da esso, paragonabili all’arcobaleno e al sole, i quali non hanno alcuna parte nel moto e nella successione continui delle gocce cadenti.
- Ora, dato che da una parte ogni cosa data può essere considerata in modo puramente oggettivo e al di fuori di tutte le relazioni; e dato che, dall’altra, in ogni cosa, qualsiasi sia il grado della sua oggettità, si manifesta la volontà, sì che ogni cosa è perciò espressione di un’idea; ne segue anche che ogni cosa è bella.
- Che anche la cosa più insignificante ammetta una considerazione puramente oggettiva e non volontaristica, e possa perciò apparire bella, lo provano da questo punto di vista le nature morte dei fiamminghi.
- E se una cosa la riteniamo più bella di un’altra è perché facilita una conoscenza puramente oggettiva, le va incontro, addirittura sembra quasi costringerla a presentarsi: in questo caso noi diciamo che è molto bella.
- Ogni cosa ha una sua bellezza peculiare; non solo ogni essere organico che si presenta nell’unità di un individuo, ma anche ogni essere inorganico, privo di forma, e persino ogni manufatto. Poiché tutte quante queste cose manifestano le idee per mezzo delle quali la volontà si oggettiva nei gradi più bassi, esse costituiscono quasi le note basse più profonde, più sorde della natura.
- Nel linguaggio degli Scolastici questo si può esprimere molto agevolmente in due parole, dicendo che nel manufatto si esprime l’idea della sua forma substantialis, non quella della sua forma accidentalis, la quale ultima non mette capo ad alcuna idea, ma solo a un concetto umano, dal quale essa è derivata. Si capisce che qui, con il termine manufatto, non si vuole indicare un’opera appartenente all’arte figurativa.
§ 42 La conoscenza del bello
La conoscenza del bello presuppone sempre la presenza di un soggetto puro del conoscere e di un’idea come oggetto della conoscenza che siano contemporanei e inseparabili. Tuttavia, però, la fonte del godimento estetico risiederà, nondimeno, ora più nella percezione dell’idea conosciuta, ora più nella beatitudine e nella serenità spirituale del puro conoscere che si è reso libero da ogni volere e, perciò, da ogni individualità e dalle pene che essa produce; e, in effetti, questa prevalenza dell’uno e dell’altro aspetto del piacere estetico dipenderà dal grado più o meno elevato di oggettità della volontà contenuto nell’idea che viene colta intuitivamente. Così, nella considerazione estetica della bellezza naturale, nel dominio dell’inorganico e in quello vegetale (nella realtà o con la mediazione dell’arte) e nell’opera della bella architettura, sarà prevalente il godimento del puro conoscere privo di volontà, poiché le idee che qui vengono concepite sono solo i gradi inferiori dell’oggettività della volontà, ragion per cui non sono fenomeni particolarmente significativi e dotati di un contenuto molto ricco.
Invece, quando a essere oggetto della considerazione o della rappresentazione estetica sono animali e uomini, il godimento consisterà maggiormente nella comprensione oggettiva di quelle idee che sono la più chiara manifestazione della volontà, poiché esse ci presentano la più grande varietà di figure, la ricchezza e il significato più profondo dei fenomeni, e ci rivelano nel modo più perfetto l’essenza della volontà, nella sua violenza, nella sua mostruosità, nel suo appagamento, o nel suo andare in pezzi (come accade nella rappresentazione tragica), e infine persino nel suo rovesciamento o auto-toglimento, che è soprattutto il tema della pittura cristiana; come, in genere, la pittura storica e il dramma hanno per oggetto l’dea della volontà che è illuminata da una piena conoscenza.
§ 53 La condotta dell’uomo
D’ora in avanti prenderemo in considerazione la condotta dell’uomo; ed è questa la parte del mondo che tutti possono riconoscere come la più importante, non solo in forza di un giudizio soggettivo, ma anche di un giudizio oggettivo.
- In generale, non parleremo di dovere, perché in questo modo si parla ai bambini… Ed è davvero una contraddizione evidente dire che la volontà è libera e tuttavia prescriverle delle leggi secondo le quali esse deve volere…
- Secondo il nostro punto di vista, invece, la volontà non solo è libera, ma addirittura onnipotente: essa non realizza solo le proprie azioni, ma anche il proprio mondo; e come essa è, così manifesta le proprie azioni, così manifesta il proprio mondo; le une e l’altro sono la coscienza che essa ha di sé, nient’altro; essa si auto-determina, e determina con ciò anche loro: al di fuori della volontà, infatti, non c’è nulla ed essi sono ciò che essa è; solo così essa risulta davvero autonoma; secondo qualsiasi altra concezione, invece, sarebbe eteronoma.
- Il nostro sforzo filosofico può giungere soltanto a interpretare e a spiegare nella sua essenza più profonda e nel suo contenuto l’agire degli uomini e le massime così diverse, o addirittura contraddittorie, delle quali esse è l’espressione vivente, in connessione con le considerazioni svolte sin qui e proprio allo stesso modo in cui abbiamo cercato di interpretare i rimanenti fenomeni del mondo, portando la loro essenza più profonda alla chiarezza della conoscenza astratta.
- Siamo del parere che sia enormemente lontano da una conoscenza filosofica del mondo chiunque ritenga di poter in qualche modo coglierne l’essenza storicamente, sia pure mascherandola nel modo più sottile; ma questo è il caso che si verifica non appena nella sua visione dell’essenza in sé del mondo si trova un divenire, o un essere divenuto, o uno stare per divenire; non appena un prima o un poi abbiano il benché minimo significato e quindi, palesemente oppure velatamente, si cerchi e si trovi un inizio e una fine del mondo, unitamente a una via intermedia tra l’uno e l’altra, sulla quale l’individuo che fa filosofia cercherà sicuramente il proprio posto.
- L’autentica considerazione filosofica del mondo, quella cioè che ci insegna a conoscere l’essenza profonda e ci conduce così al di là del fenomeno, è quella che non chiede da dove e verso dove e perché, bensì sempre e innanzi tutto il che del mondo: essa considera le cose non già secondo una qualsivoglia relazione, non in quanto esse divengono e passano, in breve, non secondo una delle quattro forme del principio di ragione, ma viceversa ha per oggetto proprio ciò che di esse rimane dopo che abbiamo loro sottratto tutto ciò che è sottoposto a quel principio, ciò che si manifesta in tutte le relazioni senza essere soggetto a nessuna di esse, l’essenza del mondo sempre identica a se stessa.
- Da una conoscenza di questo genere si originano sia l’arte che la filosofia, e anzi quella disposizione d’animo che sola può condurre alla vera santità e alla liberazione dal mondo.
§ 54 Dove siamo arrivati?
Finora abbiamo riconosciuto in modo chiaro e certo che, nel mondo come rappresentazione, alla volontà si è aperto il proprio specchio, nel quale essa conosce se stessa secondo gradi crescenti di chiarezza e completezza, il più elevato dei quali è l’uomo, la cui essenza, tuttavia, si esprime in modo completo soltanto nella serie ordinata delle sue azioni, la connessione consapevole delle quali è resa possibile dalla ragione, che gli consente permanentemente di abbracciare in astratto l’intero con un solo sguardo.
- La volontà, considerata puramente in se stessa, è incosciente, è un impulso cieco, inarrestabile, che noi vediamo comparire già nella natura inorganica e vegetale e nelle sue leggi, come anche nella parte vegetativa della nostra vita.
- Ma è per mezzo del mondo come rappresentazione, che si è fatto avanti e si è sviluppato al suo servizio, che essa ottiene la conoscenza del proprio volere e di che cosa sia ciò che essa vuole: ciò che essa vuole, infatti, altro non è che questo mondo, la vita proprio così come si presenta.
- Per questa ragione abbiamo detto che il mondo fenomenico è il suo specchio, la sua oggettità; e ciò che la volontà vuole sempre è la vita, proprio perché la vita altro non è che la raffigurazione della volontà per la rappresentazione; così è indifferente ed è un semplice pleonasmo se, invece di dire semplicemente «volontà», diciamo «volontà di vivere».
- Dato che la volontà è la cosa in sé, il contenuto interiore, l’essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno, è solo lo specchio della volontà, quest’ultimo – il mondo fenomenico – si accompagna inseparabilmente alla volontà come al corpo la sua ombra: quando è presente la volontà, sono presenti anche la vita e il mondo.
- Alla volontà di vivere la vita è dunque assicurata, e fino a quando noi siamo riempiti dalla volontà di vivere non dobbiamo essere in ansia per la nostra esistenza, nemmeno quando siamo in vista della morte.
- È vero che vediamo l’individuo nascere e morire; ma l’individuo è solo fenomeno, esiste solo per la conoscenza prigioniera del principio di ragione, del principium individuationis: per questo egli riceve naturalmente la propria vita come un dono, esce dal nulla, soffre poi a causa della morte per la perdita di quel dono e ritorna nel nulla.
- Noi però vogliamo osservare la vita filosoficamente, ossia secondo le sue idee, e in questo modo scopriremo che né la volontà, la cosa in sé che è sottesa a tutti i fenomeni, né il soggetto del conoscere, che di tutti i fenomeni è lo spettatore, sono in alcun modo toccati dalla morte.
- Nascita e morte appartengono infatti al fenomeno della volontà, e dunque alla vita, ed è quest’ultima che si presenta essenzialmente sotto forma di individui che nascono e muoiono, e che sono fuggevoli fenomeni che si presentano nella forma del tempo, di ciò che, in sé, non conosce alcun tempo, e che tuttavia, per oggettivare la propria autentica essenza, deve oggettivarsi proprio in questo modo.
- Nascita e morte appartengono in egual modo alla vita e stanno in equilibrio come condizioni reciproche l’una dell’altra, o, se si preferisce l’espressione, come poli del fenomeno vitale.
- I greci e i Romani cercavano di distrarre l’attenzione dalla morte ponendo energicamente l’accento sulla vita immortale della natura e, così facendo, di indicare, sia pure senza averne una coscienza astratta, che l’intera natura è il fenomeno e anche la realizzazione della volontà.
- La forma di questo fenomeno è costituita da tempo, spazio e causalità, per mezzo dei quali si realizza l’individuazione, e ciò fa sì che l’individuo debba nascere e morire; questo, però, non riguarda la volontà di vivere, della cui manifestazione l’individuo è solo una sorta di singolo esempio, un saggio, più di quanto la natura, nel suo insieme, possa soffrire a causa della morte di un singolo individuo. Poiché non è del singolo individuo, ma solo dell’intera specie, che la natura si preoccupa, e per la sua conservazione si impegna con la massime serietà, prendendosene cura con tutte le sue forze, attraverso un enorme numero di principî generativi e della grande forza dell’istinto della riproduzione.
- L’individuo, al contrario, per la natura non ha alcun valore, né lo può avere, dato che il suo regno è costituito da un tempo infinito, da uno spazio infinito e, in essi, da un numero infinito di individui possibili; essa, perciò, è pronta in ogni momento a lasciar cadere l’individuo, il quale, in conseguenza di ciò, non solo è esposto in mille modi, per i casi più insignificanti, al rischio della distruzione, ma a essa è già destinato e originariamente condotto dalla natura stessa, a partire dall’istante in cui egli abbia contribuito alla conservazione della specie. Con questo la natura stessa esprime in modo del tutto spontaneo la grande verità secondo la quale solo le idee e non gli individui hanno un’autentica realtà, ossia costituiscono la perfetta oggettità della natura.
- Ora, dato che l’uomo è la natura stessa, e lo è, in verità, al più alto grado della sua auto-coscienza, e dato che la natura, dal canto suo, altro non è che volontà di vivere oggettivata, l’uomo che abbia afferrato questo punto di vista e si mantenga fedele a esso può veramente e con ragione trovare conforto dalla propria morte e da quella dei propri amici grazie alla considerazione della vita immortale di quella natura che egli stesso è.
- Che la generazione e la morte vadano considerate come qualcosa che appartiene alla vita e come qualcosa di essenziale a questo fenomeno della volontà lo si vede anche dal fatto che l’una e l’altra ci si presentano come due espressioni elevate all’ennesima potenza di ciò in cui esiste anche tutto il resto della vita. La quale, in effetti, altro non è, in tutto e per tutto, che una continua trasformazione della materia al di sotto della stabile permanenza della forma: e proprio in questo consiste la transitorietà dell’individuo rispetto all’immortalità della specie.
- Noi dobbiamo prima di tutto comprendere con chiarezza che la forma del fenomeno della volontà, cioè la forma della vita o della realtà, è costituita propriamente solo dal presente, non dal futuro né dal passato: questi ultimi esistono solo nel concetto, esistono solo nella connessione della conoscenza, in quanto essa segue il principio di ragione. Nessun uomo è mai vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: solo il presente è la forma di ogni vita, ma esso è anche il suo possesso sicuro, quello che non le può mai essere strappato.
- Ciò che è accaduto alla nostra vita è accaduto anche alla vita di milioni di uomini del passato. Dovremmo forse pensare che il passato, per il fatto di essere stato suggellato dalla morte, ottenga una nuova esistenza? Il nostro proprio passato, anche quello più prossimo, quello di ieri, non ha maggior consistenza di quello di un sogno insignificante della fantasia, e la stessa cosa accade al passato di tutti quei milioni di uomini.
- Che cosa è stato? Che cosa è? È stato ed è la volontà, specchio della quale sono la vita e il conoscere libero dalla volontà, che in quello specchio la vede chiaramente riflessa. Chi non lo ha ancora compreso o non lo vuole comprendere deve aggiungere quest’altra domanda a quella precedente relativa al destino delle generazioni passate: perché proprio lui, lui che si interroga, è così fortunato da possedere questo presente prezioso, fuggevole, l’unico ad avere realtà, mentre tutte quelle centinaia di generazioni umane, e persino gli eroi e i sapienti dei tempi passati, si sono inabissati nella notte del passato e, con ciò, sono diventati nulla, mentre lui, con il suo insignificante io, di fatto esiste? O, per dirla più in breve, senza peraltro se ne riduca la stranezza: perché questo «ora», il suo «ora», è proprio «ora» e non fu già da molto tempo?
- Il presente è costituito solo dal punto di contatto dell’oggetto, la cui forma è il tempo, con il soggetto, che non ha come forma nessuna delle figure del principio di ragione. Ora, ogni oggetto è volontà, e il soggetto è il necessario correlato dell’oggetto; oggetti reali si danno però solo nel presente: il passato e il futuro contengono neri concetti e meri fantasmi, dal che segue che la forma essenziale del fenomeno della volontà, inseparabile da essa, è il presente.
- Solo il presente esiste sempre e perdura immutabile. Considerato empiricamente, esso è il più fuggevole di tutti; ma allo sguardo metafisico, che guarda al di là delle forme dell’intuizione empirica, si presenta come l’unico permanente, il Nunc stans degli Scolastici. La fonte e il sostegno del suo contenuto è la volontà di vivere, la cosa in sé che noi stessi siamo. Ciò che continuamente diviene e passa, in quanto o è già stato, o deve ancora sopraggiungere, appartiene al fenomeno in quanto tale in virtù delle sue forme, le quali rendono possibile il sorgere e il passare.
- Il tempo somiglia a una corrente inarrestabile, il presente a una roccia contro la quale la corrente si infrange senza tuttavia trascinarla via con sé. La volontà, come cosa in sé, non è sottoposta al principio di ragione più di quanto non lo sia il soggetto della conoscenza, il quale in fin dei conti è proprio, in un certo senso la volontà stessa o la sua manifestazione; e come alla volontà è assicurata la vita, che è il suo proprio fenomeno, allo stesso modo le è assicurato il presente, che è l’unica forma della vita reale.
- Non dobbiamo perciò indagare né sul passato che precede la vita, né sul futuro che segue la morte: piuttosto dobbiamo riconoscere il presente come l’unica forma nella quale la volontà appare; tale forma non sfuggirà mai alla volontà ma, a dire il vero, nemmeno quest’ultima sfuggirà a essa.
- All’oggettivazione della volontà è essenziale la forma del presente che, come punto privo di estensione, divide in due parti il tempo infinito e resta immutabilmente fermo, come un eterno meriggio privo del refrigerio della sera, così come, nella realtà, il sole arde ininterrottamente, anche se all’apparenza discende nel grembo della notte: un uomo che teme nella morte il proprio annientamento, perciò, non è diverso da qualcuno che pensasse che il sole la sera si possa lamentare esclamando: «Ahimè, io scendo nella notte eterna!». La terra ruota e il giorno diventa notte; l’individuo muore: ma il sole brilla nell’eterno meriggio. Alla volontà di vita la vita è assicurata: la forma della vita è un presente senza fine; non importa come gli individui, che sono fenomeni dell’idea, sorgano e trapassino nel tempo, paragonabili a sogni fuggevoli.
- I dogmi cambiano e il nostro sapere è ingannevole; ma la natura non erra: il suo cammino è sicuro ed essa non lo tiene celato. Solo l’uomo si porta in giro in concetti astratti la certezza della propria morte: essa tuttavia lo può angosciare solo in certi istanti, quando una qualche occasione consenta alla fantasia di rammentarla.
- Contro la voce possente della natura la riflessione ha ben poco potere. Anche nell’uomo, come nell’animale che non pensa, regna come stato durevole quella certezza che scaturisce dalla più profonda coscienza, che egli è la natura, è il mondo stesso; una certezza in virtù della quale il pensiero di una morte sicura e sempre imminente non inquieta visibilmente nessuno e, al contrario, ciascuno tira a campare come se dovesse vivere in eterno; il che è così vero che si può dire che nessuno abbia un’autentica e vivente convinzione della certezza della propria morte poiché, se così fosse, non ci potrebbe essere molta differenza tra il suo stato d’animo e quello di un condannato a morte; ciascuno invece riconosce in effetti quella certezza solo in astratto e sul piano teorico, ma la mette da parte come le altre verità che hanno valore teoretico ma che non sono utilizzabili nella prassi, senza farla diventare parte della propria coscienza vivente.
- Chi osservi con attenzione questa peculiarità dell’indole umana dovrà riconoscere che le comuni spiegazioni psicologiche che derivano dall’abitudine e dalla rassegnazione di fronte all’inevitabile non sono in alcun modo sufficienti, ma che presuppongono un principio più profondo, che è appunto quello che abbiamo indicato.
- Con il medesimo principio si spiega anche perché, in ogni tempo e presso tanti popoli, si trovino e godano di grande considerazione credenze che affermano una qualche forma di continuazione dell’individuo dopo la morte, anche se le prove a sostegno di esse dovettero essere sempre estremamente poco soddisfacenti e le prove al contrario, invece, solide e numerose; anzi, il contrario non ha alcun bisogno di prove, dato che un intellettuale sano lo riconoscerà come un fatto, come tale confermato dalla fiducia che la natura non inganna e non erra, ma manifesta invece apertamente, addirittura in modo ingenuo, il proprio agire e il proprio essere, e che soltanto noi stessi la oscuriamo con le nostre illusioni, per ricavarne una spiegazione che si accordi alla limitatezza del nostro sguardo.
- Tuttavia, ciò che ora abbiamo portato a chiara coscienza, ossia il fatto che, sebbene il fenomeno della volontà abbia un inizio e una fine nel tempo, la volontà stessa, come cosa in sé, non ne viene affatto colpita, e non lo è neppure il correlato dell’oggetto, il conoscere che non viene mai conosciuto, il soggetto, e che alla volontà di vivere è sempre assicurata la vita: tutto questo, dico, non va confuso con le dottrine che affermano la sopravvivenza dell’individuo.
- Poiché alla volontà, considerata come cosa in sé, come pure anche al soggetto del conoscere, all’eterno occhio del mondo, non appartengono né un permanere né un passare, dato che queste sono determinazioni che valgono soltanto nel tempo, mentre la volontà e il soggetto si trovano al di fuori del tempo.
- Perciò l’egoismo dell’individuo (di questo singolo fenomeno della volontà illuminato dal soggetto del conoscere) non potrà ricavare dalla nostra precedente concezione alcun nutrimento e alcun conforto per il proprio desiderio di affermare se stesso in un tempo infinito, come non ne potrà ricavare dalla conoscenza dopo la sua morte il resto del mondo esterno continuerà comunque a esistere nel tempo, il che altro non è che l’espressione della medesima concezione, considerata però da un punto di vista oggettivo e perciò temporale.
- Poiché è vero che ciascun individuo è transitorio solo in quanto fenomeno e che, al contrario, come cosa in sé, è senza tempo e dunque senza fine; ma è anche vero che soltanto come fenomeno esso si distingue dal resto delle cose del mondo, mentre come cosa in sé esso è la volontà che appare in tutto, e la morte rimuove l’inganno che separa la sua coscienza da quella dell’universalità delle altre cose: ecco la permanenza.
- Il suo non essere toccato dalla morte, che all’individuo spetta solo in quanto cosa in sé, coincide, per ciò che concerne il fenomeno, con la permanenza del rimanente mondo esterno. Segue da ciò anche che l’intima e appena avvertita coscienza di ciò che abbiamo appena innalzato a chiara conoscenza in effetti impedisce persino che il pensiero della morte giunga ad avvelenare la vita dell’essere razionale, stante che tale coscienza è la base di quella spinta vitale che sorregge ogni vivente e lo fa continuare a vivere senza problemi, come se non gli dovesse in alcun modo toccare la morte, almeno sino a che egli ha la vita davanti agli occhi ed è rivolto a essa; ciò non impedisce, comunque, che quando la morte si avvicina al singolo individuo, nella realtà o anche solo nella fantasia, e costui è ora costretto a guardarla in faccia, venga afferrato da una paura tremenda e cerchi in tutti i modi di sfuggirle.
- Ora, dove il sentimento ci lascia così senza difesa, può tuttavia intervenire la ragione e superare in gran parte le impressioni contrarie da esso prodotte, elevandoci a un superiore punto di vista nel quale noi, invece del singolo, abbiamo in vista il Tutto.
- Uno uomo che abbia assimilato profondamente la verità esposta sinora, ma che non sia nello stesso tempo giunto, per mezzo della propria esperienza o di una successiva comprensione, a riconoscere come essenziale a ogni vita un continuo dolore; un uomo che trovi invece soddisfazione nella vita, al quale in essa vada tutto bene, e che, con una tranquilla riflessione, desideri che il corso della sua vita abbia a durare indefinitamente così come egli lo ha condotto sino a qui o abbia a ripetersi sempre di nuovo; un uomo il cui coraggio di vivere sia così forte da accettare di buon grado e volentieri tutti i malanni e le pene cui il vivere è sottoposto pur di ottenere i piaceri; un uomo di questo genere starebbe con solide, energiche ossa sulla ben fondata, stabile terra, e non avrebbe nulla da temere: armato della conoscenza che noi gli attribuiamo, guarderebbe indifferente la morte che gli si avvicina sulle ali del tempo, considerandola come una falsa apparenza, uno spettro impotente, capace di metter paura ai deboli, ma che non ha alcun potere su colui il quale sa di essere egli stesso quella volontà, la cui oggettivazione o riproduzione è il mondo intero, su colui il quale sa che la vita gli è assicurata in eterno e che lo è anche il presente, la sola autentica forma del fenomeno della volontà, su colui il quale non può essere spaventato dall’infinità del passato o del futuro nei quali egli non esistesse, dato che egli li considera come un inganno illusorio e come il velo di Maya, su colui il quale non deve temere la morte più di quanto il sole debba temere la notte.
- Al ponto di vista indicato potrebbero infine giungere molti uomini, se la loro conoscenza andasse di pari passo con la loro volontà, vale a dire se essi, liberi da ogni illusione, fossero in grado di conseguire una limpida e chiara conoscenza di se stessi. Poiché è questo, per la conoscenza, il punto di vista dell’intera affermazione della volontà di vivere.
§ 55 Il concetto di libertà
- Che la volontà in quanto tale sia libera segue già dal fatto che essa è la cosa in sé, il contenuto di tutti i fenomeni. Sappiamo che questi ultimi, al contrario, sono totalmente sottomessi al principio di ragione nelle sue quattro forme; e, dato che sappiamo che quelli di «necessità» e di «conseguenza da una determinata ragione» sono concetti assolutamente identici e reciprocamente convertibili, tutto ciò che appartiene al fenomeno, ossia l’oggetto per il soggetto conoscente in quanto individuo, è per un verso ragione, per l’altro conseguenza e, sotto quest’ultimo aspetto, è determinato in modo del tutto necessario e non può a nessun costo a essere diverso da come è.
Necessità dei fenomeni
- L’intero contenuto della natura, l’insieme di tutti i fenomeni, è dunque assolutamente necessario, e la necessità di ciascuna parte, di ciascun fenomeno, di ogni accadimento, si lascia ogni volta provare, in quanto deve essere trovata la ragione dalla quale esso dipende come conseguenza. Ciò non ammette alcuna eccezione: consegue dalla validità illimitata del principio di ragione.
- D’altra parte, però, questo stesso mondo, in tutti i suoi fenomeni, è per noi anche oggettità della volontà la quale, dato che non è essa stessa né fenomeno né rappresentazione oppure oggetto, bensì cosa in sé, non è nemmeno sottomessa al principio di ragione, che è la forma di tutti gli oggetti, né è determinata come conseguenza di una specifica ragione, né conosce alcuna necessità; detto altrimenti, essa è libera.
La volontà è libera
- Il concetto di libertà è dunque propriamente un concetto negativo, stante che il suo contenuto è solo la negazione della necessità, ossia della relazione della conseguenza con la propria ragione, in conformità al principio di ragione.
- Ora, ci si mostra qui nel modo più chiaro il punto capace di dare soluzione a una grave contraddizione: l’unione della libertà con la necessità.
- Ciascuna cosa è, in quanto fenomeno, in quanto oggetto, assolutamente necessaria; ma la stessa cosa è in se stessa volontà, e quest’ultima è completamente libera per l’eternità. Il fenomeno, l’oggetto, è necessariamente e immutabilmente determinato in una concatenazione di ragioni e conseguenze che non può avere alcuna interruzione.
- Ma l’esistenza in generale di questo oggetto e la modalità della sua esistenza, ossia l’idea che in esso si manifesta, o, detto in altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato della volontà. In conformità alla libertà della volontà, esso potrebbe anche non esistere affatto, oppure anche essere originariamente ed essenzialmente del tutto differente; ma in questo caso anche l’intera catena, della quale esso è un anello, ma che essa stessa è un fenomeno della medesima volontà, sarebbe a sua volta del tutto diversa; una volta però che è qui e presente, esso è entrato nella serie delle ragioni e delle conseguenze, trovandosi nella quale è determinato necessariamente e non può quindi né diventare un altro, ossia modificare se stesso, e nemmeno uscire dalla serie, ossia scomparire.
Il carattere dell’uomo
- L’uomo è, come ogni altra parte della natura, oggettità della volontà: tutto quello che abbiamo detto, perciò, vale anche per lui. Come ogni cosa nella natura ha le sue forze e le sue qualità, che reagiscono in modo determinato a un’azione determinata e che costituiscono il suo carattere, cos’ anch’egli ha il suo carattere, in forza del quale i motivi suscitano con necessità le sue azioni.
- Nel modo di agire che si manifesta il suo carattere empirico, nel quale si manifesta a sua volta il suo carattere intellegibile, la volontà in sé, della quale egli è un fenomeno determinato.
- Ma l’uomo è il fenomeno più perfetto della volontà e, per sussistere, deve essere illuminato da un grado di conoscenza così elevato che in essa sia diventata possibile una ripetizione del tutto adeguata dell’essenza del mondo, sotto la forma della rappresentazione, la quale è la comprensione delle idee, il puro specchio del mondo.
- Nell’uomo, perciò, la volontà può giungere alla piena auto-coscienza, alla chiara ed esauriente conoscenza della propria essenza, come essa si rispecchia nel mondo intero. Dalla presenza effettiva di questo grado di conoscenza proviene l’arte.
La persona non è libera
- Dobbiamo prima di tutto evitare l’errore consistente nel credere che l’agire di un singolo uomo determinato non sia sottoposto ad alcuna necessità, ossia che la forza del motivo sia meno sicura della forza della causa, o di quella della conseguenza dedotta dalle premesse.
- La libertà della volontà come cosa in sé non si trasmette in alcun modo immediatamente al proprio fenomeno, nemmeno dove essa raggiunge il più alto livello di visibilità, e dunque non può essere trasmessa nemmeno all’animale ragionevole che abbia un carattere individuale, cioè alla persona.
- Quest’ultima non è mai libera, sebbene sia il fenomeno di una volontà libera: proprio perché essa è già un fenomeno determinato di quella volontà libera e, quando entra nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di ragione, trasforma in effetti l’unità di quella volontà in una molteplicità di azioni, la quale tuttavia, a motivo dell’unità atemporale di quella volontà in sé, si presenta con la regolarità di una forza naturale. Dato però che a rendersi visibile nella persona e nella sua condotta è quella volontà libera, la quale sta a essa come il concetto sta alla definizione, così ogni singola azione va attribuita alla volontà libera e si annuncia immediatamente come tale alla coscienza.
- Perciò ciascuno può essere ritenuto a priori (il che qui significa secondo il suo sentimento originario) libero anche in ciascuna delle sue azioni nel senso che, in ogni caso determinato, può compiere un’azione qualsiasi, e solo a posteriori, in forza dell’esperienza e della meditazione sull’esperienza, riconosce che la sua condotta è prodotta del tutto necessariamente dall’incontro del carattere con i motivi.
Il carattere intellegibile
- Il carattere intellegibile di un uomo deve essere considerato come un atto di volontà atemporale, e perciò indivisibile e invariabile, e che il suo fenomeno, sviluppato e disteso nel tempo e nello spazio e in tutte le forme del principio di ragione, costituisce il carattere empirico, come esso si presenta secondo l’esperienza dell’intera condotta e nell’intero corso della vita.
- L’illusione di una libertà empirica della volontà (laddove la libertà trascendentale è la sola che le può essere attribuita), cioè di una libertà dei suoi singoli atti, deriva da una posizione isolata e subordinata dell’intelletto di fronte alla volontà. L’intelletto, infatti, viene a conoscenza delle decisioni della volontà solo a posteriori ed empiricamente. Quindi non ha, quando si trova davanti a una scelta, alcun elemento che gli consenta di sapere come la volontà deciderà. Infatti, il carattere intellegibile – in forza del quale, a partire da motivi dati, solo una decisione è possibile, decisione che, di conseguenza, è necessaria – non cade sotto la conoscenza dell’intelletto; è solo il carattere empirico, invece, che gli diviene noto gradualmente per mezzo della successione dei suoi singoli atti. Per questo alla coscienza conoscente (l’intelletto) sembra che, al presentarsi di un caso qualsiasi, alla volontà siano possibili simultaneamente due decisioni contrapposte. Ma sarebbe come se, davanti a un palo posto verticalmente e che oscilli spostandosi dalla sua posizione di equilibrio, si dicesse che esso può cadere verso il lato destro oppure verso quello sinistro, dove il «può» ha un significato solo soggettivo e in effetti significa «stando agli elementi che ci sono noti»: poiché, sul piano oggettivo, la direzione della caduta è già necessariamente determinata non appena abbia inizio l’oscillazione. Così, di conseguenza, anche la decisione della propria volontà è indeterminata, e perciò solo relativa e soggettiva, soltanto dal punto di vista dello spettatore, solo per il suo intelletto, vale a dire solo per il soggetto del conoscere; in se stessa e oggettivamente, invece, la decisione è già determinata e necessaria. Questa determinazione, però, giunge alla coscienza solo attraverso la decisione che ne segue.
- L’affermazione di una libertà empirica della volontà è legata in modo stretto alla concezione che pone l’essenza dell’uomo in un’anima la quale sarebbe, originariamente, un essere che conosce, anzi, propriamente, un astratto che pensa e solo in seguito un essere che vuole; con il che si attribuisce alla volontà una natura secondaria, mentre, al contrario, nella verità è la coscienza a essere secondaria.
- La volontà è stata considerata addirittura come un atto del pensiero e identificata con il giudizio, il modo particolare da Cartesio e Spinoza. Dunque ciascun uomo sarebbe diventato ciò che è solo in forza della propria conoscenza: verrebbe al mondo come uno zero morale, nel mondo conoscerebbe le cose, e si deciderebbe poi a essere questo o quello, ad agire in questo o quel modo, e potrebbe anche, in seguito a una nuova conoscenza, decidersi per un nuovo tipo di condotta, ossia diventare un altro. Inoltre e perciò egli dovrebbe riconoscere una cosa per buona, e in conseguenza di ciò volerla, invece di volerla prima e, in conseguenza di ciò, chiamarla buona.
- Secondo la mia convinzione fondamentale, tutto questo è un rovesciamento della vera relazione tra conoscenza e volontà. La volontà è prima e originaria; la conoscenza sopraggiunge solo in un secondo tempo e appartiene al fenomeno della volontà, come uno strumento di quest’ultima.
- Ogni uomo è quindi ciò che è in forza della propria volontà, e il suo carattere è originario, dato che la volontà è la base del suo essere. Per mezzo della conoscenza che sopraggiunge egli apprende, lungo il percorse dell’esperienza, che cosa egli sia, ossia impara a conoscere il proprio carattere.
- Egli perciò conosce se stesso in conseguenza e in conformità alla qualità del proprio volere; invece di volere in conseguenza e in conformità alla nature del suo conoscere, come si è ritenuto in passato.
- Secondo questo vecchio punto di vista egli dovrebbe soltanto riflettere su come preferirebbe essere, e così sarebbe: questa sarebbe la libertà del suo volere. La quale dunque consisterebbe propriamente nel ritenere che l’uomo sia opera di se stesso alla luce della conoscenza.
- Io, al contrario, dico: l’uomo è opera di se stesso prima di ogni conoscenza e quest’ultima sopraggiunge solo per illuminarlo. Ne segue che l’uomo non può decidere di essere fatto in un modo piuttosto che in un altro, e nemmeno può diventare un altro; invece egli è, una volta per tutte, e successivamente conosce che cosa egli sia.
- Dato che i motivi che determinano la manifestazione fenomenica del carattere, ossia la condotta, agiscono su di esso attraverso la mediazione della conoscenza; e dato che però la conoscenza è mutevole, oscilla spesso tra errore e verità, anche se, di regola, nel corso della vita diventa sempre più corretta, naturalmente in gradi molto differenti; di conseguenza il modo di agire di un uomo può modificarsi sensibilmente senza che da ciò si possa legittimamente inferire una modifica del suo carattere.
- Ciò che l’uomo vuole realmente e soprattutto, l’aspirazione della sua essenza più profonda e la meta cui egli vuol giungere seguendola, questo noi non lo possiamo in alcun modo modificare per mezzo di una forza esterna che agisca su di esso o per mezzo di un insegnamento: altrimenti lo potremmo ricreare.
- Dall’esterno si può agire sulla volontà solo per mezzo dei motivi. Questi ultimi, tuttavia, non possono modificare la volontà stessa, poiché hanno potere su di essa soltanto a condizione che la volontà sia proprio tale e quale a ciò che essa è. Tutto ciò che è in loro potere e di modificare la direzione del suo tendere, ossia far sì che essa cerchi per un’altra via ciò che ha invariabilmente cercato prima.
- Per l’azione efficace dei motivi non si richiede solo che essi siano presenti, ma anche che siano conosciuti. Affinché, per esempio, si manifesti la relazione reciproca che sussiste, in un determinato uomo, tra egoismo e compassione, non è sufficiente che costui possieda delle ricchezze e veda la miseria altrui; egli deve invece anche sapere che cosa si può fare con la ricchezza, tanto per se stesso quanto per gli altri; ed egli non si deve solo figurare le sofferenze altrui, ma deve anche sapere che cosa sia la sofferenza, anche che cosa sia il piacere. Forse egli alla prima occasione non lo saprebbe così bene come alla seconda; e se egli ora, nella medesima occasione, agisce in modo differente, ciò dipende solo dal fatto che, in effetti, le circostanze sono differenti, soprattutto per la parte che dipende dalla sua stessa conoscenza, anche se esse sembrano essere le stesse.
- Come la mancata conoscenza di circostanze realmente esistenti toglie a esse la capacità di agire, così, al contrario, circostanze del tutto immaginarie possono agire come se fossero reali, non solo con un inganno isolato, ma anche nel loro insieme e in modo durevole.
- In ragione di questo grande influsso della conoscenza sulla condotta, anche se la volontà rimane immutata, accade che il carattere si sviluppi solo gradualmente e che solo gradualmente si manifestino i suoi diversi tratti. Per questo esso, in ciascuna età della vita, si mostra differente; ed è ancora per questo che tutti noi siamo originariamente innocenti, il che significa solamente che né noi stessi né gli altri conoscono la malvagità della propria autentica natura: solo in presenza dei motivi essa si manifesta, ed è solo col tempo che i motivi entrano nella conoscenza. Alla fine impariamo e riconosciamo di essere del tutto diversi da quelli che a priori ritenevamo di essere e allora spesso facciamo paura a noi stessi.
Il pentimento
- Il pentimento non sorge mai da un mutamento (peraltro impossibile) della volontà, ma da un mutamento della conoscenza. Quello che c’è di essenziale e che appartiene propriamente a ciò che ho voluto una volta, lo debbo volere ancora, poiché sono io stesso questa volontà che si trova al di fuori del tempo e del mutamento. Io perciò non posso mai pentirmi di ciò che ho voluto, ma posso ben pentirmi di ciò che ho fatto; perché, guidato da falsi concetti, posso aver fatto cose non conformi a ciò che la mia volontà vuole. Sopraggiunge una nuova comprensione, determinata da una conoscenza più corretta, ed ecco il pentimento.
La facoltà di scelta
- L’influsso che la conoscenza, come tramite dei motivi, esercita non soltanto sulla volontà in sé, quanto piuttosto nel suo manifestarsi nelle azioni, costituisce anche il fondamento della differenza principale che sussiste tra l’agire degli uomini e quello degli animali, in quanto i modi in cui essi conoscono sono diversi per gli uni e per gli altri.
- L’animale ha solo rappresentazioni intuitive, mentre l’uomo, grazie alla ragione, ha anche rappresentazioni astratte. Ora, sebbene l’animale e l’uomo vengano determinati in modo ugualmente necessario dai motivi, l’uomo possiede ciononostante una piena facoltà di scelta che all’animale manca e che spesso è stata anche scambiata per una libertà della volontà nelle singole azioni, mentre non è altro che la possibilità di un conflitto combattuto strenuamente fra una molteplicità di motivi, dei quali quello più forte alla fine determina la volontà in modo necessario.
- Per questo i motivi devono aver ricevuto la forma di pensieri astratti, poiché solo per mezzo di questi ultimi è possibile una vera e propria deliberazione, ossia la ponderata valutazione delle contrapposte ragioni dell’agire.
- Nell’animale la scelta può aver luogo soltanto fra motivi intuitivamente presenti, per cui essa è limitata alla sfera ristretta di ciò che lo colpisce intuitivamente nel presente. Perciò la necessità di una determinazione della volontà da parte dei motivi, necessità che è uguale a quella con cui la causa determina l’effetto, può venire mostrata solo negli animali in modo intuitivo e immediato, poiché qui anche lo spettatore ha davanti agli occhi con la stessa immediatezza tanto i motivi quanto il loro effetto; nell’uomo invece i motivi sono quasi sempre rappresentazioni astratte, delle quali lo spettatore non diventa partecipe, e persino a chi si rivolge la necessità delle sue azioni viene nascosta dalla conflittualità tra i motivi.
- La dipendenza della capacità di deliberazione umana dalla facoltà di pensare in astratto, e quindi anche di giudicare e di ragionare definitivamente, sembra essere quella stessa che ha indotto tanto Cartesio quanto Spinoza a identificare le decisioni della volontà con la facoltà di affermare e di negare (capacità di giudizio): Cartesio ne ha ricavato la convinzione che la volontà, che per lui è libera di scegliere tra opzioni indifferenti, sia anche la responsabile di ogni errore teoretico; Spinoza, al contrario, quella che la volontà è necessariamente determinata dai motivi, come il giudizio è determinato dalle ragioni; il che ha senza dubbio una sua correttezza, ma si presenta tuttavia come una conclusione vera tratta da premesse false.
- Le diversità del modo in cui l’animale e l’uomo vengono mossi dai motivi estende moltissimo il suo influsso sull’essere dell’uno e dell’altro e costituisce la ragione fondamentale della radicale ed evidente distinzione della loro esistenza.
- Mentre infatti l’animale viene sempre motivato solo da una rappresentazione intuitiva, l’uomo si sforza di escludere del tutto questo tipo di motivazione e di lasciarsi influenzare soltanto dalle rappresentazioni astratte, con il che utilizza il privilegio della propria ragione traendone il maggior vantaggio possibile e, rendendosi indipendente dal presente non sceglie e non fugge né l’effimero piacere né l’effimero dolore, ma riflette sulle conseguenze dell’uno e dell’altro.
- Così, nell’agire e nel soffrire, notevoli differenze provengono dalla diversità tra la modalità conoscitiva degli animali e quella degli uomini. Inoltre, il manifestarsi di un carattere individuale chiaro e preciso, che più di ogni altra cosa contraddistingui l’uomo dall’animale, il quale ultimo a quasi soltanto il carattere della specie, è condizionato allo stesso modo dalla scelta, possibile solo per mezzo dei concetti astratti, fra una pluralità di motivi. Infatti, è solo in forza di una scelta precedente che le decisioni, diverse nei diversi individui, diventano un segno del carattere individuale, che è anch’esso in ciascuno differente; il comportamento dell’animale dipende invece soltanto dalla presenza o dall’assenza dell’impressione, a condizione che questa sia in generale un motivo per la sua specie. È per questo, infine, che soltanto nell’uomo è la decisione, e non invece il semplice desiderio, a essere un valido segno del suo carattere, per se stesso e pre gli altri. La decisione, tuttavia, per se stesso e per gli altri, diventa certa soltanto attraverso l’azione. Il desiderio è soltanto la conseguenza necessaria dell’impressione presente, sia che risulti da uno stimolo esterno, sia che risulti da uno stato d’animo passeggero, ed è perciò immediatamente necessario e privo di riflessione tanto quanto l’agire degli animali.
Il carattere intellegibile
- Soltanto l’azione è l’espressione della massima intellegibile della propria condotta, il risultato della volontà più profonda. È per questo che in uno spirito sano la coscienza viene oppressa soltanto dalle azioni, non dai desideri e dai pensieri: solo le nostre azioni ci mettono dinnanzi agli occhi lo specchio della nostra volontà.
- Come conseguenza di tutta questa riflessione sulla volontà del volere e su ciò che è in relazione con essa troviamo che essa stessa è determinata da motivi contro i quali il carattere di ciascuno reagisce sempre allo stesso modo, con regolarità e necessità.
- Noi vediamo che l’uomo, grazie alla conoscenza astratta, o razionale, che si è aggiunta in lui, possiede sì, rispetto all’animale, una capacità di scelta, la quale però lo trasforma in un campo di battaglia per il conflitto dei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa, perciò, è sì l’occasione per la completa espressione del carattere individuale, e tuttavia non deve essere considerata in nessun modo come la libertà del singolo volere particolare, ossia come indipendenza dalla legge di causalità, la cui necessità si estende all’uomo come a ogni altro fenomeno.
- La distinzione che la ragione, o la conoscenza per concetti, produce tra la volontà umana e quella animale si spinge dunque sino al punto indicato, e non oltre.
- Dato che il nostro carattere deve essere considerato come il dispiegamento temporale di un atto di volontà extra-temporale, e quindi indivisibile e immodificabile, o di un carattere intellegibile, per mezzo del quale tutto ciò che vi è di essenziale, ossia il contenuto etico della nostra condotta di vita, viene determinato immutabilmente e conformemente al quale si deve esprimere nel suo fenomeno, che è il carattere empirico; e dato che invece solo ciò che vi è di inessenziale in questo fenomeno, la configurazione esteriore della nostra condotta di vita, dipende dalle forme in cui si manifestano i motivi; se ne potrebbe concludere che sia una fatica inutile lavorare allo scopo di migliorare il proprio carattere oppure opporsi alla forza delle violenze malvagie, e che meglio sarebbe rassegnarsi all’inevitabile e arrendersi subito a qualsiasi inclinazione, anche ove essa fosse malvagia.
- Sebbene infatti si possa ritenere che tutto sia irrevocabilmente predeterminato dal destino, ciò però non si verifica se non per mezzo della catena causale. In nessun caso, perciò, può essere destinato ad accadere un effetto che sia privo della propria causa. A essere predeterminato non è dunque l’avvenimento puro e semplice, ma l’avvenimento come risultato di cause precedenti: gli uni e l’altro accadono sempre secondo la determinazione del destino, della quale noi tuttavia veniamo a conoscenza sempre solo dopo che essi si sono verificati.
- Come gli avvenimenti non accadono se non in modo conforme al destino, ossia alla concatenazione infinita delle cause, così le nostre azioni accadono sempre in conformità con il nostro carattere intellegibile; tuttavia, come non riconosciamo anticipatamente il destino, così non abbiamo nessuna visione a priori del nostro carattere intellegibile: è solo a posteriori, attraverso l’esperienza, che impariamo a conoscere tanto gli altri quanto noi stessi.
Il carattere acquisito
- Accanto al carattere intellegibile e a quello empirico ne deve essere menzionato ancora un terzo, diverso da essi, il carattere acquisito, che prende forma nel corso della vita attraverso il modo in cui ci serviamo del mondo, e del quale si parla quando un uomo viene lodato perché ha carattere e biasimato perché ne è privo.
- A dire il vero, si potrebbe ritenere che, dato che il carattere empirico, come fenomeno di quello intellegibile, è immodificabile e, come ogni fenomeno naturale, coerente con se stesso, anche l’uomo dovrebbe analogamente apparire sempre uguale a se stesso e coerente, e perciò non dovrebbe avere la necessità di acquisire un carattere artificiale attraverso l’esperienza e la riflessione.
- Ma il caso dell’uomo è diverso e, nonostante egli sia sempre lo stesso, non per questo comprende se stesso in ogni momento; al contrario, egli sovente fraintende se stesso, fino a quando non abbia acquisito fino a un certo grado un’autentica cognizione di sé.
- Il carattere empirico, come semplice istinto naturale, è in se stesso irrazionale: anzi, le sue manifestazioni sono disturbate proprio dalla ragione, e lo sono tanto più quanto maggiori sono l’assennatezza e la forza del pensiero dell’uomo. Poiché queste gli pongono dinnanzi ciò che spetta agli uomini in generale, come carattere della specie, e ciò che ad essi è possibile volere e realizzare in questo modo gli risulta difficile comprendere ciò che può volere e fare del tutto da solo, in modo conforme alla propria individualità.
- Egli trova in sé le attitudini per tutte le tendenze e le forze umane, per quanto diverse esse siano; ma il diverso grado in cui esse sono presenti nella sua individualità non gli diventa chiaro senza l’esperienza; e una volta che si dia da fare veramente per soddisfare le aspirazioni che sole sono conformi al suo carattere, sente però, soprattutto in certi momenti e in certe disposizioni d’animo, l’impulso verso aspirazioni del tutto opposte, e dunque inconciliabili con le prime che, ove voglia seguire indisturbato queste ultime, dovrà soffocare completamente.
- Poiché, come il nostro cammino sulla terra è un percorso lineare, così noi nella vita, quando afferriamo una cosa e la vogliamo possedere, dobbiamo lasciarne innumerevoli altre, abbandonandole a destra ea manca. Ma se non riusciamo a deciderci a farlo e afferriamo invece in preda all’eccitazione tutto ciò che vediamo al nostro passaggio, allora ci accingiamo allo sforzo insensato di trasformare la linea del nostro cammino in un percorso zigzagante, vagando qua e là come anime in pena senza approdare a nulla.
- Un uomo deve sapere ciò che vuole, e sapere ciò che può; solo in questo modo mostrerà di avere carattere, e solo in questo modo potrà portare a termine qualcosa di giusto. Prima di essere giunto a questo egli, malgrado la conseguenza naturale del carattere empirico, è comunque privo di carattere e, anche se, trascinato dal proprio demone, deve rimanere nell’insieme fedele a se stesso e percorrere la propria strada, non percorrerà però una linea retta, ma ne seguirà una tortuosa e diseguale, barcollerà, devierà, farà marcia indietro, cagionandosi pentimento e dolore: tutto questo perché egli, nelle questioni importanti come in quelle insignificanti, vede davanti a sé numerosissime cose che per l’uomo sono possibili e raggiungibili, ma non sa ancora quali siano adatte a lui e quali sia in grado di realizzare, e nemmeno che egli possa effettivamente godersi.
- Egli perciò guarderà gli altri per una situazione e delle relazioni che si attagliano perfettamente al loro carattere, ma non al suo, e nelle quali egli si sentirebbe infelice e che addirittura non riuscirebbe a sopportare. Bisogna considerare che ogni uomo sta bene solo nell’atmosfera adatta a lui: parecchi, per una comprensione difettosa di questo, compiranno ogni sorta di tentativi destinati a fallire, faranno violenza al proprio carattere nei casi particolari, anche se nell’insieme dovranno comunque continuare a seguirlo; e ciò che avranno faticosamente raggiunto andando contro la propria natura non darà loro nessun piacere; ciò che avranno imparato in questo modo resterà lettera morta; persino sotto l’aspetto etico, un’azione che sia troppo nobile per il loro carattere, proveniente non da un impulso puro e immediato, ma da un concetto, da un dogma, sarà privo di ogni merito persino ai loro occhi, in ragione dell’egoistico pentimento che farà seguito a essa: «velle non discitur».
- È solo dall’esperienza che dobbiamo imparare ciò che vogliamo e ciò che possiamo: prima non lo sappiamo, non abbiamo carattere e finiamo spesso per essere ricacciati dalla durezza degli eventi sul cammino che ci appartiene. Solo una volta che, alla fine, lo abbiamo imparato, abbiamo ottenuto quello che nel mondo è detto carattere, ossia il carattere acquisito.
- Quest’ultimo, quindi, altro non è che la conoscenza il più possibile completa dell’individualità che ci è propria: esso è l’astratto, e perciò chiaro, sapere delle qualità immodificabili del nostro carattere empirico e della misura e della direzione delle nostre forze spirituali e fisiche, vale a dire tutti i lati forti e i lati deboli dell’individualità che ci è propria.
- Una volta che abbiamo esaminato dove stiano le nostre forze e le nostre debolezze, cercheremo di sviluppare, utilizzare, sfruttare in tutti i modi le nostre più spiccate attitudini naturali e ci rivolgeremo sempre dalla parte dove esse servono e valgono, evitando del tutto e con auto-controllo gli sforzi velleitari.
- Poiché l’uomo nella sua interezza è solo il fenomeno della propria volontà, non c’è nulla di più assurdo che voler essere, abbandonando la riflessione, qualcosa di diverso da ciò che si è: questo costituisce infatti un’immediata contraddizione della volontà con se stessa.
- Nulla ci riconcilia in modo così deciso con la necessità, esterna o interna che sia, quanto il conoscerla con chiarezza. Ove abbiamo riconosciuto con chiarezza una volta per tutte sia le nostre buone qualità e le nostre forze sia i nostri errori e le nostre debolezze e, in conformità a ciò, ci siamo fissati la nostra meta e abbiamo rinunciato a ciò che non possiamo conseguire, sfuggiremo nel modo più sicuro, per quanto lo consente la nostra individualità, al più amaro fra tutti i mali, la scontentezza di noi stessi, che è la conseguenza inevitabile della mancata conoscenza dell’individualità che ci è propria, della falsa opinione e della presunzione che ne deriva.
- Questo basti a proposito del carattere acquisito che, in verità, non è importante tanto per l’etica propriamente detta, quanto piuttosto per la vita sociale.
§ 56 Lo sforzo incessante della volontà
Invece di una risposta alla domanda intorno alla meta e allo scopo della volontà, ci è risultato evidente che la volontà, a ogni stadio della sua manifestazione fenomenica, da quelli più bassi a quelli più alti, è del tutto priva di una meta e di uno scopo ultimi, a cui essa tende sempre, poiché l’aspirare è la sua unica essenza, alla quale non c’è meta raggiunta che possa mettere fine, e che perciò essa non è capace di alcun appagamento definitivo, ma che al contrario può essere frenata solo da un impedimento, mentre in se stessa si slancia nell’infinito.
- È proprio uno sforzo incessante di questo tipo, incapace di trovare soddisfazione, a costituire l’esistenza della pianta, una spinta incessante attraverso forme sempre più elevate, sino a che il punto d’arrivo, il seme, diventa daccapo il punto di partenza; e questo si ripete all’infinito: mai un termine, mai un appagamento conclusivo, mai un momento di riposo.
La contesa
- Allo stesso tempo ci dovremo ricordare che dappertutto le svariate forze naturali e le forme organiche contendono l’una all’altra la materia sulla quale vogliono spiccare, in quanto ciascuna ha in suo possesso soltanto ciò che è riuscita a strappare all’altra; in questo modo si continua ad alimentare una lotta per la vita e per la morte, dalla quale si genera appunto anzitutto quella resistenza che tiene a freno lo sforzo che costituisce l’essenza profonda di ogni cosa, che preme inutilmente senza tuttavia poter mai abbandonare la propria essenza, che si tormenta sino a quando questo suo fenomeno perisce, mentre altri ne afferrano avidamente il posto e la materia.
Sofferenza e appagamento
- Da molto temo abbiamo riconosciuto che quello sforzo, che è il nocciolo dell’in-sé di ogni cosa, è la stessa cosa che in noi, dove si manifesta nel modo più chiaro, alla luce della coscienza più piena, prende il nome di volontà.
- Chiamiamo poi sofferenza il suo essere impedito da un ostacolo che si frappone tra esso e il suo scopo contingente; al contrario, il conseguimento dello scopo lo chiamiamo appagamento, benessere, felicità.
- Queste denominazioni le possiamo trasferire anche a quei fenomeni del mondo incosciente che sono più deboli quanto al grado ma identici quanto all’essenza. Li vedremo allora preda di una continua sofferenza e privi di una felicità permanente. Poiché ogni tendere scaturisce da una mancanza, da un’insoddisfazione nei confronti della propria condizione, esso, sino a che non venga appagato, è anche sofferenza; ma nessun appagamento è duraturo, ed è piuttosto solo il punto d’inizio di una nuova tensione. Lo sforzo lo vediamo ostacolato in molti modi, dappertutto in lotta, e dunque sempre come sofferenza: così come non c’è alcun fine ultimo per lo sforzo, non c’è alcuna misura e alcun fine al soffrire.
- Come il fenomeno della volontà diviene più completo, allo stesso modo anche la sofferenza diventa sempre più evidente. Nella pianta non c’è ancora alcuna sensibilità, e quindi non vi è alcun dolore; un grado certo molto piccolo dell’una e dell’altro è insito negli animali inferiori; è solo con il più complesso sistema nervoso dei vertebrati che essa si presenta in un grado elevato, e sempre più alto quanto più si sviluppa l’intelligenza.
Conoscenza e dolore
- Nella stessa misura, dunque, in cui la conoscenza perviene all chiarezza e in cui la coscienza aumenta, cresce anche la pena, la quale di conseguenza raggiunge il suo grado più alto nell’uomo, e anche qui tanto più quanto più l’uomo conosce con chiarezza e quanto più è intelligente. In questo senso, vale a dire in relazione al grado della conoscenza in generale, e non solo del puro sapere astratto, si esprime l’Ecclesiaste I,18: «Colui che aumenta la conoscenza non fa altro che aumentare il dolore».
§ 57 il destino della volontà
A ogni grado illuminato dalla conoscenza, la volontà appare a se stessa come individuo. Nell’infinito spazio e nell’infinito tempo l’individuo umano si ritrova come finito e, di conseguenza, come una grandezza che, di contro a quell’infinità, si eclissa, è gettata in essa, e la cui esistenza ha, per via dell’illimitatezza di quella, un quando e un dove sempre e solo relativi, non assoluti, poiché il suo luogo e la sua durata sono parti finite di un tutto infinito e illimitato.
- La sua esistenza vera e propria è solo nel presente, il cui inarrestabile fluire nel passato è un continuo passaggio nella morte, un continuo perire. Dato che la sua vita passata, se si prescinde dalle sue eventuali conseguenze nel presente e anche dalla sua testimonianza sulla sua volontà che è impressa in esso, e stata ormai del tutto tolta di mezzo, è morta, non è più, gli dovrebbe anche essere del tutto indifferente, da un punto di vista razionale, se il contenuto di quel passato sia stato costituito da tormenti e gioie.
- Ma il presente sfugge costantemente dalle mani per precipitare nel passato, mentre il futuro è del tutto incerto e sempre breve. Così la sua esistenza, anche se considerata unicamente dal punto di vista formale, è un continuo precipitare del presente in un passato che è morto, un continuo morire.
- Esaminiamola ora dal punto di vista fisico: qui è del tutto manifesto che, come notoriamente il nostro camminare altro non è che un cadere continuamente evitato, così la vita del nostro corpo altro non è che un morire continuamente evitato, una morte sempre di nuovo rinviata; e, in ultima analisi, anche l’attività del nostro spirito è una noia incessantemente respinta. A ogni respiro allontaniamo la morte che è già da sempre dentro di noi, e con la quale in questo modo combattiamo a ogni secondo una battaglia, alla quale poi se ne aggiungono altre, a intervalli più lunghi, ogni qual volta mangiamo, ogni qual volta dormiamo, ogni qual volta viaggiamo, e così via. Alla fine è la morte che deve vincere, perché le siamo toccati sin dalla nascita, ed essa non fa che giocare per qualche tempo con la sua preda prima di divorarla. Noi, nel frattempo, ci sforziamo con grande partecipazione e con ogni cura di prolungare il più possibile la nostra vita, come chi volesse gonfiare una bolla di sapone quanto più e quanto più a lungo è possibile, pur avendo l’assoluta certezza che dovrà scoppiare.
La lotta per l’affermazione della volontà
- Volere e tendere è l’intera essenza della volontà, ed è del tutto simile a una sete inestinguibile. Ma il fondamento di ogni volere è il bisogno, la mancanza, dunque il dolore, al quale di conseguenza l’uomo originariamente e per sua stessa natura appartiene. Se al contrario gli viene a mancare l’oggetto del volere, ove esso venga eliminato da una soddisfazione troppo facile, allora lo assalgono un vuoto spaventoso e la noia: la sua essenza e la sua stessa esistenza diventano per lui un peso insostenibile.
- Questa continua tensione che costituisce l’essenza di ogni fenomeno della volontà riceve nei gradi più elevati della sua oggettivazione il proprio primo e più generale fondamento, in ragione del fatto che qui la volontà si rivela a se stessa come un corpo vivente accompagnato dal ferreo comando di nutrirlo; e ciò che dà forza a tale comando è proprio il fatto che questo corpo altro non è che la stessa volontà di vivere oggettivata.
- L’uomo, essendo l’oggettivazione più completa della volontà, è proprio per questo anche il più bisognoso di tutti gli esseri: egli è in tutto e per tutto un volere e un aver-bisogno concretizzati, un concretizzarsi di mille bisogni. Con essi egli sta sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto di tutto eccetto che del proprio esser-bisognoso e della propria indigenza: perciò la cura per la conservazione dell’esistenza, presa com’è da esigenze così pressanti che si ripresentano di continuo ogni giorno, occupa, di norma, l’intera vita dell’uomo.
- A ciò si connette immediatamente una seconda esigenza, quella della perpetuazione della specie. Allo stesso tempo lo minacciano da ogni lato i pericoli più diversi, per sfuggire ai quali ha bisogno di una continua vigilanza.
- Egli percorre il suo cammino muovendo cautamente i suoi passi e guardandosi intorno con ansia, poiché sono mille i rischi e i nemici. Come procedeva nella selva, così procede nella vita civilizzata; non c’è per lui alcuna sicurezza: «In quale oscurità, fra che rischi scorre quel poco di vita, quale esso sia, che c’è dato!» (Lucrezio – De rerum naturae).
- La vita dei più non è che una continua battaglia per l’esistenza, combattuta con la certezza della sconfitta finale. Ciò che tuttavia li fa perseverare non è tanto l’amore per la vita, quanto la paura della morte che comunque rimane inevitabilmente sullo sfondo e può in ogni istante farsi avanti.
- La vita stessa è un mare disseminato di scogli e di gorghi, che l’uomo cerca di evitare con la massima cura e cautela, nonostante sappia che, se anche può riuscire, mettendo in atto ogni sforzo e ogni arte, per trovare una via in mezzo a essi, proprio per questo si approssima a ogni passo al più grande, completo, inevitabile e irreparabile naufragio; anzi, fa la rotta direttamente verso di esso: la morte, che è la meta finale del suo faticoso viaggio e che è per lui il peggiore di tutti gli scogli da evitare.
L’aspirazione all’esistenza
- Ora, c’è però qualcos’altro di molto notevole, ossia da una parte che i dolori e le sofferenze possono facilmente aumentare a tal punto che la morte stessa, nella fuga dalla quale consiste tutta l’intera vita, diventa qualcosa di desiderabile e ci precipita volontariamente verso di essa; e dall’altra parte che non appena l’indigenza e la sofferenza accordano all’uomo una tregua, la noia si fa subito così vicina che egli ha necessariamente bisogno di un passatempo.
- Ciò che tiene occupati e in movimento tutti i viventi è l’aspirazione all’esistenza. Ma dell’esistenza, una volta che sia stata messa al sicuro, essi non sanno che farsene: perciò la seconda aspirazione che li mette in movimento è quella di liberarsi dal peso dell’esistenza, di renderlo impalpabile, di «ammazzare il tempo», vale a dire di sfuggire alla noia.
- La noia non è affatto un male che possa essere considerato di poco conto: essa finisce col dipingere sul volto la vera disperazione. È la noia a far sì che degli esseri come gli uomini, che si amano così poco a vicenda, ciononostante si cerchino così fortemente l’uno con l’altro, sì che essa diventa la fonte della socievolezza.
- Ogni vita umana, quindi, scorre via tra il volere e il conseguire. Il desiderio è per sua natura, dolore; l’appagamento si traduce rapidamente in sazietà, perché lo scopo era solo apparente, e il possesso cancella il fascino: il desiderio si presenta sotto nuova forma, il bisogno si fa sentire; o, se non lo fa, ecco subentrare la monotonia, il vuoto, la noia, contro i quali la lotta è altrettanto penosa quanto quella contro l’indigenza. Quando il desiderio e l’appagamento si susseguono a intervalli né troppo brevi né troppo lunghi, la sofferenza che l’uno e l’altro producono si riduce al minimo, con il che si genera la vita più felice che sia possibile.
L’appagamento procurato dalla cultura
- Quella che normalmente si potrebbe chiamare la parte più bella, la gioia più pura della vita, proprio in quanto ci permette di uscire dall’esistenza reale e ci trasforma in suoi spettatori disinteressati – vale a dire quel puro conoscere al quale è estraneo ogni volere, la fruizione del bello, la gioia genuina nei confronti dell’arte -, poiché richiede già il possesso di attitudini non comuni, è concessa solo a pochissimi, e anche a quelli solo come un sogno passeggero; oltre a ciò, è proprio la superiore forza intellettuale di questi rari individui a renderli sensibili a sofferenze assai più profonde.
- Alla stragrande maggioranza degli uomini, tuttavia, i godimenti puramente intellettuali non sono accessibili: essi sono quasi del tutto incapaci della gioia in cui consiste il puro conoscere e sono completamente prigionieri del volere. Perché dunque qualcosa possa destare la loro attenzione, essere per loro interessante, essa deve (e questo è già presente nel significato stesso della parola) stimolare in qualche modo la loro volontà, sia pure per mezzo di una relazione remota con essa e che si trovi solo nel dominio delle possibilità; la volontà non può stare in alcun modo fuori dal gioco, poiché l’esistenza degli uomini si svolge assai più nel volere che nel conoscere: azione e reazione sono il suo unico elemento.
La lotta con il dolore
- Ma, per quanto possa aver fatto la natura, per quanto possa aver fatto la fortuna, chiunque noi siamo, e qualsiasi cosa possediamo, il dolore, che è essenziale alla vita, non si lascia togliere di mezzo.
- Gli sforzi incessanti per mettere al bando la sofferenza non servono ad altro che a mutarne la forma. La sofferenza è in origine mancanza, indigenza, ansia per la conservazione della vita.
- Una volata che si sia riusciti, il che peraltro è molto difficile, ad allontanare questa determinata forma di dolore, esso si presenta subito in mille altre forme, che variano a seconda dell’età e delle circostanze. E se alla fine non riesce a trovare la propria strada in nessun’altra forma, giunge sotto le spoglie meste e grigie della sazietà e della noia, contro cui sono stati tentati i rimedi più diversi. E quando infine si riesce a scacciare queste ultime, difficilmente ciò potrà accadere senza che con questo il dolore si ripresenti in una delle sue forme precedenti e che così ricominci daccapo la danza, poiché la sorte di ogni vita umana è quella di dibattersi tra il dolore e la noia.
- La nostra insofferenza nei confronti del male deriva per lo più dal fatto che riteniamo che esso sia capitato per caso, che sia stato provocato da una catena di cause che facilmente sarebbe potuta essere diversa. Invece un male assolutamente inevitabile e universale – per esempio la necessità della vecchiaia e della morte e i molti disagi quotidiani – di solito non ci affligge. È piuttosto la casualità delle circostanze che ci hanno procurato una sofferenza a renderla pungente.
- Ora, se noi invece riconosciamo che il dolore come tale appartiene essenzialmente e inevitabilmente alla vita e che dal caso dipende solo la sua forma, la figura sotto la quale si presenta; che quindi la nostra attuale sofferenza occupa un posto nel quale, se essa non ci fosse, subito ne subentrerebbe un’altra, che per il momento è tenuta lontana da quella presente; che perciò, quanto all’essenziale, il destino ha ben poco potere su di noi; ebbene, una riflessione di questo genere, se diventa una persuasione vivente, potrebbe portare con sé un considerevole grado di imperturbabilità stoica e attenuare non poco l’inquietudine ansiosa che abbiamo per il nostro bene.
La misura del dolore
- D’altra parte, questa considerazione intorno all’inevitabilità del dolore, e intorno al fatto che un dolore viene soppiantato da un altro e che il sopraggiungere di quello nuovo si realizza con lo scomparire del precedente, potrebbe condurci all’ipotesi, paradossale ma non insensata, che ciascun individuo abbia una misura del dolore che gli è essenziale, determinata una volta per tutte dalla sua natura, la quale misura non può né rimanere vuota, né essere sovrabbondante, per quanto varia possa essere la forma della sofferenza.
- La sofferenza e il benessere dell’individuo, di conseguenza, non sarebbero affatto determinati dall’esterno, ma solo da quella misura, da quella disposizione, che in verità potrebbe, in ragione dello stato fisico, subire in tempi diversi un accrescimento e una diminuzione, ma che, nell’insieme, rimarrebbe sempre la stessa e non sarebbe altro se non ciò che si chiama il suo temperamento.
- Le grandi sofferenze rendono del tutto intangibili tutte quelle più piccole e, viceversa, in assenza di sofferenze maggiori ci tormentano e ci indispongono persino le più piccole contrarietà; anche l’esperienza ci insegna che se una sciagura, che prima ci faceva rabbrividire anche solo a pensarla, e ora è effettivamente accaduta, nondimeno il nostro stato d’animo complessivo, una volta che abbiamo superato il dolore del primo impatto con essa, rimane pressapoco lo stesso che avevamo prima; e anche, all’opposto, dopo che ci è capitato realmente un colpo di fortuna che abbiamo a lungo atteso con ansia, noi, quanto all’interezza della nostra persona e alla durevolezza della gioia, non ci sentiamo poi così meglio e più soddisfatti di quello che eravamo prima. È solo l’istante in cui quei cambiamenti si presentano a scuoterci con veemenza eccezionale, si tratti della più profonda disperazione o della gioia più alta; ma l’una e l’altra svaniscono rapidamente, poiché erano l’effetto di una illusione. Esse infatti non sorgono dal piacere o dal dolore immediatamente presenti, ma solo dalla prospettiva di un nuovo futuro che in essi viene anticipata. È solo perché ipotecano il futuro che il dolore e la gioia si sono potuti accrescere in modo così abnorme e, di conseguenza, durano poco.
La sofferenza e la gioia sono soggettivi
- Come nel conoscere anche nel sentimento del soffrire o del benessere una parte molto consistente è soggettiva ed è determinata a priori.
- Il fatto che la serenità o la malinconia umana sono determinate, con ogni evidenza, non dalle circostanze esterne, dalla ricchezza o dalla condizione sociale; inoltre, i motivi per i quali si può essere spinti al suicidio sono i più disparati, tanto che non riusciremo a indicare nessuna sventura che sia grande abbastanza da poter dire che, con grande probabilità, può condurre al suicidio un uomo, qualsiasi sia il suo carattere, e poche che siano così piccole che nessun’altra di equivalente non lo abbia già provocato altre volte.
- Che dunque il grado della nostra serenità o della nostra tristezza non sia sempre lo stesso per tutto il tempo, lo ascriveremo non al mutamento delle circostanze esterne, bensì a quello dello stato interiore, delle condizioni fisiche. Infatti, quando si produce un effettivo, anche se solo temporaneo, aumento della nostra serenità, che va magari fino alla gioia, esso si presenta di solito senza alcuna occasione esteriore.
- È vero che noi vediamo spesso che il nostro dolore proviene solo da una determinata circostanza esterna, e siamo evidentemente oppressi e turbati solo da essa: allora crediamo che, ove questa venisse meno, a essa dovrebbe seguire la più grande contentezza. Ma è solo un’illusione. La misura complessiva del nostro dolore e del nostro benessere, secondo la nostra ipotesi, è determinata soggettivamente per ogni istante del tempo e, in rapporto a essa, ogni motivo esteriore di afflizione è una cosa concentrata ma passeggera.
- Il dolore, che per questo periodo di tempo ha il suo fondamento nella nostra essenza e perciò non è rimovibile, senza quella determinata causa esterna della sofferenza sarebbe distribuito in cento punti diversi e si manifesterebbe nella forma di cento piccoli fastidi e piccole noie a proposito di cose alle quali invece ora non badiamo per nulla, poiché la nostra capacità di soffrire è stata saturata da quel male dominante che la sofferenza, la quale altrimenti sarebbe stata dispersa, ha concentrato tutto in un unico punto.
- Il dolore è essenziale alla vita ed è anche determinato, nel suo grado, dalla natura del soggetto – ragion per cui i cambiamenti improvvisi, essendo sempre esteriori, non possono mutare davvero il grado -, ne segue che alla base di un giubilo o di un dolore eccessivi ci sono sempre un errore e un’illusione: dal che segue che entrambi gli eccessi dello spirito potrebbero essere evitati da un esame capace di discernimento razionale.
- «Eguale e giusta, ricorda, in momenti perigliosi e difficili \ devi conservare la mente; non diversamente nei momenti buoni \ modesta e lontana da insolente gioia» (Orazio, Carminum liber).
- Il più delle volte, tuttavia, ci chiudiamo alla conoscenza, che è simile a una medicina amara, che la sofferenza è essenziale alla vita e che quindi non fluisce dentro di noi dall’esterno, ma ciascuno di noi ne porta dentro di sé la sorgente inesauribile. Noi cerchiamo piuttosto di trovare, per quel dolore che non ci abbandona mai, una singola causa esterna, un pretesto, per così dire; come capita a un uomo libero che si costruisca un idolo per poter avere un padrone. Così, instancabilmente, ci affanniamo a passare da desiderio a desiderio e, sebbene ogni soddisfazione che sia stata raggiunta per quanto possa averci promesso, non ci soddisfa affatto.
- «Il meglio a noi sembra ciò che ci manca e si brama: e quando questo è raggiunto, bramiam dell’altro e ci tiene \ a bocca aperta la stessa sete del vivere, sempre» (Lucrezio – De rerum natura, III).
- E così all’infinito; oppure – ma è più raro e presuppone già una certa forza di carattere – fino a che non ci imbattiamo in un desiderio che non può essere appagato: la conseguenza di ciò è una certa quale disposizione d’animo malinconica, il costante portare su di sé un unico, grande dolore e, da ciò, il disprezzo, che ne deriva, di tutte le piccole sofferenze e di tutte le piccole gioie.
§ 58 La natura negativa della felicità
- Il desiderio, ossia la mancanza, è la condizione preliminare di ogni piacere. La soddisfazione o la felicità non sono nient’altro che la liberazione da un dolore, da un bisogno. Ora, però è così difficile che si riesca a raggiungere e a ottenere qualcosa: a ogni progetto si contrappongono difficoltà e fatiche senza fine, e gli ostacoli si moltiplicano a ogni passo. Quando, infine, tutto è stato superato e tutto è stato raggiunto, non è possibile ottenere nient’altro se non di essere liberati da una qualche sofferenza o da un qualche desiderio e, di conseguenza, ci si ritrova nella situazione in cui ci si trovava in precedenza.
- A noi è data immediatamente sempre e solo la mancanza, vale a dire il dolore. Invece, la soddisfazione e il piacere non li possiamo conoscere se non in modo mediato, per mezzo del ricordo delle sofferenze e delle privazioni passate, alle quali il loro sopraggiungere ha posto fine.
- Segue da ciò che non ci rendiamo conto in modo preciso dei beni e dei vantaggi di cui siamo effettivamente in possesso né li sappiamo apprezzare, ma crediamo che debbano essere proprio così come sono: essi infatti ci danno gioia sempre solo negativamente, tenendo lontano le sofferenze. Prima di poterne sentire il valore dobbiamo averli perduti, poiché il positivo che si rende noto immediatamente è costituito dalla mancanza, dalla privazione, dalla sofferenza.
- Anche per questo ci rallegra il ricordo del bisogno, della malattia, della privazione, ecc., che abbiamo superato; e non si può nemmeno negare che, sotto questo aspetto e dal punto di vista dell’egoismo, che è la forma della volontà di vivere, la vista o la descrizione delle sofferenze altrui ci diano soddisfazione e piacere, proprio per quella via di cui ci parla Lucrezio: «dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti \ l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio, \ non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, \ ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce» (De rerum natura,II).
- Che ogni felicità abbia una natura solo negativa e che proprio per questo non possa dare alcun appagamento e alcuna felicità durevoli, ciò trova una giustificazione anche in quello specchio fedele dell’essenza del mondo e della vita che è l’arte, e in particolare nella poesia. Quello che vediamo nella poesia lo troviamo anche nella musica, nella cui melodia, espressa in modo generale, abbiamo riconosciuto la storia più intima della volontà consapevole di sé, la vita più segreta, le aspirazioni, le sofferenze e le gioie, il flusso e il riflusso del cuore dell’uomo.
- L’irraggiungibilità dell’appagamento e il carattere negativo della felicità trova la sua spiegazione nel fatto che la volontà, dalla quale la vita umana, come ogni fenomeno, è un’oggettivazione, è una tensione senza scopo e senza fine. L’impronta di questa infinità la troviamo impressa anche in tutte le parti del suo manifestarsi complessivo, della sua forma più generale – il tempo e lo spazio senza fine – sino al più perfetto di tutti i fenomeni, la vita e la tensione degli uomini.
- Si possono pensare, in linea teorica, tre estremi della vita umana e considerarli come elementi della vita umana reale. Il primo luogo la volontà potente, le grandi passioni. Poi, in secondo luogo, il puro conoscere, la comprensione delle idee, che dipende dalla liberazione della conoscenza dall’asservimento della volontà. In terzo ed ultimo luogo, il più profondo letargo della volontà, e quindi della conoscenza a essa legata, la vuota aspirazione, la noia che paralizza la vita.
- La vita dell’individuo, ben lungi dal restare ferma in uno di questi estremi, li tocca solo di rado ed è, il più delle volte, solo un debole ed esitante avvicinarsi a questa o a quella parte, un povero voler oggetti insignificanti che si ripete in continuazione e sfugge in questo modo alla noia.
- Essa è un fievole aspirare e soffrire, un barcollare come in sogno attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con l’accompagnamento di una serie di pensieri triviali. Questi uomini sono come degli automi teleguidati che camminano senza sapere il perché; e, ogni volta che un uomo viene concepito e partorito, l’orologio della vita umana viene ricaricato, per ripetere ancora una volta la stessa musica già suonata innumerevoli altre volte, frase per frase e battuta per battuta, con variazioni insignificanti.
- Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita umana non sono più che un breve sogno dell’infinito spirito della natura, della tenace volontà di vivere, non sono più che un disegno fuggevole che essa, per gioco, traccia sul suo foglio infinito, lo spazio e il tempo, e che lascia sussistere solo per un attimo che, di contro alla loro immensità, risulta appena percettibile, e poi la cancella per lasciar spazio ad altri disegni. Nondimeno – e in questo sta la parte seria della vita – ciascuno di questi fuggevoli disegni, di questi insipidi capricci, deve essere pagato dalla volontà di vivere tutta intera, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori e, da ultimo, con una morte amara, che è stata a lungo temuta e che, finalmente, sopraggiunge.
- E così, come se il destino avesse voluto aggiungere alla miseria della nostra esistenza la beffa, la nostra vita deve contenere in sé tutti i dolori della tragedia, mentre noi non siamo in grado di conservare nemmeno una volta la dignità del personaggio tragico, e siamo destinati a essere, negli innumerevoli eventi particolari della vita, dei goffi caratteri da commedia.
- Ora, per quanto affanni grandi e piccoli riempiano ogni vita umana e la mantengano in uno stato di perenne inquietudine e movimento, essi non riescono tuttavia a nascondere l’insufficienza della vita nel soddisfare lo spirito, il vuoto e la mancanza di sapore dell’esistenza, né a bandire la noia, la quale è sempre pronta a riempire ogni pausa lasciata libera dalle preoccupazioni.
- Da ciò deriva il fatto che lo spirito umano, non ancora soddisfatto dalle preoccupazioni, dalle afflizioni e dalle occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, sotto la forma di mille superstizioni diverse, un mondo immaginario nel quale si affatica in tutti i modi, dedicandogli tutto il proprio tempo e tutte le proprie forze non appena il mondo reale gli conceda quella quiete che non riesce a sopportare.
- L’uomo si crea demoni, dèi e santi a propria immagine e somiglianza; ad essi devono poi essere offerti sacrifici, preghiere, gli ornamenti dei templi, voti, pellegrinaggi, e così via. È l’espressione e il sintomo del duplice bisogno dell’uomo, da una parte il bisogno di aiuto e di sostegno, dall’altra di un’occupazione e di un passatempo.
§ 59 La vita umana è una sofferenza multiforme
- Giunti a questo punto, ci siamo persuasi a priori che la vita umana, già per la sua impostazione complessiva, è del tutto incapace di una vera felicità, ed è al contrario essenzialmente una sofferenza multiforme e uno stato assolutamente sciagurato.
- Chiunque si sia destato dai primi sogni giovanili, abbia fatto attenzione alla propria esperienza e a quella altrui, si sia guardato intorno nella vita, nella storia del passato e in quella del tempo attuale, ne avrà certamente ricavato che questo mondo umano è il regno del caso e dell’errore, i quali in esso comandano in modo spietato nelle grandi come nelle piccole cose e accanto ai quali la follia e la malvagità brandiscono la frusta.
- Ne deriva che ogni cosa buona potrà farsi strada soltanto a fatica e che solo raramente qualcosa di nobile e di saggio potrà venire alla luce e risultare efficace o trovare credito, mentre l’assurdo e il falso nel dominio del pensiero, il banale e l’insulso, nel dominio dell’arte, il malvagio e il fraudolento nel dominio dell’azione, mantengono in effetti la supremazia, appena disturbati da qualche breve interruzione.
- L’eccellenza, in ogni genere di cose, è viceversa sempre e solo un’eccezione, un caso fra milioni di altri, sì che, anche quando si sia rivelata in qualche opera duratura, questa poi, dopo essere sopravvissuta al rancore dei contemporanei, rimane isolata.
- Per ciò che poi concerne la vita dell’individuo, la storia di ogni vita è storia di sofferenza: ogni percorso esistenziale è, di regola, una serie ininterrotta di disgrazie grandi e piccole, che in effetti ciascuno tiene nascoste meglio che può.
- Il contenuto essenziale del celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare è che il nostro stato è così miserabile che un assoluto non-essere dovrebbe essergli sicuramente preferito. Il suicidio ci offre realmente il non-essere? In noi c’è qualcosa che ci dice che le cose non stanno in questo modo; che con esso non tutto ha fine, che la morte non è affatto un annientamento assoluto.
- Ciò corrisponde a quanto detto da Erodoto, il padre della storia: «infatti nel corso di una vita così breve nessun essere umano […] è tanto felice che gli sia capitato – e non una sola volta, ma più volte – di desiderare di essere morto piuttosto che vivo. Le sciagure che si abbattono su di noi e le malattie che ci tormentano ci fanno sembrare lunga un’esistenza che invece è breve. Così, poiché la vita è piena di affanni, la morte diviene per l’uomo il rifugio di gran lunga preferibile» (Le storie, VII); da allora non è mai stato contraddetto.
- Ne segue che la così spesso lamentata brevità della vita potrebbe essere quel che in effetti la vita ha di meglio. Se si conducesse il più ostinato degli ottimisti attraverso tutti i luoghi dove impera il dolore e la miseria umana, sicuramente finirebbe anch’egli per comprendere di che specie sia questo migliore di mondi possibili. Da dove ha preso Dante la stoffa per il suo Inferno se non da questo mondo reale?
- Da ciò appare in modo adeguatamente chiaro quale sia la natura di questo mondo. È certo che nella vita umana, come in ogni merce di cattiva qualità, l’aspetto esteriore è ricoperto da uno splendore fasullo. Eppure, anche sotto questo vano miraggio, gli affanni della vita possono aumentare a tal punto che la morte, la quale diversamente viene temuta più di ogni altra cosa, venga afferrata con avidità.
- Sempre, in questa questione fondamentale come in ogni altra, l’uomo è ricondotto a fare assegnamento su se stesso. È inutile che si costruisca gli dèi per mendicare e carpire da essi ciò che soltanto la sua propria forza di volontà gli può procurare.
- l’Antico Testamento aveva fatto del mondo e dell’uomo l’opera di Dio; così si vide il Nuovo Testamento costretto, per insegnare che la salvezza e la redenzione dalla miseria di questo mondo possono provenire solo da questo mondo stesso, a trasformare quel Dio in un uomo. La volontà dell’uomo è e rimane ciò da cui per l’uomo dipende tutto quanto. Nei Vangeli, le parole «mondo» e «male» vengono usate quasi come sinonimi.
§ 60 L’affermazione della volontà
- L’affermazione della volontà è l’invariabilità del volere stesso, non turbato da alcuna conoscenza, che riempie la vita di un uomo in generale. Dato che già il corpo dell’uomo è oggettità della volontà, come essa appare a un dato grado e in quanto individuo determinato, il suo volere che si sviluppa nel tempo è, per così dire, la parafrasi del corpo, il commentario del suo significato complessivo e di quello delle sue parti, è un altro modo di rappresentare la medesima cosa in sé, della quale anche il corpo è già rappresentazione fenomenica.
- Invece di affermazione della volontà potremmo perciò dire anche affermazione della vita. Il tema fondamentale di tutti gli svariati atti della volontà è il soddisfacimento dei bisogni, che sono inseparabili dall’esistenza del corpo in buona salute, che hanno già in esso la loro espressione e che si lasciano ricondurre alla conservazione dell’individuo e alla riproduzione della specie.
- Solo che in questo modo i motivi più diversi esercitano indirettamente il loro potere sulla volontà e ne producono gli atti più svariati. Ognuno di questi è solo un saggio, un esempio della volontà in generale che qui si rende manifesta: di quale natura sia questo saggio, quale forma abbia il motivo e quale forma comunichi a esso non è essenziale; la questione qui è soltanto che, in generale, si voglia, e con quale intensità.
- La volontà può rendersi visibile solo in relazione ai motivi, come l’occhio può mostrare la sua capacità di vedere solo alla luce. Il motivo in generale sta dinnanzi alla volontà come un Proteo multiforme: promette sempre una piena soddisfazione, una completa estinzione della sete della volontà; ma, una volta che sia stato raggiunto, eccolo riapparire in un’altra forma e, in essa, mettere nuovamente in moto la volontà, sempre secondo il grado di intensità che le compete e secondo la sua relazione con la conoscenza, i quali proprio per mezzo di tali saggi ed esempi diventano manifesti come carattere empirico.
- L’uomo si scopre, sin dal primo manifestarsi della sua coscienza, come volente e, di regola, la sua conoscenza resta in relazione costante con la sua volontà. Egli cerca di imparare a conoscere in modo completo dapprima gli oggetti del proprio volere, poi i mezzi per poterli conseguire. Ora egli sa quello che deve fare e, di regola, non aspira ad alcun altro sapere.
- Agisce e si dà da fare: la coscienza di sforzarsi sempre di raggiungere lo scopo del proprio volere lo tiene in piedi e lo mantiene attivo, e il suo pensiero va alla scelta dei mezzi.
- Viene da lì una certa serenità, o quanto meno una certa tranquillità, alla quale né la ricchezza né la povertà tolgono, propriamente, nulla: poiché il ricco come il povero godono non di ciò che hanno, bensì di ciò che, con il loro darsi da fare, sperano di conseguire.
- È sempre un’eccezione quando il corso di una vita viene disturbato da un conoscere indipendente dall’asservimento alla volontà e diretto all’essenza del mondo in generale, sia che produca l’esigenza estetica della contemplazione, sia che produca l’esigenza etica della rinuncia.
- I più sono assediati dal bisogno per tutta la vita, e ciò non lascia loro il tempo di riflettere. Al contrario, spesso la volontà si infiamma a un grado che oltrepassa di gran lunga quello dell’affermazione del corpo, grado che viene poi rivelato da violente emozioni e da forti passioni, nelle quali l’individuo non afferma tanto la propria esistenza, quanto piuttosto nega e cerca di sopprimere quella altrui, ove essa gli ostacoli il cammino.
- La conservazione del corpo per mezzo delle sue stesse forze rappresenta un grado così minimo dell’affermazione della volontà che, se essa vi si arrestasse liberamente, noi potremmo ritenere che, con la morte di questo corpo, anche la volontà che in esso si manifestava si estingua.
- Ma già la soddisfazione dell’istinto sessuale va al di là dell’affermazione della nostra propria esistenza, la quale riempie un tempo così breve, afferma la vita al di là della morte dell’individuo, per un tempo indeterminato. La natura, sempre vera e consequenziale, è qui addirittura ingenua e ci svela del tutto apertamente il significato profondo dell’atto dell’accoppiamento. La nostra coscienza, l’impetuosità dell’istinto ci insegnano che in questo atto si esprime, nella sua purezza e senza aggiunte estranee (come potrebbe essere la negazione di altri individui), la più energica affermazione della volontà di vivere; ed ecco che, nel tempo e nella serie casuale, ossia nella natura, appare, come conseguenza di quell’atto, una nuova vita: di contro a generante si pone il generato, diverso da esso in quanto fenomeno, ma in sé, o considerato secondo l’idea, identico a esso. È quindi per questo atto che le generazioni degli esseri viventi si collegano l’una all’altra in un tutto e, in questo modo, si perpetuano.
- La procreazione è, in riferimento al generante, solo l’espressione, il sintomo della sua energica affermazione della volontà di vivere; in riferimento al generato essa non è la ragione della volontà che in lui si manifesta, dato che la volontà in sé non conosce né ragione né conseguenza; essa è invece, come ogni causa, solo la causa occasionale della manifestazione di questa volontà in un determinato tempo e luogo.
- Come cosa in sé, la volontà del generante non è diversa da quella del generato, dato che solo il fenomeno, non la cosa in sé, è sottoposto al principium individuationis. Con quell’affermazione, che oltrepassa il nostro corpo e va fino alla produzione di un corpo nuovo, vengono affermate nuovamente anche la sofferenza e la morte, in quanto appartengono al fenomeno della vita, mentre la possibilità della redenzione, che può essere prodotta da una capacità di conoscere che abbia potuto raggiungere la sua massima perfezione, questa volta viene vanificata. Si trova qui la ragione profonda della vergogna che accompagna le faccende legate alla generazione.
- L’istinto sessuale si conferma come l’affermazione più energica e più forte della vita, anche per il fatto che per l’uomo allo stato di natura, come per l’animale, esso è il fine ultimo, lo scopo più alto della sua vita. Quella di conservare se stesso è la sua prima aspirazione e, non appena se ne sia preso cura, non aspira ad altro che alla riproduzione della specie: più che a questo, in quanto semplice essere naturale, non può aspirare.
- Anche la natura, la cui intima essenza è la stessa volontà di vivere, spinge con tutte le sue forze l’uomo, come l’animale, alla riproduzione della specie. Con il che essa ha raggiunto lo scopo al quale l’individuo le poteva servire, ed è ora del tutto indifferente nei confronti della sua fine, dato che alla natura, come alla volontà di vivere, sta a cuore solamente la conservazione della specie, e per lei l’individuo è niente.
- Poiché nell’istinto sessuale si manifesta nel modo più forte l’intima essenza della natura, la volontà di vivere, i poeti e i filosofi antichi – Esiodo e Parmenide – dissero in modo sensato che Eros è il primo, il creatore, il principio dal quale sono derivate tutte le cose.
- I genitali sono il vero punto cruciale della volontà e, di conseguenza, il polo opposto al cervello, che rappresenta la conoscenza, vale a dire il polo opposto all’altra parte del mondo, rispetto al mondo della rappresentazione. Essi sono il principio della conservazione della vita, assicurano alla vita un tempo senza fine; in quanto dotati di questo carattere, furono venerati dai Greci e dagli Indù. La conoscenza, al contrario, rende possibile la soppressione del volere, la redenzione attraverso la libertà e l’annientamento del mondo.
- Abbiamo mostrato come chi si ponga in modo del tutto consapevole dal punto di vista della più energica affermazione della vita possa guardare la morte in faccia senza paura. La maggior parte degli uomini adotta, senza averne una chiara consapevolezza, questo punto di vista e afferma continuamente la vita.
- Come specchio di tale affermazione c’è il mondo, con innumerevoli individui, posto in un tempo infinito e in uno spazio infinito, e in una infinita sofferenza, tra la generazione e la morte, senza fine. Quanto a questo, tuttavia, non ci si può lamentare da nessun punto di vista, poiché la volontà mette in scena a proprie spese la tragicommedia, e ne è anche l’unica spettatrice. Il mondo è quello che è appunto perché la volontà, della quale è il fenomeno, afferma se stessa; e questa affermazione è giustificata ed equilibrata dal fatto che essa stessa quelle sofferenze le subisce.
§ 61 La giustizia umana
- Ricordiamo che nella natura nel suo complesso, a ogni grado dell’oggettivazione della volontà, c’è necessariamente una continua lotta tra gli individui di tutte le specie, con il che si esprime appunto l’intimo conflitto della volontà di vivere con se stessa. Nel grado più alto dell’oggettivazione anche quel fenomeno si presenterà, come tutti gli altri, con una chiarezza infinitamente maggiore e si lascerà perciò decifrare meglio.
La sorgente dell’egoismo, come luogo d’origine di tutti i conflitti
- Abbiamo detto che tempo e spazio costituiscono il principium individuationis, poiché solo per loro tramite e in loro è possibile la molteplicità dell’identico. Essi sono le forme essenziali della conoscenza naturale, vale a dire di quella conoscenza che scaturisce dalla volontà. Perciò la volontà deve presentarsi dappertutto in una molteplicità di individui.
- Questa molteplicità, tuttavia, non tocca l’in-sé della volontà, ma soltanto i suoi fenomeni: in ciascuno di essi la volontà è presente tutta intera e indivisa, e vede ripetuta innumerevoli volte, tutto intorno a sé, l’immagine della propria esistenza. Ma quest’ultima, che è la realtà autentica, essa la trova immediatamente solo dentro di sé. Per questo ciascuno vuole tutto per sé, vuole possedere tutto, o almeno dominare tutto, e vorrebbe annientare ciò che gli si contrappone.
- A ciò si aggiunga che, negli esseri capaci di conoscenza, l’individuo è il sostegno del soggetto conoscente e che quest’ultimo è il sostegno del mondo; vale a dire che la natura intera sta al di fuori di lui e, di conseguenza, anche che tutti gli altri individui esistono soltanto come contenuto della sua rappresentazione, e che egli ne è cosciente sempre e solo come di una sua rappresentazione, cioè solo mediatamente e come di qualcosa che dipende dalla propria essenza e dalla propria esistenza: con la sua coscienza, infatti, colerebbe necessariamente a picco anche il mondo, vale a dire il suo essere e il suo non-essere diventerebbero equivalenti e inestinguibili.
- Ogni individuo conoscente è dunque in verità e trova se stesso come la volontà di vivere nella sua interezza, o come l’in-sé del mondo medesimo, e anche come la condizione integrante del mondo come rappresentazione e, di conseguenza, come un microcosmo che ha lo stesso valore del macrocosmo. La natura stessa, che è sempre e dappertutto veritiera, gli dà già, originariamente e indipendentemente da ogni riflessione, questa conoscenza semplice e immediatamente certa.
- Ora, in base alle due suddette necessarie determinazioni, si spiega come sia possibile che ciascun individuo, pur essendo così piccolo che, nell’immensità del mondo, sembra scomparire completamente, sembra essere come un nulla, faccia tuttavia di se stesso il centro del mondo e consideri la propria esistenza e il proprio benessere sopra ogni altra cosa, e che anzi, dal punto di vista naturale, sia pronto a sacrificarle ogni altra cosa, ad annientare il mondo solo per conservare un po’ più a lungo il suo proprio io, questa goccia nel mare.
- Questa disposizione è l’egoismo, che è essenziale a ogni cosa nella natura. Ma essa è anche ciò per cui l’intimo conflitto della volontà con sé medesima giunge alla sua più terribile manifestazione. Questo egoismo, infatti, ha il suo fondamento e la sua essenza nel contrasto tra il microcosmo e il macrocosmo, ossia nel fatto che l’oggettivazione della volontà ha come propria forma il principium individuationis, ragion per cui la volontà si presenta, sempre la stessa, in innumerevoli individui e, in verità, essa è in ciascuno di loro intera e completa sotto entrambi gli aspetti (quello della volontà e quello della rappresentazione).
- Mentre dunque ciascuno è immediatamente dato a se stesso come volontà nella sua interezza e come l’intera capacità rappresentativa, gli altri gli sono dati anzitutto solo come sue rappresentazioni; per questo il suo essere e la sua conservazione sono più importanti di tutti gli altri messi assieme.
- Ciascuno di noi vede la propria morte come la fine del mondo, mentre percepisce quella dei suoi conoscenti come qualcosa di abbastanza indifferente, a meno che non siamo per caso interessati personalmente a loro.
- Nella coscienza che si è elevata al grado più alto, ossia nella coscienza umana, anche l’egoismo, come la conoscenza, il dolore, la gioia, deve aver raggiunto il grado più alto, e la conflittualità tra gli individui che esso determina deve manifestarsi nel modo più orribile. Questo ce l’abbiamo di continuo davanti agli occhi, nelle piccole come nelle grandi cose: le guerre e le malvagità che devastano il mondo, talvolta nel suo aspetto ridicolo, e in modo tutto particolare si manifesta nella vanità e nella presunzione. Ma spicca nel modo più chiaro non appena una folla di uomini venga sciolta da ogni legge e da ogni ordinamento: si mostra che non solo ciascuno cerca di strappare all’altro ciò che egli stesso vuole avere, ma che addirittura spesso c’è chi, per aumentare in modo insignificante il proprio benessere, distrugge per intero la felicità o la vita dell’altro. Questa è la massima espressione dell’egoismo, i cui fenomeni, sotto questo aspetto, possono essere superati soltanto dai fenomeni della malvagità vera e propria, la quale, in modo del tutto disinteressato, cerca di danneggiare e di procurare dolore agli altri, senza alcun vantaggio per se stessa.
§ 62 Come combattere la lotta fra tutti gli individui
- Mentre la volontà raffigura l’auto-affermazione del proprio corpo in innumerevoli individui che coesistono l’uno accanto all’altro, essa, in forza di quell’egoismo che è essenzialmente presente in ognuno, può molto facilmente, in un determinato individuo, andare oltre questa affermazione e spingersi sino alla negazione della volontà stessa che si manifesta in un altro individuo.
- La volontà del primo irrompe nell’altrui affermazione della volontà quando l’individuo distrugge o ferisce il corpo altrui, ma anche quando costringe le forze del corpo altrui a servire la propria volontà invece di servire quella volontà che si manifesta in quello stesso corpo altrui; come quando alla volontà che si manifesta sotto la forma del corpo altrui essa sottrae le forze di questo corpo e, così facendo, aumenta la forza che sta al servizio della sua volontà al di là dei limiti del proprio corpo; e, in questo modo, afferma la propria volontà al di là del proprio corpo mediante la negazione della volontà che si manifesta in un corpo estraneo.
- Questa irruzione entro i confini dell’altrui affermazione della volontà è stata conosciuta con chiarezza sin dai tempi più remoti, e il suo concetto è stato contrassegnato con la parola ingiustizia.
L’ingiustizia
- Poiché entrambe le parti riconoscono istantaneamente la cosa, e in verità non come l’abbiamo riconosciuta qui, con la chiarezza dell’astrazione, ma come sentimento.
- Chi subisce ingiustizia sente che qualcosa irrompe nella sfera dell’affermazione del proprio corpo attraverso la negazione che essa subisce da parte di un individuo estraneo; e la sente come un dolore immediato e spirituale, del tutto separato e diverso dalla sofferenza fisica che prova nello stesso tempo a causa dell’azione, o dal dispiacere dovuto al danno subito.
- Quanto a chi esercita l’ingiustizia, d’altra parte, si riconosce che costui è in sé la medesima volontà che si manifesta anche nel campo dell’altro e che si afferma in uno dei fenomeni con tale veemenza che, eccedendo i confini del proprio corpo e delle sue forze, diventa, nell’altro fenomeno, negazione proprio di questa volontà: ne segue che egli, considerato come volontà in sé, combatte con veemenza proprio contro se stesso, dilania se stesso. Anche a lui, dico, questa conoscenza si rende istantaneamente chiara non in astratto, ma come un sentimento oscuro: e questo lo si chiama rimorso o, più esattamente nel nostro caso, sentimento dell’ingiustizia commessa.
- L’ingiustizia di cui abbiamo analizzato il concetto si esprime in concreto nell’assassinio e addirittura in qualunque colpo inferto in modo consapevole al corpo altrui. Inoltre l’ingiustizia si manifesta nel soggiogamento dell’altro individuo, nella sua costrizione alla schiavitù sia fisica che psichica e infine all’attacco contro la proprietà altrui la quale, ove la si consideri come il frutto del suo lavoro, è, in sostanza, affine alla riduzione in schiavitù e con essa nella stessa relazione in cui una semplice ferita sta con l’assassinio.
- La proprietà che non può essere sottratta all’uomo senza ingiustizia può essere solo quella che egli ha lavorato con le proprie forze: se essa gli viene sottratta, perciò, le forze del suo corpo vengono sottratte alla volontà che si è oggettivata in un altro corpo. Poiché chi esercita l’ingiustizia aggredendo non il corpo altrui, ma una cosa inanimata, del tutto diversa da quel corpo, irrompe ugualmente nella sfera dell’altrui affermazione della volontà in quanto si può dire che insieme a questa cosa siano cresciute anche le forze e il lavoro del corpo altrui, che hanno finito per identificarsi con essa. Segue da ciò che ogni diritto di proprietà genuino, ossia morale, si fonda originariamente soltanto sul lavoro.
- È così chiaro e facile da capire che non si dà alcuna legittima presa di possesso, ma solo una legittima appropriazione, una acquisizione della cosa mediante l’impiego delle forze che originariamente ci sono proprie. Quando cioè una cosa viene lavorata, migliorata, messa al riparo dai rischi, custodita grazie a una sia pur minima qualsiasi fatica altrui, quand’anche questa fatica fosse solo quella di cogliere dal ramo o di sollevare dal suolo un frutto selvatico, è evidente che chi prende questa cosa sottrae all’altro il frutto del lavoro che costui vi ha speso e fa sì che il corpo di costui sia al servizio della sua volontà anziché della propria, afferma la propria volontà al di là dei limiti del fenomeno che le è proprio fino a negare la volontà dell’altro insomma, e perciò commette un’ingiustizia.
- Il diritto di proprietà moralmente fondato dà per sua natura al possessore un potere sulla cosa posseduta che è illimitato come quello che egli detiene sul proprio corpo; ne segue che egli, attraverso uno scambio o una donazione, può trasferirne la proprietà ad altri, i quali entrano in possesso della cosa con il medesimo diritto morale su di essa.
La violenza e l’astuzia
- Per ciò che concerne la perpetrazione dell’ingiustizia, essa può accadere o attraverso una violenza, o per un’astuzia; da un punto di vista morale esse, in un certo senso, sono sostanzialmente la stessa cosa. Gli ulteriori casi di ingiustizia possono essere ricondotti tutti al fatto che io, in quanto esercito l’ingiustizia, costringo l’altro, che mi è estraneo, a servire la mia volontà anziché la propria. Sulla via della violenza, questo risultato lo raggiungo per mezzo della causalità fisica; sulla via dell’astuzia, invece, mediante la motivazione, vale a dire mediante quella causalità che si realizza per mezzo della conoscenza.
La menzogna
- Dato che il terreno nel quale si trovano i motivi è la conoscenza, io posso conseguire il mio scopo solo falsificando la conoscenza dell’altro: questa falsificazione è la menzogna. Essa mira sempre a esercitare un’influenza sulla volontà altrui, non solo sulla sua conoscenza in sé e come tale, ma sulla conoscenza come mezzo, ossia in quanto determina la sua volontà. Il mio stesso mentire, infatti, in quanto proviene dalla mia volontà, ha bisogno a sua volta di un motivo; ma tale motivo può essere soltanto l’altrui volontà, non l’altrui conoscenza in sé e per sé, dato che quest’ultima, come tale, non può avere alcun influsso sulla mia volontà, e di conseguenza non può stimolarla in alcun modo, né costituire un motivo per i suoi scopi: possono esserlo invece solo il volere e l’agire altrui, e dunque, di conseguenza solo indirettamente, la conoscenza altrui. Questo vale non solo per tutte le menzogne scaturite da un evidente interesse personale, ma anche per quelle che sono scaturite da una pura malvagità che abbia voluto godere delle conseguenze dolorose dell’errore altrui da essa provocato.
- Da ciò che si è detto segue che ogni menzogna, come ogni prepotenza, è in quanto tale ingiustizia, poiché essa ha già come tale lo scopo di estendere il dominio della mia volontà su quella degli altri individui, ossia di affermare la mia volontà attraverso la negazione della loro, proprio come fa la violenza.
- La menzogna più compiuta è però la rottura di un patto; in questo caso, infatti, tutte le determinazioni menzionate si trovano raccolte insieme in modo completo e chiaro. Perché, quando stringo un patto, la prestazione che l’altro mi promette è immediatamente e per esplicita ammissione il motivo per cui la mia subito la segue. Le promesse reciproche vengono scambiate dopo attenta considerazione e in modo formale. La verità della dichiarazione fatta da ciascuno e l’accettazione che ne segue si trovano in suo potere. Se l’altro rompe il patto, mi ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza motivi solo apparenti, ha diretto la mia volontà secondo il proprio intento, ha esteso il dominio della sua volontà sull’altro, compiendo perciò una vera e propria ingiustizia. Si fondano su questo la legittimità morale e la validità dei contratti.
La giustizia
- Il concetto di ingiustizia è originario e positivo, mentre quello contrapposto di giustizia è un concetto derivato e negativo. Infatti, se non si fosse data alcuna ingiustizia, non avremmo mai parlato di giustizia.
- Il concetto di giustizia contiene cioè che la pura negazione dell’ingiustizia e in esso viene sussunta ogni azione che non sia una negazione della volontà altrui avente lo scopo di affermare in modo più incisivo la propria.
- Quel confine suddivide dunque, dal punto di vista di una semplice determinazione morale, l’intero campo delle azioni possibili in due ambiti, quello delle azioni ingiuste e quello delle azioni giuste.
- Perché un’azione non si intrometta, negandola, nella sfera dell’affermazione della volontà altrui, essa non è un’azione ingiusta. Perciò, per esempio, rifiutare aiuto quando qualcuno ne abbia urgente necessità, stare a guardare impassibili chi muore di fame mentre si abbia il superfluo è in effetti qualcosa di crudele e diabolico, ma non è ingiusto: l’unica cosa che si può dire con assoluta certezza è che chi è capace di spingere la propria insensibilità e la propria durezza sino a questo punto saprà certo compiere anche qualsiasi ingiustizia non appena i suoi desideri lo esigano e non vi sia alcuna costrizione che glielo impedisca.
- Il concetto di giustizia come negazione dell’ingiustizia ha però trovato la sua applicazione principale – e, senza dubbio, anche la sua origine prima – nei casi in cui un tentativo di ingiustizia venga impedito con la violenza.
- Questo impedimento non può costituire a sua volta un’ingiustizia, ma è invece giustizia, anche se la prepotenza che è necessaria per metterlo in atto, considerata puramente in se stessa e isolatamente dal contesto, sarebbe effettivamente un’ingiustizia e qui viene giustificata solo dal suo motivo, che è ciò che la fa diventare giustizia.
Il diritto di coercizione
- Irrompendo un’azione violenta dall’esterno essa può essere respinta con una reazione che prevalga su di essa, e così facendo non si commette alcuna ingiustizia. Tutto ciò che accade per opera mia si trova infatti sempre solo nella sfera dell’affermazione della volontà che appartiene essenzialmente alla mia persona come tale (sfera che è il teatro della battaglia), è già espressa in essa e non irrompe nella sfera altrui: ne segue che essa è solo la negazione della negazione, ossia affermazione. Io posso così, senza ingiustizia, costringere la volontà altrui che nega la mia volontà (la quale si manifesta nel mio corpo e ne utilizza le forze per la propria conservazione, e dunque senza che io neghi una volontà altrui che si mantenga entro i propri limiti) a desistere da questa negazione: vale a dire che io, entro questi limiti, godo di un diritto di coercizione.
- In tutti i casi in cui io godo si un diritto di coercizione, di un diritto pieno di impiegare contro gli altri la violenza, posso anche, a seconda delle circostanze, contrapporre alla violenza altrui anche l’astuzia, senza con ciò commettere ingiustizia, e ho di conseguenza un vero e proprio diritto alla menzogna, nella stessa misura in cui ho un diritto alla coercizione. I confini della giustizia e dell’ingiustizia si sfiorano.
La condotta umana
- Da tutto ciò sopra esposto risulta dunque che ingiustizia e giustizia sono semplici determinazioni morali, ossia che la loro validità concerne la considerazione della condotta umana in quanto tale e si riferisce all’intimo significato di questa condotta in sé.
- Tale validità si rende nota in modo immediato nella coscienza, in primo luogo poiché l’agire in modo ingiusto si accompagna a un dolore profondo che, in chi commette l’ingiustizia, è la coscienza, semplicemente sentita, della forza smisurata con cui si afferma in lui stesso la volontà, giungendo fino al punto di negare l’altrui fenomeno della volontà, come anche del fatto che egli è sì distinto in quanto fenomeno da colui che patisce la violenza, ma in se stesso invece è identico a lui.
- Dall’altro lato chi patisce l’ingiustizia ha la dolorosa coscienza della negazione della propria volontà, come essa è già espressa attraverso il suo corpo e i suoi bisogni naturali, per la soddisfazione dei quali la natura impiega le forze di questo stesso corpo; ed è anche consapevole del fatto che, se non gliene mancassero le forze, egli, senza commettere ingiustizia, potrebbe respingere in tutti i modo quella negazione. Questo puro significato morale è l’unico che giustizia e ingiustizia abbiano per l’uomo in quanto uomo, e non in quanto cittadino; l’unico quindi che sussisterebbe anche nello stato di natura, in assenza di qualsiasi legge positiva, e che costituisce il fondamento e il contenuto di tutto ciò che, per questa ragione, ha preso il nome di diritto naturale, ma che sarebbe meglio chiamare diritto morale, dato che la sua validità non si estende al soffrire, alla realtà esterna, ma solo all’agire e all’auto-conoscenza della propria volontà individuale che esso desta nell’uomo; una conoscenza che si chiama coscienza e che, nello stato di natura, non può però farsi valere in ciascun caso anche dall’esterno, su altri individui e non può impedire che la violenza regni in luogo della giustizia.
- Nello stato di natura, cioè, dipende da ciascuno soltanto di agire in ogni circostanza senza commettere ingiustizia, ma non dipende in alcun modo da noi di evitare in ciascun caso di patire l’ingiustizia, poiché questo è legato all’entità della forza esteriore che ci è toccata in sorte.
- Perciò i concetti di giusto e ingiusto valgono in effetti anche per lo stato di natura, e non sono in alcun modo convenzionali; ma lì essi valgono solo come concetti morali, per l’auto-conoscenza che ciascuno ha della propria volontà. Vale a dire che essi sono, nella scala dei diversi gradi di intensità con cui la volontà di vivere si afferma negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di congelamento del termometro, cioè il punto dove l’affermazione della propria volontà diventa negazione della volontà altrui: ciò significa che, agendo ingiustamente, indica il grado della sua violenza insieme a quello in cui la conoscenza è immersa nel pregiudizio del principium individuationis (il quale è la forma di quella conoscenza che è posta per intero al sevizio della volontà).
- La pura dottrina del diritto è dunque un capitolo della morale e si riferisce direttamente solo all’agire, non al subire. Poiché solo l’agire è espressione della volontà, e solo quest’ultima viene presa in considerazione dalla morale. Il subire è solo un accadimento accidentale: la morale può prendere in considerazione il subire solo in modo indiretto, vale a dire solo per dimostrare che ciò che viene fatto allo scopo di non subire ingiustizia non è in alcun modo un atto ingiusto.
Il patto sociale
- Abbiamo visto che una parte molto ampia della sofferenza che appartiene essenzialmente alla vita umana ha nel contrasto fra gli individui la sua sorgente inesauribile.
- Tutti questi individui hanno però in comune la ragione, la quale fa sì che essi non conoscano, come invece accade agli animali, soltanto il caso singolo, ma anche astrattamente l’organicità complessiva dell’intero; essa ha presto insegnato loro a conoscere la sorgente di quella sofferenza e ha fatto considerare loro i mezzi per diminuirla o, ove sia possibile, di eliminarla per mezzo di un sacrificio comune, che è però più che compensato dal vantaggio generale che ne deriva.
- Questo mezzo che, utilizzando la ragione, procedendo metodicamente e abbandonando il proprio punto di vista unilaterale, l’egoismo ha facilmente escogitato e a poco a poco perfezionato è il patto sociale, o la legge.
- L’origine che io qui gli attribuisco è stata già esposta da Platone nella Repubblica. Essa è infatti l’unica davvero essenziale e che sia posta dalla natura stessa della cosa. Né lo Stato può averne avuta un’altra, da nessuna parte, poiché a renderlo uno Stato è anzitutto proprio il fatto che si costituisce in questo e per raggiungere tale scopo; ragion per cui è indifferente se in un popolo determinato vi sia stata una condizione precedente nella quale vi era una massa di selvaggi indipendenti l’uno rispetto all’altro (anarchia), oppure una nella quale c’era una massa di schiavi dominati dall’arbitrio del più forte (dispotismo). Nell’un caso come nell’altro non c’era proprio nessuno Stato: lo Stato sorge solo in forza di quell’accordo generale, e sarà poi più o meno perfetto a seconda che tale accordo sia più o meno libero dall’anarchia e dal dispotismo.
- Ora, se la morale mira esclusivamente all’agire giustamente o ingiustamente e può, a chi sia per caso deciso a non commettere alcuna ingiustizia, segnalare con esattezza i confini delle sue azioni, la dottrina dello Stato, la scienza della legislazione, invece ha di mira unicamente il patire ingiustizia, e non so preoccuperebbe mai del commettere ingiustizia se non fosse per il correlato necessario di quest’ultimo, che è appunto quel patire l’ingiustizia che costituisce quasi il nemico contro il quale essa combatte, l’oggetto al quale essa rivolge la sua attenzione.
- Lo Stato non si dà affatto pensiero della volontà e dell’intenzione come tali, ma solo dell’atto (sia poi esso soltanto tentato o condotto a termine), per via del suo correlato, ossia della sofferenza che esso provoca dall’altra parte.
- Quindi lo Stato non proibirà a nessuno di avere sempre in mente l’idea di assassinare o di avvelenare qualcuno, purché abbia la certezza che il timore della sua forza sono in grado di impedire in ogni circostanza che quel volere produca delle conseguenze.
- Lo Stato inoltre non ha affatto il folle proposito di estirpare l’inclinazione per l’ingiustizia e i propositi malvagi; vuole solo, invece, mettere accanto a ogni possibile motivo che induca a compiere un’ingiustizia un motivo più forte che induca a tralasciarla, e questo motivo è costituito dalla inevitabilità della punizione: è per questo che il codice penale è un elenco, il più possibile completo, di contro-motivi a tutte le azioni criminose che si presume siano possibili.
- È un errore credere che lo Stato sia un’istituzione che ha il compito di promuovere la moralità, che nasca da una tensione verso di essa e che sia, quindi, diretto contro l’egoismo. Come se l’intima intenzione, alla quale soltanto si addicono la moralità o l’immoralità, o la volontà sempre libera si potessero modificare dall’esterno e potessero diventare diverse da ciò che sono per un’influenza esterna! Ancora più assurdo è il teorema secondo il quale lo Stato è la condizione della libertà in senso morale, e quindi della moralità, dato che la libertà si trova invece al di là del fenomeno, e quindi ancor più al di là delle istituzioni umane.
- Lo Stato non è dunque in nessun modo diretto contro l’egoismo, ma solo contro le conseguenze dannose che l’egoismo produce, le quali, radicate come sono nella moltitudine degli individui egoisti, vanno a svantaggio di tutti loro e ne disturbano il benessere, quel benessere che è lo scopo al quale mira lo Stato.
- La legislazione prende a prestito dalla morale la dottrina del diritto puro, ossia la dottrina dell’essenza e dei limiti della giustizia e dell’ingiustizia, per adoperarla a rovescio secondo i propri fini, che sono estranei alla morale e, in conformità a ciò, istituire la legislazione positiva e i mezzi per conservarla, vale a dire lo Stato.
- Solo quando la legislazione positiva è, nell’essenza, universalmente determinata dalla guida della dottrina del diritto puro e quando per ognuna delle sue sanzioni c’è un fondamento che si lascia dimostrare dalla dottrina del diritto puro, si può dire che la legislazione che così si è formata sia propriamente un diritto positivo e lo Stato un’autentica società giuridica, uno Stato nel vero senso della parola, un’istituzione moralmente ammissibile e non immorale.
- I punti più importanti della dottrina del diritto puro, così come la filosofia deve trasmetterli, per quegli scopi, alla legislazione, sono i seguenti:
- spiegazione del significato profondo e proprio dell’origine dei concetti dell’ingiusto e del giusto, del loro impiego e del posto che occupano nella morale;
- la dedizione del diritto di proprietà;
- la deduzione del valore morale dei contratti, dato che questo è il fondamento morale del patto sociale;
- la spiegazione dell’origine e dello scopo dello Stato, della relazione di questo scopo con la morale e del trasferimento che ne risulta della dottrina morale del diritto, attraverso un rovesciamento, alla legislazione;
- la deduzione del diritto penale.
Il resto del contenuto della dottrina del diritto altro non è che l’applicazione di questi principi, una determinazione più precisa dei confini del giusto e dell’ingiusto per tutte le possibili situazioni della vita, le quali vengono perciò riunite e distribuite sotto specifici punti di vista e titoli.
Il diritto penale
- Al di fuori dello stato non di dà alcun diritto penale. Ogni diritto di punire è fondato unicamente sulla legge positiva, la quale prima che l’atto venga compiuto ha stabilito per esso una punizione, la cui minaccia, in quanto contro-motivo, dovrebbe prevalere su tutti i possibili motivi di quell’atto. Questa legge positiva va considerata come una legge sancita e riconosciuta da tutti i cittadini dello Stato. Si fonda quindi su un patto comune, al cui adempimento in ogni circostanza, e dunque all’esecuzione della pena da una parte e alla sopportazione della stessa dall’altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò la pena può essere imposta con diritto.
- Ne segue che lo scopo immediato della punizione nel singolo caso è l’adempimento della legge come contratto. L’unico scopo della legge, però, è incutere timore, affinché non vengano violati i diritti altrui: infatti è per mettere ciascuno al riparo dalla possibilità di subire ingiustizia che ci si è uniti nello Stato, che si è rinunciato a commettere ingiustizia che ci si è assunti il peso di mantenere lo Stato stesso.
- Dunque, la legge e la sua esecuzione, la punizione, sono dirette essenzialmente al futuro, non al passato. È questo che distingue la punizione dalla vendetta, la quale ultima è motivata soltanto da ciò che è già accaduto, dunque dal passato in quanto tale.
- L’aver di mira il futuro è ciò che distingue la punizione dalla vendetta, e la punizione ha questa caratteristica quando viene applicata in esecuzione di una legge, la quale solo in quanto si annuncia come inevitabile in ogni caso a venire conferisce alla legge quella forza di intimidazione che costituisca appunto il suo scopo.
§ 63 La giustizia eterna
- Abbiamo conosciuto la giustizia temporale, che ha la sua sede nello Stato e che ha una funzione compensatrice o punitrice, e abbiamo anche visto che essa diventa giustizia solo riguardo al futuro; dato che senza tale riguardo qualsiasi punizione e qualsiasi compensazione di un delitto resterebbero prive di giustificazione, anzi, non sarebbero altro che l’aggiunta di un secondo male a quello che è già accaduto, senza senso e senza significato.
- Le cose vanno del tutto diversamente con la giustizia eterna, che regge non lo Stato, ma il mondo stesso, non dipende da ordinamenti umani, non è sottomesso al caso e all’inganno, non è mai insicura, vacillante ed errante, ma è invece infallibile, ferma e sicura.
- Il concetto di compensazione racchiude già in sé il tempo: perciò la giustizia eterna non può essere una giustizia compensativa e non può nemmeno, come la giustizia temporale, concedere rinvii e stabilire scadenze ed equilibrare solo mediante il tempo l’azione cattiva con le cattive conseguenze, né aver bisogno del tempo per sussistere. La punizione deve essere qui così legata alla trasgressione da fare tutt’uno con essa.
La volontà è libera e onnipotente
- Il fenomeno, l’oggettità dell’unica volontà di vivere, è il mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e delle sue forme. L’esistenza stessa e le varietà dell’esistenza, nell’intero come in ciascuna delle parti, sono costituite unicamente dalla volontà. Essa è libera, è onnipotente. In ogni cosa la volontà si manifesta proprio come essa stessa si determina in sé e al di fuori del tempo.
- Il mondo è solo lo specchio di questo volere: ogni finitezza, ogni sofferenza, ogni tormento che il mondo contiene appartengono all’espressione di ciò che il volere vuole, sono così come sono perché così li vuole la volontà. Perciò la più severa legge di giustizia è che ciascun essente porti su di sé il peso dell’esistenza in generale, e quindi dell’esistenza della propria specie e quella della propria individualità particolare, esattamente così come essa è e nelle condizioni in cui esse sono, in un mondo così com’è, governato dal caso e dall’errore, segnato dal tempo, perituro, continuamente sofferente: qualsiasi cosa gli capiti, qualsiasi cosa gli possa capitare, gli accade sempre secondo giustizia.
- Poiché sua è la volontà: e come la volontà è, così è il mondo. La responsabilità dell’esistenza e della condizione di questo mondo può portarla solo la volontà stessa, nessun altro: come potrebbe un altro averla su di sé?
- Se si vuol sapere in tutto e per tutto che cosa sono gli uomini, considerati dal punto di vista morale, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso è mancanza, miseria, disgrazia, tormento e morte. La giustizia eterna regna sovrana: se essi, presi tutti insieme, non fossero e non valessero così poco, nemmeno il loro destino, considerato nell’insieme, sarebbe così triste. In questo senso possiamo dire: il tribunale del mondo è il mondo stesso.
- Se si potessero mettere su uno solo dei piatti della bilancia tutte le sofferenze del mondo, e sull’altro tutta la colpa del mondo, la bilancia rimarrebbe certamente in equilibrio.
Il velo di Maya
- Non c’è dubbio, però, che alla conoscenza dell’individuo in quanto tale, così come è scaturita dalla volontà che la genera per porla al proprio servizio, il mondo non si presenta così come da ultimo si svela all’osservatore, come l’oggettità dell’unica e sola volontà di vivere che egli stesso è: il velo di Maya, come lo chiamano gli Indiani, offusca lo sguardo dell’individuo incolto; a costui, invece della cosa in sé, si mostra solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nel principium individuationis e nelle restati forme del principio di ragione; in questa forma la sua conoscenza limitata non vede l’essenza delle cose, che è una sola, ma i suoi fenomeni, che sono distinti, separati, innumerevoli, molto diversi gli uni dagli altri, addirittura contrapposti.
- Allora gli sembra che la voluttà sia una cosa e il tormento un’altra del tutto diversa; quest’uomo qui gli sembra un persecutore e un assassino, quell’altro il perseguitato e la vittima; la cattiveria gli sembra una cosa, il male patito un’altra. Vede qualcuno vivere nella gioia, nell’abbondanza e nel piacere, e allo stesso tempo vede altri che muoiono fra i tormenti della fame e del freddo davanti alla sua porta. Allora si chiede: dov’è qui la giusta compensazione? Ed egli stesso, nella violenza dell’impulso della volontà, che è la sua origine e la sua essenza, si aggrappa alla voluttà e ai piaceri della vita, si tiene stretto a essi con tutte le proprie forze, e non sa che proprio con questo atto della sua volontà egli afferra e stringe forte a sé tutti quei dolori e quei tormenti della vita alla cui vista rabbrividisce.
- Vede la sofferenza, vede la malvagità del mondo: ma, lungi dal riconoscere che l’una e l’altra altro non sono che facce diverse del fenomeno dell’unica volontà di vivere, le prende per due realtà molto diverse, addirittura contrapposte, e spesso cerca attraverso la malvagità, vale a dire causando sofferenza ad altri, di sfuggire al male, alla sofferenza del proprio essere individuale, prigioniero del principium individuationis, ingannato dal velo di Maya.
- Il singolo uomo sta tranquillo nel mezzo di un mondo pieno di tormenti, appoggiandosi con fiducia al principium individuationis, ossia al modo in cui l’individuo conosce le cose in quanto fenomeni. Il mondo sconfinato, pieno ovunque di sofferenze nell’infinito passato e nell’infinito futuro, gli rimane estraneo, anzi, lo considera una vera e propria fiaba: la sua microscopica persona, il suo presente privo di estensione, il suo star bene che dura lo spazio di un istante, solo essi, per lui, hanno realtà, ed egli fa di tutto per conservarli, fino a quando una conoscenza migliore non gli apra gli occhi. Fino a quel momento vive a malapena nella più nascosta profondità della sua coscienza il presentimento del tutto oscuro che quel mondo non gli sia poi così estraneo, ma che abbia con lui una relazione dalla quale il principium individuationis non lo può proteggere.
- Da questo presentimento discende quell’orrore indicibile e comune a tutti gli uomini (e forse addirittura anche agli animali più intelligenti), che li afferra repentinamente quando, per un caso qualsiasi, smarriscono il principium individuationis, quando il principio di ragione, in una qualsiasi delle sue forme, sembra subire un’eccezione: per esempio, quando sembra che un cambiamento si produca da sé, senza causa, o che un morto ritorni in vita, o che in una qualsiasi maniera il passato o il futuro diventino presenti, o il lontano diventi vicino.
- L’enorme terrore per questo genere di cose si fonda sul fatto che ci troviamo improvvisamente smarriti di fronte a qualcosa che esula dalle forme conoscitive del fenomeno, che sono le sole a tener distinto il loro proprio individuo dal resto del ondo. Questa separazione, però, si trova appunto solo nel fenomeno e non nella cosa in sé; ed è proprio su questo che si basa la giustizia eterna.
- In effetti ogni gioia temporale si basa, e ogni saggezza si muove, su un terreno minato. Esse proteggono la persona dalle sventure e le procurano i piaceri; ma la persona è un mero fenomeno, e la sua diversità dagli altri individui e il suo essere libera dalle sofferenze che gli altri sopportano dipendono dalla forma del fenomeno, dal principium individuationis. Per la conoscenza che guarda attraverso tale principio una vita felice nel tempo, donata dal caso, o strappata a esso con intelligenza in mezzo a innumerevoli sofferenze altrui, non è altro che il sogno di un mendicante che crede di essere un re, per apprendere però, al risveglio, che solo una fuggevole illusione l’aveva separato dalle sofferenze della sua vita.
- Allo sguardo che si limita alla conoscenza che segue il principio di ragione, al principium individuationis, la giustizia eterna si sottrae: quello sguardo non si avvede della sua mancanza, tranne nel caso in cui la sostituisca con delle finzioni.
- Vede che il malvagio, dopo aver commesso misfatti e crudeltà di ogni genere, vive felice e se ne va indisturbato dal mondo. Vede l’oppresso trascinare con fatica sino alla fine una vita piena di sofferenze, senza che si faccia avanti un vendicatore, un giustiziere. Ma la giustizia eterna sarà compresa e afferrata solo da chi sappia elevarsi al di sopra di quella conoscenza che progredisce seguendo il filo conduttore del principio di ragione e che è legata ai singoli oggetti; da chi conosca le idee, sappia guardare attraverso il principium individuationis, e si accorga che alla cosa in sé non toccano le forme del fenomeno. Solo costui, in virtù della conoscenza stessa, è in grado di comprendere la vera essenza della virtù sebbene per l’esercizio della stessa questa conoscenza astratta non sia in alcun modo richiesta. A chi dunque è pervenuto alla conoscenza suddetta risulterà chiaro che, poiché la volontà è l’in-sé di tutti i fenomeni, il tormento che è inflitto ad altri e quello che soffriamo personalmente, la malvagità e il dolore, colpiscono sempre e solo una e una medesima essenza, anche se i fenomeni in cui l’uno e l’altro si manifestano sussistono come individui del tutto distinti o addirittura separati da grandi intervalli di tempo e di spazio.
- Costui vedrà inoltre che la diversità tra chi infligge le sofferenze e chi le deve sopportare riguarda solo il fenomeno e non tocca la cosa in sé, che è la volontà che vive in entrambi, la quale qui, ingannata dalla conoscenza legata al suo servizio, non riconosce se stessa e cerca in uno dei suoi fenomeni un accrescimento del benessere, mentre nell’altro produce una grande sofferenza, e così, spinta da un impulso violento, conficca i denti nella sua stessa carne, non sapendo che, così facendo, ferisce sempre e solo se stessa, rendendo palese in questo modo, attraverso il medium dell’individuazione, quella conflittualità con se stessa che porta nella propria interiorità più profonda. Il tormentatore e il tormentato sono una cosa sola.
- È muovendo da questa conoscenza che il poeta visionario Calderón, nel suo La vita è sogno, dice: «Poiché il delitto più grande dell’uomo è l’essere nato». E come potrebbe non essere una colpa, dato che per una legge eterna su di esso incombe la morte? Calderón non ha fatto che esprimere, in quei versi, il dogma cristiano del peccato originale.
§ 64 la conoscenza sul piano del sentimento
- Voglio solo, a questo punto, richiamare l’attenzione su due particolari caratteristiche della natura umana, le quali possono contribuire a chiarire come ciascuno sia consapevole, quanto meno per una sorta di un sentimento oscuro, dell’essenza di quella giustizia eterna e dell’unità e identità della volontà in tutte le manifestazioni fenomeniche su cui essa si basa.
- In modo del tutto indipendente allo scopo che lo Stato persegue con lo strumento della pena, scopo sul quale si basa il diritto penale, vedere che un’azione malvagia, una volta commessa, viene punita dà soddisfazione non solo a chi è stato offeso, il quale per lo più è animato da sete di vendetta, ma anche allo spettatore più disinteressato, il quale vede che chi ha procurato ad altri un dolore patisce a sua volta un dolore della stessa entità.
- Mi pare che qui non si esprima nient’altro che la coscienza di quella giustizia eterna, la quale tuttavia viene subito fraintesa e falsata da una mente non purificata, in quanto, confusa nel principium individuationis, essa cade in una ambiguità interpretativa di concetti e pretende dal fenomeno ciò che compete unicamente alla cosa in sé, e non è in grado di comprendere fino a che punto in sé l’offensore e l’offeso siano una cosa sola e fino a che punto sia la medesima essenza che, non riconoscendo se stessa nel proprio fenomeno, porta su di sé tanto il tormento quanto la colpa; esige invece piuttosto di rivedere in quello stesso individuo al quale tocca la colpa anche il tormento.
- Che però una coscienza più profonda, non più prigioniera del principium individuationis, dalla quale deriva ogni virtù e ogni nobiltà d’animo, non si curi più di perseguire questo sentimento di rappresaglia, lo dimostra già l’etica cristiana, che proibisce del tutto di ricambiare male con male e far valere la giustizia eterna come se fosse nel dominio, diverso da quello del fenomeno, della cosa in sé.
§ 65 Il significato etico dell’azione
- Attraverso le precedenti considerazioni svolte a proposito delle azioni umane, ci siamo aperti la strada per la considerazione conclusiva che consiste nell’elevare a chiarezza astratta e filosofica l’autentico significato etico dell’azione, quello che nella vita viene indicato per mezzo delle parole buono e cattivo, con le quali ci si intende alla perfezione.
Il significato di buono e cattivo
- Vogliamo ora ricondurre il concetto di buono al proprio significato, e lo possiamo fare con poche parole. Si tratta di un concetto essenzialmente relativo che indica la conformità di un oggetto a una qualunque aspirazione determinata della volontà. Quindi tutto ciò che va a genio alla volontà in una qualunque delle sue manifestazioni, tutto ciò che soddisfa il suo scopo, viene pensato per mezzo del concetto di buono, per quanto possa essere per il resto molto diversificato. Il breve, chiamiamo buono tutto ciò che è proprio così come noi vogliamo che sia; ed è per questo che per uno può essere buono ciò che per un altro è addirittura l’opposto.
- Il concetto di buono si suddivide in due sottospecie, quella della soddisfazione immediata nel presente e quella della soddisfazione mediata, ossia trasferita nel futuro, della volontà, vale a dire il piacevole e l’utile.
- Il concetto opposto, sino a che si parla di esseri privi di conoscenza, viene espresso con la parola cattivo, e più raramente e più astrattamente con la parola male, che indica dunque tutto ciò che non va a genio a una qualsiasi aspirazione della volontà.
- Come tutti gli altri esseri che possono entrare in relazione con la volontà, anche gli uomini si dimostrano favorevoli ai nostri fini, utili, amichevoli, possono essere chiamati buoni nello stesso senso e sempre con un’accezione relativa.
- Dunque, muovendo in tutto e per tutto dal lato passivo del buono, la trattazione poteva rivolgersi solo in un secondo tempo al lato attivo per ricercare quale sia il tipo di condotta dell’uomo che viene definito buono non più in rapporto agli altri, ma in rapporto a se stesso, in modo particolare spiegando da una parte la stima puramente oggettiva che tale condotta suscita con ogni evidenza negli altri, dall’altra parte la particolare soddisfazione di sé che ciascuno prova con altrettanta evidenza, soprattutto quando se la conquista con sacrifici di vario genere; e anche, al contrario, spiegando il dolore profondo che si accompagna alle intenzioni malvagie, per quanto grandi possano essere i vantaggi esteriori che procurino a chi le nutre dentro di sé.
- Entrambi cercano sempre di stabilire una qualche connessione tra felicità e virtù: i primi per mezzo o del principio di non contraddizione o anche di quello di ragione, facendo della felicità o un che di identico alla virtù o una sua conseguenza, sempre in modo sofistico; i secondi, invece, affermano l’esistenza di altri mondi, diversi da quelli che l’esperienza può a suo modo conoscere. Al contrario, l’intima essenza della virtù si mostrerà come un’aspirazione che va in una direzione del tutto opposta rispetto a quella della felicità, ossia del benessere e della vita.
- Segue da ciò che il bene, essendo qualcosa in relazione a qualcos’altro, è relativo a una particolare volontà: la sua essenza cioè consiste nella sua relazione con una volontà che desidera.
- Un bene assoluto è perciò una contraddizione in termini: sommo bene significa la stessa cosa, ossia propriamente una soddisfazione finale della volontà dopo la quale non dovrebbe più subentrare alcun nuovo volere, un motivo ultimo la cui realizzazione appaghi in modo definitivo la volontà.
- Un bene di questo genere non lo si può nemmeno concepire. Non c’è soddisfazione che possa impedire alla volontà di ricominciare a volere sempre di nuovo, più di quanto non ci sia una fine o un inizio del tempo: una saturazione durevole della volontà, che possa soddisfare perfettamente e per sempre il suo aspirare, non esiste. Essa è la botte delle Danaidi.
- Se poi volessimo mantenere, a titolo onorifico, un’antica espressione alla quale, per abitudine, non vogliamo rinunciare del tutto, considerandola emerita, allora potremmo definire il bene assoluto, il summum bonum, in senso figurato e metaforico, come la completa auto-soppressione e la completa negazione del volere, la vera assenza di volontà – quell’assenza che è la sola che possa calmare e placare per sempre l’impeto della volontà, la sola che dia quella contentezza che non può più essere turbata, la sola che liberi dal mondo -, e lo considereremo come l’unico rimedio radicale della malattia, di contro alla quale tutti gli altri beni, ossia tutti i desideri soddisfatti e tutte le gioie conseguite, altro non sono che palliativi, dei calmanti. Il questo senso corrisponderebbe meglio al senso della cosa la parola greca telós, come anche il latino finis bonorum.
- Se un uomo, non appena se ne presenti l’occasione e nessuna forza esterna lo trattenga, inclina sempre a commettere ingiustizia, noi lo chiamiamo cattivo.
- Ciò significa che un uomo di questo genere non solo afferma la volontà di vivere così come essa si manifesta nel suo corpo, ma in questa affermazione si spinge così lontano da negare la volontà di vivere di altri individui. La fonte ultima ultima di ciò è il grado più alto dell’egoismo.
- Due cose risultano qui subito evidenti:
- che in un uomo di questo genere si esprime una volontà di vivere oltremodo violenta, che va bene al di là dell’affermazione della sua stessa esistenza corporea;
- che la sua conoscenza, completamente consegnata al principio di ragione e irretita nel principium individuationis, rimane ferma, in forza di esso, alla completa distinzione fra la propria persona e tutte le altre; perciò costui cerca solo il proprio benessere ed è del tutto indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere gli risulta piuttosto completamente estraneo, separato dal suo da un profondo abisso; anzi, costui considera gli altri propriamente solo come larve prive di qualsiasi realtà.
E queste due caratteristiche sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.
- Ora, quella grande violenza del volere è già in sé e per sé e immediatamente una perenne fonte di sofferenza. In primo luogo, poiché ogni volere, in quanto tale, deriva da una mancanza, e dunque dalla sofferenza (perciò, il momentaneo silenzio di ogni volere che si produce non appena noi, come puro soggetto del conoscere privo di volontà – correlato all’idea -, ci abbandoniamo alla contemplazione estetica è già, per l’appunto, uno degli elementi principali della gioia che si prova dinnanzi al bello). In secondo luogo poiché, in forza della concatenazione causale delle cose, la maggior parte dei desideri è destinata a rimanere inappagata e la volontà viene più spesso contrastata che soddisfatta; da ciò consegue che, anche per questo, un volere violento e multiforme porta con sé una violenta e multiforme sofferenza.
- Poiché l’uomo è fenomeno della volontà, illuminato dalla più Ciara delle conoscenze, paragona sempre l’appagamento effettivo ed effettivamente sentito della propria volontà con quello, meramente possibile, che la conoscenza gli pone davanti. Da ciò si produce l’invidia: ogni privazione viene infinitamente accentuata dall’altrui godimento, e alleviata dal sapere che anche altri sopportano la medesima privazione. I mali che sono comuni a tutti e che non sono separabili dalla vita umana non ci affliggono più di tanto; e lo stesso vale per quelli che dipendono dal clima e che riguardano un intero paese. La memoria di sofferenze maggiori delle nostre placa il nostro dolore, la vista delle sofferenze altrui mitica le nostre.
- Immaginiamo ora un uomo che, preso da un impulso della volontà straordinariamente violento, voglia, con ardente avidità, far propria ogni cosa al fine di calmare la sete dell’egoismo; costui deve necessariamente sperimentare che ogni appagamento è soltanto apparente, che ciò che è stato conseguito non corrisponde mai a ciò che il desiderio prometteva, ossia alla cessazione finale del rabbioso impulso della volontà, ma che invece, con l’appagamento, il desiderio non fa altro che mutare la propria forma e procura ancora, sotto altra veste, nuovi tormenti; e che addirittura, quando da ultimo tutte le forme siano esaurite, l’impulso della volontà stesso permane, anche in assenza di un motivo di cui si sia consapevoli, e si dà come sentimento del deserto e del vuoto più terribili, accompagnato da un tormento disperato.
- Tutto questo, che nei gradi ordinari del volere è sentito solo in misura insignificante, produce solo un grado ordinario di malumore; ma, in colui nel quale il fenomeno della volontà si è spinto sino alla cattiveria più estrema desta necessariamente un tormento interiore smisurato, un’eterna inquietudine, un dolore insanabile; costui cerca allora indirettamente quel sollievo che non può ottenere direttamente, cerca insomma di mitigare la propria sofferenza con la vista di quella altrui, che egli, allo stesso tempo, considera una manifestazione della propria potenza. La sofferenza altrui diventa scopo in se stessa, una visione della quale si delizia, e così si produce il fenomeno della crudeltà in senso proprio, della sete di sangue, che la storia ci ha fatto vedere in tanti casi.
- Con la malvagità ha già una qualche affinità il desiderio di vendetta, che ripaga il male col male. Ciò che distingue la vendetta dalla pura e semplice malvagità e che la scusa almeno un poco è una parvenza di giustizia.
- Al di fuori delle sofferenze descritte, germogliate dalla stessa radice dalla quale è germogliata la malvagità, cioè da una volontà molto violenta, e perciò inseparabile da essa, alla malvagità è però associata ancora un’altra pena del tutto diversa e particolare, che diventa percepibile a ogni azione malvagia, sia che si tratti di una semplice ingiustizia provocata dall’egoismo, sia che sia stata commessa per pura malvagità e che, a seconda della sua durata, si chiama scrupolo oppure rimorso della coscienza.
Il rimorso di coscienza
- Per quanto sia fitto il velo di Maya avvolto attorno alla mente del malvagio, per quanto fortemente cioè egli sia irretito nel principium individuationis, in conformità al quale considera la propria persona come assolutamente distinta da tutte le altre e separata da loro da un abisso profondo, – una conoscenza che, essendo la sola conforme al suo egoismo e la sola a sostenerlo, egli tiene ferma con tutte le forze; quasi sempre, d’altra parte, la conoscenza è corrotta dalla volontà -, tuttavia, nella profondità della sua coscienza, si muove il segreto presentimento che un ordine delle cose di questo genere sia comunque soltanto fenomeno, e che in sé le cose stiano in tutt’altro modo; e che, per quanto profondamente il tempo e lo spazio lo dividano dagli altri individui e dagli innumerevoli tormenti che essi soffrono, e che soffrono magari per causa sua, e per quanto se li raffiguri come del tutto estranei a lui, tuttavia ciò che in tutti loro si manifesta è, in sé a prescindere dalla rappresentazione e dalle sue forme, l’unica volontà di vivere, la quale qui, non comprendendo se stessa, rivolge contro di sé le proprie armi e, mentre ricerca in uno dei suoi fenomeni un benessere maggiore, proprio perciò infligge a un altro di essi la sofferenza più grande; e che egli, il malvagio, è proprio questa volontà nella sua interezza, e di conseguenza non è solo il tormentatore ma anche lo stesso tormentato, dalla cui sofferenza lo separa e gli fa credere di essere libero solo un sogno ingannatore, la cui forma è costituita dallo spazio e dal tempo; ma il sogno dilegua ed egli, secondo verità, deve pagare il piacere con il tormento, e tutte le sofferenze che egli conosce soltanto come possibili lo colpiscono effettivamente in quanto egli è volontà di vivere, poiché possibilità e realtà effettiva, distanza e vicinanza nel tempo e nello spazio sono distinte solo per la conoscenza dell’individuo, solo attraverso il principium individuationis, non però in sé.
- Essa però scaturisce inoltre da una seconda conoscenza immediata, strettamente connessa a quella precedente, ossia dalla conoscenza della forza con la quale la volontà di vivere si afferma nell’individuo malvagio, forza che va ben al di là del suo fenomeno individuale, spingendosi sino alla completa negazione di quella stessa volontà che si manifesta in individui estranei. Ne segue che l’intimo orrore che il malvagio prova nei confronti della sua stessa azione e che cerca di nascondere a se stesso contiene, nel medesimo tempo, oltre al vago presentimento della nullità e del carattere meramente apparente del principium individuationis e della distinzione che esso pone tra lui e gli altri, anche la conoscenza della violenza della sua propria volontà, della potenza con la quale essa ha afferrato la vita e l’ha succhiata; proprio questa vita della quale egli vede il lato spaventoso nel tormento di coloro i quali sono oppressi da lui e con la quale, ciononostante, è così indissolubilmente unito che, proprio per questo, il più orribile degli errori proviene da lui stesso, come mezzo per la completa affermazione della sua propria volontà.
- Egli riconosce se stesso come manifestazione fenomenica concentrata della volontà di vivere, sente sino a che punto gli è toccata la vita e quindi sente anche le innumerevoli sofferenze che le sono essenziali, dato che essa ha infinito tempo e infinito spazio per togliere la separazione tra possibilità e realtà effettiva e per trasformare tutti i tormenti che da lui per ora sono semplicemente conosciuti in tormenti provati effettivamente.
- Solo nel concetto esistono la totalità del passato e la totalità del futuro; il tempo pieno, la forma del fenomeno della volontà, è soltanto il presente, e per l’individuo il tempo è sempre nuovo: egli trova costantemente se stesso come un nuovo nato. Poiché la vita è inseparabile dalla volontà di vivere la sua unica forma è l’adesso.
- La morte è simile al tramonto del sole, che solo in apparenza viene inghiottito dalla notte, mentre in effetti esso, che è la fonte di ogni luce, arde senza interruzione, porta nuovi giorni a nuovi mondi, sempre di nuovo sorge e sempre di nuovo tramonta. Principio e fine toccano solo l’individuo, in forza del tempo, che è la forma di questo fenomeno per la rappresentazione. Al di fuori del tempo si trova solo la volontà, la cosa in sé di Kant e la sua adeguata oggettità, l’idea di Platone. Ciò che ciascuno vuole nel proprio intimo, egli lo deve essere: e ciò che ciascuno è, è appunto ciò che egli vuole.
- Dunque, accanto alla conoscenza meramente sentita dell’apparenza e della nientità delle forme della rappresentazione che separano gli individui, ciò che dà il pungolo alla coscienza è l’auto-conoscenza della propria volontà e del suo grado. Il corso della vita produce l’immagine del carattere empirico, il cui originale è il carattere intelligibile, e il malvagio inorridisce dinnanzi a questa immagine; non fa differenza che sia disegnata con grosse linee, in modo tale che il mondo partecipi al suo orrore, o che sia disegnata con linee così sottili che egli solo le riesca a vedere: essa infatti riguarda in modo immediato soltanto lui.
- Dalla violenza con la quale il malvagio afferma la vita, e che egli si raffigura nelle sofferenze che infligge agli altri, egli misura quanto siano lontane da lui la rinuncia e la negazione proprio di quella volontà, le quali costituiscono l’unica redenzione possibile dal mondo e dai suoi tormenti. Resta da considerare se esse riusciranno a spezzare e a superare la violenza della sua volontà.
§ 66 Moralità e moralismo
- Una morale priva di fondamento, ossia un mero moralismo, non può produrre effetti, poiché non è in grado di motivare. Ma una morale che motivi, lo può fare solo agendo efficacemente sull’amor proprio. Ciò che scaturisce da quest’ultimo, però, non ha alcun valore morale. Ne segue di qui che attraverso la morale e, in genere, attraverso la conoscenza astratta, non può prodursi alcuna virtù genuina; questa deve invece scaturire dalla conoscenza intuitiva, che riconosce nell’individuo estraneo la medesima essenza che c’è in noi stessi.
- La virtù si produce in effetti dalla conoscenza, ma non da quella astratta, comunicabile con parole. Se così fosse, la si potrebbe insegnare e, illustrandone qui l’essenza e la conoscenza che ne sta a fondamento, potremmo rendere eticamente migliore chiunque fosse in grado di comprendere quello che diciamo. Ma le cose non stanno così.
- È vero piuttosto che le conferenze di argomento etico o le prediche non sono in grado di spingere un uomo a essere virtuoso più di quanto tutte le estetiche, a partire da quella di Aristotele, abbiano mai potuto rendere qualcuno un poeta. Poiché per l’autentica e intima essenza della virtù il concetto è sterile come lo è per l’arte, e può servire solo come strumento del tutto subordinato per l’esecuzione e la conservazione di ciò che si è conosciuto e concluso per altra via. «La volontà non si impara» (Seneca).
L’intenzione buona
- Sulla virtù, ossia sulla bontà dell’intenzione, i dogmi astratti non hanno nei fatti alcuna influenza: quelli falsi non la disturbano e quelli veri è difficile che riescano a stimolarla. D’altronde sarebbe veramente molto brutto se quanto vi è di più importante nella vita umana, quel suo valore etico che vale per l’eternità, dipendesse da qualcosa il cui conseguimento è così fortemente soggetto alla casualità, come i dogmi, le dottrine religiose, le tesi filosofiche. I dogmi hanno valore per la moralità semplicemente per il fatto che chi è già virtuoso grazie a una conoscenza ottenuta per altra via, trova in essi uno schema, un formulario con il quale rende conto alla propria ragione delle proprie azioni non-egoistiche, la cui essenza la ragione, ossia egli stesso, non comprende; questo resoconto è peraltro il più delle volte fittizio, ma egli ha abituato la ragione a contentarsene.
- Ogni conoscenza astratta fornisce soltanto motivi: ma, come è stato mostrato più sopra, i motivi possono modificare solo la direzione della volontà, non la volontà stessa. Ogni conoscenza mediata può però agire sulla volontà solo come motivo: in qualsiasi modo la possano dunque guidare i dogmi, ciò che l’uomo vuole propriamente e in generale rimane però sempre lo stesso; egli ha semplicemente ricevuto altri pensieri che riguardano le vie attraverso le quali può conseguire il voluto, e i motivi immaginari lo guidano tanto quanto quelli reali.
- Nelle buone intenzioni, il cui autore si basi sui dogmi, si deve però sempre distinguere se questi dogmi sono effettivamente sempre il motivo dell’azione o se essi non sono altro che la giustificazione apparente per mezzo della quale quello cerca di soddisfare la propria ragione a proposito di una buona azione scaturita da tutt’altra sorgente, che egli compie perché è buono, ma non sa spiegare razionalmente in modo adeguato, poiché non è un filosofo, anche se vorrebbe comunque riuscire a pensarne qualcosa. La differenza, però, è molto difficile da trovare, poiché giace nell’interiorità più profonda dell’animo. Perciò non possiamo mai giudicare correttamente il valore morale delle azioni altrui, e solo di rado quello delle nostre.
- La genuina bontà dell’intenzione, la virtù autenticamente disinteressata e la pura nobiltà d’animo non deriva dunque dalla conoscenza astratta, e tuttavia derivano pur sempre dalla conoscenza, e precisamente da una conoscenza immediata e intuitiva che non è un cavillare intorno ai pro e ai contro, da una conoscenza che, proprio perché non è astratta, non si lascia comunicare, ma deve sorgere da sé in ciascuno; una conoscenza che, perciò, trova la sua autentica adeguata espressione non nelle parole, ma esclusivamente nelle azioni, nell’operare, nel corso stesso della vita di un uomo.
L’uomo giusto
- Che cosa siano il giusto e l’ingiusto lo abbiamo spiegato più sopra a sufficienza; perciò possiamo limitarci qui a dire brevemente che è giusto chi riconosce spontaneamente quel confine puramente morale tra l’ingiusto e il giusto e lo rispetta anche là dove a garantirlo non vi sia alcuno stato né alcuna forza di altro genere e, di conseguenza, non si spinge mai, nell’affermazione della propria volontà, sino alla negazione di quella che trova la propria personificazione in un altro individuo. Costui, dunque, non infliggerà ad altri delle sofferenze al fine di aumentare il proprio benessere: non commetterà alcun crimine, e rispetterà i diritti e la proprietà di ciascuno.
- Vediamo ora che, per un uomo giusto di questo genere, il principium individuationis non è già più, come per il malvagio, un muro invalicabile; che egli, contrariamente al malvagio, non si limita ad affermare solo quel fenomeno della volontà che appartiene propriamente a lui negando tutti gli altri; che gli altri non sono per lui delle mere larve, la cui essenza è del tutto diversa dalla propria.
- Egli invece, attraverso il suo modo di agire, mostra di riconoscere l’essenza che gli è propria, ossia la volontà di vivere come cosa in sé, anche nell’estraneo, in ciò che a lui è dato unicamente come rappresentazione, e dunque ritrova se stesso nell’altro, almeno fino a un certo grado, ossia fino al grado che è necessario per non commettere ingiustizia nei confronti dell’altro, ossia per non ferire l’altro.
- L’uomo buono non va in nessun modo considerato come una manifestazione fenomenica della volontà originariamente più debole di quella che appartiene all’uomo malvagio; è invece la conoscenza a padroneggiare in lui l’impulso cieco della volontà. Si danno, in effetti, individui che sembrano di animo buono solo in ragione della debolezza della volontà che in essi si manifesta, ma ciò che essi sono realmente si mostra ben presto nel fatto che sono del tutto incapaci di compiere uno sforzo significativo per dominare se stessi al fine di portare a compimento un’azione giusta o buona.
- L’uomo buono non è più nelle condizioni di consentire che altri manchino del necessario mentre egli stesso ha fin troppo, persino il superfluo, allo stesso modo in cui nessuno vorrebbe soffrire la fame per una giornata allo scopo di avere il giorno seguente più di quanto possa mangiare. Ciò perché per chi pratica le opere dell’amore il velo di Maya è diventato trasparente e l’inganno del principium individuationis lo ha abbandonato. In ogni essente, di conseguenza anche nel sofferente, egli riconosce se stesso, il proprio io, la propria volontà. È scomparsa la distorsione con cui la volontà di vivere, ingannando se stessa, gode qui, in un individuo, di piaceri effimeri, beffardi e, proprio per ciò, in un altro soffre e vive di stenti, sì che tormento infligge e tormento patisce, non comprendendo che sta divorando velocemente la propria carne: qui dunque patisce per una sofferenza gratuita e là pecca senza timore di della Nemesi sempre e sempre soltanto perché non riconosce se stessa nel fenomeno estraneo, e perciò non percepisce la giustizia eterna, irretita com’è nel principium individuationis, ossia, in generale, nella modalità conoscitiva governata dal principio di ragione. Essere guarito da questo errore e dall’opera ingannevole di Maya e praticare le opere dell’amore è tutt’uno. Questo è il sintomo immancabile di quella conoscenza.
- Il contrario del rimorso di coscienza è la buona coscienza, la soddisfazione che proviamo dopo un’azione disinteressata. Essa scaturisce dal fatto che un’azione di questo genere, che è prodotta dal riconoscimento immediato della nostra essenza in sé anche nel fenomeno estraneo, ci dà inoltre, dal canto suo, la conferma di questa conoscenza, cioè del fatto che il nostro vero io non si trova solo nella nostra persona, in questo singolo fenomeno isolato, ma anche in tutto ciò che vive.è u fatto che ci allarga il cuore, allo stesso modo in cui l’egoismo ce lo restringe.
- Infatti, come l’egoismo concentra il nostro interesse su quel singolo fenomeno che costituisce il nostro individuo, una condizione nella quale la conoscenza ci tiene costantemente presenti gli innumerevoli pericoli che minacciano di continuo questo nostro fenomeno, ragion per cui ansietà e preoccupazione diventano la tonalità dominante della nostra disposizione d’animo; così la conoscenza che ogni vivente è proprio la nostra stessa essenza in sé, come lo è la nostra stessa persona, estende il nostro interesse a tutti i viventi, e in questo modo ci allarga il cuore. Grazie a questa diminuzione dell’interesse verso il nostro io, l’angosciosa preoccupazione per noi stessi viene intaccata alla radice e limitata nella sua portata; vengono da qui la quieta, fiduciosa serenità che danno una disposizione d’animo virtuosa e una buona coscienza, e il loro risaltare sempre più chiaramente a ogni buona azione, in quanto quest’ultima consolida il fondamento di quella nostra disposizione.
- L’egoista si sente circondato da fenomeni estranei e avversi e ogni speranza riposa nel proprio bene individuale. Il buono vive in un mondo di fenomeni amichevoli: il bene di ciascuno di essi è il suo stesso bene. Perciò, anche se la conoscenza della sorte dell’umanità in generale non può certo rallegrare il suo animo, ciononostante l’aver riconosciuto in modo stabile la propria essenza in tutti i viventi gli dà un certo equilibrio e persino una certa serenità d’animo, poiché un interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non lo può inquietare come un interesse concentrato su uno solo di essi.
§ 67 Ogni amore è compassione
- Abbiamo visto come dalla capacità di guardare al di là del principium individuationis provenga, quando essa è al grado inferiore, la giustizia, quando è a un grado superiore l’autentica bontà d’animo, la quale si è mostrata come amore puro, cioè disinteressato, nei confronti degli altri. Dove questo amore diventa perfetto, esso rende l’individuo estraneo e il suo destino del tutto uguale a noi: più avanti di così non si può andare, dato che non sussiste alcuna ragione per preferire l’individuo estraneo a noi. Ciononostante, la maggioranza degli individui estranei, il cui intero benessere e la cui vita sono in pericolo, può prevalere sulla considerazione del bene singolo.
- Ora però, per quanto concerne il paradosso che abbiamo enunciato sopra, devo ricordare che abbiamo già scoperto in precedenza che alla vita nella sua interezza appartiene essenzialmente la sofferenza, che non può essere separata da essa; abbiamo anche visto come ogni desiderio si produca da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza, e che perciò qualunque soddisfazione non è altro che un dolore rimosso e non procura una felicità positiva: le gioie mentono al desiderio, apparendogli come un bene positivo, mentre in verità esse hanno solo una natura negativa e non sono che la fine di un male.
- Ciò che la bontà, amore e nobiltà d’animo possono fare per gli altri è solo di mitigarne le sofferenze; di conseguenza, ciò che può spingerli a compiere buone azioni e opere d’amore è solo e sempre la conoscenza delle sofferenze altrui, resasi intellegibile a partire dalla propria sofferenza immediata e considerata alla pari di essa. Da tutto questo risulta però che il puro amore (agape) è per natura compassione; poco importa che la sofferenza che esso lenisce sia grande o piccola, com’è il caso di ogni desiderio soddisfatto.
- In totale contrapposizione a Kant si deve dire che il puro concetto è per la virtù genuina tanto sterile quanto lo è per l’arte genuina: ogni amore vero e puro è compassione e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l’eros, compassione è l’agape. Spesso si trova una combinazione dell’uno e dell’altra. Persino l’amicizia genuina è sempre una combinazione di egoismo e di compassione: il primo consiste nel piacere che si prova alla presenza dell’amico, la cui individualità è conforme alla nostra, e ne costituisce quasi sempre la parte più rilevante; la compassione si mostra invece nella partecipazione sincera alla sua gioia e ai suoi dolori e nei sacrifici disinteressati che siamo disposti a fare per lui.
Il pianto
- Il pianto non è assolutamente un’espressione del dolore: non a caso si piange anche per dolori di piccola entità. Anzi, a mio avviso non si piange immediatamente per un dolore effettivamente provato, ma sempre e solo per la sua ripetizione nella riflessione. Vale a dire che dal dolore effettivamente provato, anche quando si tratta di un dolore corporeo, si passa a una sua semplice rappresentazione e si trova che la propria condizione è così degna di compassione che, se a soffrire fosse un altro, siamo persuasi fermamente e sinceramente che correremmo in suo aiuto con tutta la compassione e con tutto l’amore di cui siamo capaci.
- Il pianto è compassione di se stessi, ossia una compassione che viene risospinta al proprio punto di partenza. È perciò condizionato dalla capacità di amare e compatire e dalla fantasia: perciò, né gli uomini duri di cuore né quelli privi di fantasia piangono con facilità; il pianto viene anzi sempre considerato come segno di un certo grado di bontà del carattere e disarma la collera, perché si sente che chi è ancora capace di piangere deve essere anche necessariamente capace di amore, ossia di provare compassione per gli altri, dato che è proprio questo ciò che ci fa giungere a quella disposizione d’animo che trova sfogo nel pianto.
§ 68 La negazione della volontà di vivere
- Abbiamo visto in precedenza che odio e malvagità sono condizionati dall’egoismo e che quest’ultimo si fonda sulla conoscenza irretita dal principium individuationis. Analogamente abbiamo scoperto che l’origine e l’essenza della giustizia – e anche, se ci spingiamo un po’ più in là, dell’amore e della nobiltà d’animo sino ai gradi più alti – sono costituite dalla capacità di guardare al di là di quel principium individuationis: solo tale capacità, in quanto sopprime la distinzione tra il proprio e l’altrui individuo, rende possibile e spiega la perfetta bontà d’animo, sino all’amore più disinteressato e al più generoso sacrificio di sé a favore degli altri.
- Ora però, questa capacità di guardare al di là del principium individuationis, questa conoscenza immediata dell’identità della volontà in tutti i suoi fenomeni, si presenta con la più grande chiarezza. Se cioè dinnanzi agli occhi di un uomo il velo di Maya, il principium individuationis, si è sollevato tanto da far sì che costui non faccia più alcuna egoistica differenza tra la propria e l’altrui persona, ma partecipi invece alle sofferenze degli altri individui con la stessa intensità con cui partecipa alle proprie; e tanto da renderlo perciò non solo più caritatevole al grado più alto, ma addirittura pronto a sacrificare la propria individualità se questo può servire a salvare la vita a molte individualità estranee a lui; allora va da sé che un uomo di questo genere, un uomo che riconosca in tutti gli esseri il suo più intimo e vero sé, deve considerare come proprie anche le infinite sofferenze di tutti gli esseri viventi e così fare proprio il dolore del mondo intero. Nessuna sofferenza gli sarà più estranea.
- Egli conosce l’intero, ne afferra l’essenza, e scopre che essa consiste in un perpetuo svanire, in uno sforzo vano, in una conflittualità interiore e in una sofferenza perenne; vede, da qualsiasi parte guardi, uomini e animali che soffrono, e un mondo che viene meno. Tutto questo però gli sta adesso così vicino come all’egoista sta vicina la propria persona.
- Ora, come potrebbe, conoscendo il mondo in questo modo, affermare proprio questa vita con continui atti della volontà e, proprio così facendo, legarsi sempre più strettamente a essa, abbracciarla sempre più strettamente?
- Se dunque chi è ancora prigioniero del principium individuationis, dell’egoismo, conosce solo le singole cose e la loro relazione con la sua persona, e quelle diventano poi motivi sempre rinnovati del suo volere, al contrario, quella conoscenza dell’intero, dell’essenza delle cose in sé, che già abbiamo descritto, diventa un quietivo di ogni e qualsiasi volere. La volontà si distoglie ormai dalla vita, e adesso trova raccapriccianti quei piaceri nei quali riconosce un’affermazione della vita stessa. L’uomo raggiunge la condizione della rinuncia volontaria, della rassegnazione, del vero abbandono e della completa liberazione dalla volontà.
L’ascesi
- Chi, guardando al di là del principium individuationis, riconosce l’essenza delle cose in se stesse e, perciò, l’intero, non si lascia sedurre da una qualsiasi consolazione temporanea. La sua volontà cambia rotta, non afferma più la sua propria essenza che si rispecchia nel fenomeno, anzi la nega.
- Il fenomeno in forza del quale ciò si rende noto è costituito dal passaggio dalla virtù all’ascesi. Vale a dire che a una persona di questo genere non è più sufficiente amare gli altri come se stesso e fare per loro quello che farebbe per se stesso: si produce invece in lui un orrore nei confronti di quell’essenza della quale il suo proprio fenomeno è espressione, un orrore nei confronti della volontà di vivere, del nocciolo e dell’essenza di un mondo riconosciuto come straziante.
- Egli entra apertamente in contraddizione con se stesso; dice perciò no proprio a quell’essenza che si manifesta in lui. Egli, che nella propria essenza non è altro che il fenomeno della volontà, smette del tutto di volere alcunché, cerca di stabilizzare dentro di sé la massima indifferenza nei confronti di tutte le cose. Una volontaria, perfetta castità è il primo passo nell’ascesi, ossia nella negazione della volontà di vivere. Essa nega quell’affermazione della volontà che oltrepassa la vita individuale e dà con ciò il segnale del fatto che con la vita di questo corpo anche la volontà, della quale esso è fenomeno, sopprime se stessa.
- Con la soppressione completa della conoscenza svanirebbe dunque da sé nel nulla anche il resto del mondo: senza soggetto, infatti, niente oggetto. Questo sacrificio è la rassegnazione e il resto della natura deve attendere la propria redenzione dall’uomo, che è a un tempo sacerdote e vittima sacrificale.
- L’ascesi si mostra poi anche nella povertà scelta volontariamente e in modo consapevole, che non si produce solo accidentalmente, per il fatto di dar via i propri averi allo scopo di alleviare le sofferenze degli altri, ma che invece qui è scopo in se stessa e deve servire come costante mortificazione della volontà, perché la soddisfazione dei desideri, la dolcezza della vita non eccitino nuovamente la volontà, della quale, grazie alla conoscenza di sé, si è ormai compreso l’orrore.
- Chi è arrivato sino a questo punto sente ancora, in quanto corpo animato, in quanto concreta manifestazione fenomenica della volontà, ogni sorta di inclinazione al volere, ma la sopprime intenzionalmente, costringendo se stesso a non fare nulla di tutto quello che vorrebbe fare e, viceversa, a fare tutto quello che non vorrebbe fare, anche se tutto questo non ha altro scopo che non sia quello di servire alla mortificazione della volontà.
- Egli sopporta perciò tutti i generi di offese e di sofferenze con pazienza e mitezza inesauribili, ricambia, senza ostentazione, ogni male con il bene e, come non permette che si risvegli in lui il fuoco dell’ira, così non permette che si risvegli nemmeno quello del desiderio.
- Giunge infine alla morte, che dissolve questa particolare manifestazione fenomenica di quella volontà la cui essenza qui, per mezzo della libera negazione di se stessa, già da tempo si era venuta estinguendo, sino a ridursi a quel debole residuo che di esso appariva come animazione di questo corpo; ed essa sarà, per lui, come una sospirata redenzione, altamente benvenuta e accolta con gioia.
- Con la morte, in questo caso, come invece accade agli altri, non finisce semplicemente il fenomeno, ma viene soppressa l’essenza stessa, quell’essenza che qui non esisteva più se non nel fenomeno e che, tramite quest’ultimo, aveva ancora una debole forma di esistenza, ultimo fragile legame che ora viene anch’esso spezzato. Per chi finisce in questo modo, ha fine a un tempo anche il mondo.
Conoscenza intuitiva e astratta
- In questi uomini, per quanto diversi fossero i dogmi impressi nella loro ragione, trovava tuttavia espressione in loro, nello stesso e medesimo modo, attraverso la condotta che tennero nella loro vita, quella conoscenza interiore, immediata, intuitiva, dalla quale soltanto può prodursi ogni virtù e ogni santità. Poiché anche qui si mostra la grande differenza tra la conoscenza intuitiva e quella astratta, una differenza che sinora è stata presa in troppo poca considerazione, ma che è davvero importante.
- Forse qui, per la prima volta, l’intima essenza della santità, negazione di sé, mortificazione dell’ostentazione, ascesi, viene formulata in modo astratto e privo di ogni elemento mitico come negazione della volontà di vivere, che sopraggiunge dopo che la compiuta conoscenza della propria essenza è diventata un quietivo del proprio volere.
- Viceversa, l’hanno riconosciuta immediatamente e l’hanno espressa con i fatti tutti quei santi e quegli asceti che, pur avendo la stessa conoscenza interiore, l’esprimevano con un linguaggio molto diverso dal loro modo di agire; ma tutto questo, per ciò che concerne la sostanza della questione, è del tutto indifferente.
- Un santo può essere pieno della più assurda superstizione o, al contrario, può essere filosofo: le due cose si equivalgono. Solo l’agire attesta che è un santo, poiché esso, dal punto di vista morale, non proviene dalla conoscenza astratta del mondo e dalla sua essenza, bensì da quella immediata, afferrata intuitivamente; ed è solo per soddisfare la propria ragione che egli poi la spiega per mezzo di un dogma qualunque. Che il santo sia un filosofo, perciò, è tanto poco necessario quanto che il filosofo sia un santo; così come non è necessario che un uomo dalla bellissime fattezze sia un grande scultore.
- Per comprendere più compiutamente ciò che esprimiamo filosoficamente come negazione della volontà di vivere, dobbiamo imparare a conoscere gli esempi ricavati dall’esperienza e dalla realtà. Di certo non ci imbatteremo in essi nell’esperienza di tutti i giorni. Così dunque, a meno che un destino particolarmente favorevole non ci abbia consentito di essere testimoni oculari, dovremo contentarci delle biografie di questo genere di uomini.
- Noi, che qui non inseguiamo nel tempo il filo dei fenomeni ma che, come filosofi, dobbiamo cercare di studiare il significato etico delle azioni, che è qui l’unico metro per valutare ciò che per noi è significativo e importante, non ci faremo in nessun modo intimidire dal timore della volgarità e insulsaggine che caratterizzano permanentemente la maggioranza degli uomini e proclameremo che il più grande, importante e significativo fenomeno che il mondo possa far vedere non è quello del conquistatore del mondo, bensì quello del superatore del mondo, e dunque, di fatto, nient’altro che il modo di vivere silenzioso e inosservato di un uomo che si sia sollevato a una conoscenza di questo tipo, in conseguenza della quale elimini e rinneghi quella volontà di vivere che tutto riempie e che in tutto si agita impetuosamente; ed è anzitutto qui, in lui soltanto, che la libertà si manifesta, ragion per cui d’ora in avanti il suo agire è l’esatto opposto di quello comune.
- Come abbiamo visto sopra che il malvagio, a causa della violenza stessa del suo volere, patisce un tormento costante e profondo che lo divora e, una volta che siano esauriti tutti gli oggetti del suo volere, placa infine la sete insopportabile dell’egoismo con la vista della pena degli altri; così, al contrario, colui nel quale è germogliata la negazione della volontà di vivere, per quanto povera, priva di gioia e piena di privazioni sia, vista dal di fuori, la sua condizione, è ricolma di gioia interiore e di vera pace celeste. Non ci sono più l’inquieto impulso vitale, l’esultanza per una gioia che ha come condizione preliminare o come conseguenza un’intensa sofferenza, che costituiscono la condotta dell’uomo che ha voglia di vivere; ci sono invece una pace imperturbabile, una quiete profonda e un’intima serenità, una condizione che noi, se ci viene messa davanti agli occhi o si presenta davanti alla nostra fantasia, non possiamo guardare senza provare il più intenso desiderio, in quanto subito la riconosciamo come la sola che sia giusta, infinitamente superiore a tutte le altre, nei confronti della quale il nostro spirito migliore ci spinge gridandoci il grande motto «osa sapere!». Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri che riusciamo a strappare al mondo sia a malapena simile all’elemosina che oggi tiene in vita il mendicante per potergli poi far di nuovo soffrire la fame domani; la rassegnazione, al contrario, somiglia a una proprietà ricevuta in eredità, che libera per sempre il suo possessore da ogni preoccupazione.
- La gioia estetica che si prova dinnanzi al bello consiste, per la gran parte, nel fatto che noi, entrando nello stato della pura contemplazione, siamo liberi per un istante da ogni volere, ossia da ogni desiderio e da ogni preoccupazione, come se per un attimo ci fossimo liberati da noi stessi; non siamo più un individuo conoscente posto al servizio del proprio perenne volere, il correlato della singola cosa per il quale gli oggetti divengono motivi, bensì l’eterno soggetto del conoscere libero dal volere, il correlato dell’idea; e sappiamo come i momenti nei quali noi, liberati dalla furiosa spinta della volontà, quasi emergiamo dalla pesante aria terrestre sono i più beati che noi conosciamo.
- Di qui possiamo cogliere quanto possa essere beata la vita di un uomo la cui volontà sia stata ridotta al silenzio non per fuggevoli istanti, come accade nel godimento del bello, bensì per sempre, e anzi sia stata spenta completamente, eccezion fatta per quell’ultima favilla ancora accesa che regge il corpo e che verrà a estinguersi insieme a esso.
- Un uomo di questo genere che, dopo molte amare battaglie combattute contro la propria stessa natura, ha ottenuto infine la completa vittoria, non continua a esistere più se non come puro essere conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla lo può più angosciare, nulla lo può smuovere, poiché tutti i mille fili del volere che ci tengono legati alla terra e che, sotto forma di desiderio, paura, invidia, ira, ci trascinano di qua e di là provocandoci un continuo dolore, egli li ha recisi del tutto. Egli ora si volta a guardare quieto e sorridente i miraggi di questo mondo, che un tempo riuscivano a scuotere e a tormentare anche il suo animo, ma che adesso stanno dinnanzi a lui con indifferenza. La vita e le sue forme si liberano ora davanti a lui come un fantasma fuggevole, come, nel dormiveglia, un lieve sogno mattutino, attraverso il quale già traspare la realtà e che non è più in grado di trarci in inganno.
È una lotta continua
- Non dobbiamo tuttavia credere che la negazione della volontà di vivere, una volta che sia subentrata attraverso il quietivo della conoscenza, non abbia più alcuna incertezza e che si possa riposare su di essa come su una proprietà acquisita una volta per tutte. Essa deve piuttosto essere riconquistata per mezzo di un costante impegno.
- Dato infatti che il corpo è la volontà stessa, solo nella forma dell’oggettità, o come fenomeno nel mondo della rappresentazione, fintanto che il corpo è ancora in vita la volontà di vivere continua a esistere tutt’intera nella sua possibilità, e tende in continuazione a penetrare nella realtà effettiva e a infiammarsi daccapo con tutto il suo ardore. Scopriamo quindi che, nella vita degli uomini che praticano la santità, quella quiete e quella beatitudine che abbiamo descritte sono solo come il fiore che sboccia da un continuo superamento della volontà, e vediamo che il terreno dal quale esso germoglia è costituito dalla battaglia permanente ingaggiata con la volontà di vivere, poiché nessuno, sulla terra, può avere una quiete durevole.
- Con l’espressione ascesi, intendiamo appunto, in senso stretto, questa deliberata cessazione della volontà per mezzo della rinuncia a ciò che è piacevole e della ricerca di ciò che è sgradito, la pratica volontaria dell’espiazione e dell’auto-mortificazione della carne, in vista di una durevole repressione della volontà.
- Il più delle volte la volontà, prima di giungere alla propria auto-negazione, deve essere spezzata da una fortissima sofferenza provata in prima persona. Allora vediamo che l’uomo passato attraverso tutti i gradi di un’afflizione crescente lottando contro di essa con tutte le sue forze, giunto sull’orlo della disperazione, all’improvviso ritorna in sé, riconosce se stesso e il mondo, trasforma tutto il proprio essere, si eleva al di sopra di se stesso e di tutte le sofferenze e, come se fosse stato purificato e santificato proprio dalla sofferenza, lo vediamo rinunciare volontariamente, con tranquillità, beatitudine, dignità inattaccabili, a tutto ciò che prima bramava in modo impetuoso e accettare con gioia la morte.
- Persino coloro che sono stati molto malvagi li vediamo talvolta purificati fino a questo grado dai dolori più profondi: sono diventati diversi e sono completamente trasformati. I misfatti precedenti perciò non angustiano nemmeno più la loro coscienza; e tuttavia li espiano volentieri con la morte e sono lieti di vedere che il fenomeno di quella volontà, che ora è loro estranea e che suscita in loro orrore, ha fine.
- Quanto più violenta è la volontà, tanto più stridente è la sua conflittualità, e tanto più forte è dunque la sofferenza. Un mondo che fosse la manifestazione fenomenica di una volontà di vivere di gran lunga più violenta di quella che produce il mondo presente ci farebbe vedere una sofferenza proporzionalmente più grande: sarebbe dunque un autentico inferno.
- Il fatto che tutte le sofferenze, in quanto sono una mortificazione e una esortazione alla rassegnazione, abbiano la possibilità di essere una forza santificante, ci consente di spiegare perché una grande sventura, un dolore profondo ispirino già di per se stessi un certo rispetto.
- Quando infine l’afflizione non ha più alcun oggetto determinato ma si diffonde sulla vita nella sua interezza, allora essa è, in un certo qual modo, un rientrare-in-sé, un ritirarsi, un graduale dissolversi della volontà che mina, in modo sommesso ma molto profondo, persino il suo rendersi visibile, il corpo, con il che l’uomo sente una certa liberazione dai suoi lacci, un dolce presentimento della morte che si annuncia come dissoluzione a un tempo del corpo e della volontà.
§ 70 La libertà autentica
- La libertà autentica, vale a dire l’indipendenza dal principio di ragione, compete solo alla volontà come cosa in sé, non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è dovunque il principio di ragione, l’elemento della necessità. Ma l’unico caso in cui quella libertà può rendersi visibile in modo immediato anche nel fenomeno è quello in cui essa mette fine a ciò che si manifesta fenomenicamente; e poiché nondimeno il semplice fenomeno, in quanto è un anello nella catena delle cause, ossia il corpo animato, nel tempo, che contiene solamente fenomeni, continua a sussistere, la volontà che si manifesta attraverso questo fenomeno si trova in contraddizione con esso, in quanto nega ciò che esso esprime.
- A questa contraddizione reale – prodotta dall’interferenza immediata dalla libertà del volere in se stesso, che non conosce alcuna necessità, con la necessità della sua manifestazione fenomenica – corrisponde la contraddizione, la quale non è altro che la sua ripetizione nel linguaggio riflesso della filosofia, tra le nostre argomentazioni intorno alla necessità della determinazione della volontà per mezzo dei motivi, in modo conforme al carattere, da una parte, e dall’altra quelle intorno alla possibilità della completa soppressione della volontà, in forza della quale i motivi diventano inefficaci.
- La chiave per eliminare questa contraddizione sta nel fatto che la condizione in cui il carattere è sottratto alla forza dei motivi non proviene in modo immediato dalla volontà, bensì da una mutata modalità di conoscenza. Vale a dire che fino a che la conoscenza non è altro che quella irretita dal principium individuationis, che segue in tutto e per tutto il principio di ragione, anche il potere dei motivi è irresistibile; se però si guarda al di là del principium individuationis si conoscono immediatamente le idee e addirittura l’essenza delle cose in sé, intesa come la medesima volontà presente in tutte le cose, e a partire da questa conoscenza si produce un quietivo universale del volere: i singoli motivi diventano allora inefficaci, poiché la modalità della conoscenza corrispondente a essi perde di importanza e viene oscurata da un’altra modalità del tutto diversa.
- Perciò è vero che il carattere non può trasformarsi in modo solo parziale, ma deve, con la consequenzialità di una legge di natura, eseguire in ogni singolo caso quella volontà di cui è la manifestazione fenomenica globale; ma proprio questa globalità, il carattere stesso, può essere soppressa completamente attraverso la sopra descritta trasformazione della conoscenza.
- Questa soppressione è stata anche chiamata rigenerazione e la conoscenza che da essa deriva è stato chiamato effetto della Grazia: proprio perché non si tratta di un semplice cambiamento, bensì di una soppressione radicale del carattere, ne viene che, per quanto diversi fossero, prima di tale soppressione, i caratteri che sono stati colpiti da essa, essi ciononostante mostrano una notevole somiglianza nel modo di agire, sebbene ciascuno parli ancora, secondo i propri concetti e i propri dogmi, in modo molto diverso dagli altri.
- Ciò che i mistici cristiani chiamano grazia efficace e rigenerazione è per noi l’unica espressione immediata della libertà della volontà.
- Essa si produce quando la volontà, giunta alla conoscenza della propria essenza in sé, ottiene da essa un quietivo e, proprio per questo, viene sottratta all’efficacia dell’azione dei motivi, che appartiene al dominio di una diversa modalità della conoscenza, i cui oggetti sono solo i fenomeni.
- Necessità è il regno della natura, libertà è il regno della grazia.
- Ora, poiché quella auto-soppressione della volontà deriva dalla conoscenza, ma ogni conoscenza e ogni comprensione sono come tali indipendenti dall’arbitrio, ne segue che anche quella negazione del volere, quell’ingresso nella libertà, non lo si può conseguire di proposito, ma proviene dalla profondissima relazione che, nell’uomo, il conoscere ha con il volere, e giunge perciò all’improvviso e come se ci piovesse addosso dall’esterno.
- Dietro la nostra esistenza si nasconde qualcosa d’altro, al quale possiamo giungere solo una volta che ci siamo scossi il mondo di dosso.
§ 71 Il concetto di «nulla»
- A quanto detto sopra si potrebbe ipotizzare un’obiezione: una volta che la nostra trattazione è giunta infine a farci vedere nella perfetta santità la negazione e l’abbandono di ogni volere, e proprio per questo la redenzione di un mondo la cui intera esistenza ci si è presentata come sofferenza, ebbene, non è che proprio questo ci appare come un passaggio nel puro nulla?
- Qui debbo anzitutto osservare che il concetto di nulla è un concetto essenzialmente relativo e si riferisce sempre solo a un che di determinato che esso nega.
- Questa caratteristica è stata attribuita solo al nihil privativum (Kant) che viene contrassegnato con il segno meno in contrapposizione al segno più, un segno meno che, con un rovesciamento del punto di vista, poteva diventare un più; e, in contrapposizione al nihil privativum, è stato posto un nihil negativum, che fosse il nulla sotto ogni rispetto, come esempio del quale si usa la contraddizione logica che toglie sé medesima.
- Considerando la questione più da vicino, un nulla assoluto, un nihil negativum vero e proprio, non lo si può neanche pensare; invece ogni nulla di questo genere, se lo si considera da un punto di vista più elevato o lo si sussume sotto un concetto più ampio, si riduce sempre solo a un nihil privativum.
- Ciascun nulla è pensato come tale solo in relazione a qualcosa d’altro e presuppone questa relazione, e dunque questo qualcosa d’altro. La stessa contraddizione logica non è che un nulla relativo. Non è affatto un pensiero razionale, ma non per questo è un nulla assoluto. La contraddizione logica non è altro che una combinazione di parole, un esempio del non-pensabile, di cui nella logica si ha necessariamente bisogno per provare le leggi del pensiero; perciò, quando a questo scopo si ricorre a un esempio di questo genere, si concentra l’attenzione sull’assurdo, come il positivo di cui si va alla ricerca, e si trascura invece come negativo ciò che ha senso.
- Cos’ dunque ogni nihil negativum, o Nulla assoluto, se viene subordinato a un concetto più elevato, apparirà sempre come un nihil privativum, o Nulla relativo, il quale può sempre scambiare il proprio segno con ciò che nega, di modo che quest’ultimo possa essere pensato come negazione, ed esso stesso, al contrario, come posizione.
- Ciò che è universalmente assunto come positivo, che è ciò che noi chiamiamo l’essente e la cui negazione è espressa nel suo significato più universale dal concetto di nulla, è appunto il mondo della rappresentazione che è l’oggettità della volontà, il suo specchio.
- Questa volontà e questo mondo siamo poi anche noi stessi, e a essi appartiene, come uno dei suoi lati, la rappresentazione in generale: le forme di questa rappresentazione sono lo spazio e il tempo, sì che tutto ciò che da questo punto di vista è essente deve trovarsi in qualche luogo e in qualche tempo.
- Alla rappresentazione appartengono poi anche il concetto, il materiale della filosofia, e infine la parola, il contrassegno del concetto.
- La negazione, la soppressione, il rovesciamento della volontà sono anche la soppressione e la scomparsa del mondo, che ne è lo specchio. Non vedendola più riflessa in questo specchio, ci chiediamo invano dove si sia rivolta, e ci lamentiamo come se, dato che essa non ha più un dove e un quando, fosse svanita nel nulla.
- Un punto di vista rovesciato, se fosse possibile per noi assumerlo, opererebbe un rovesciamento dei segni, e mostrerebbe che quello che noi consideriamo essente è nulla, e che quel nulla è essente. Sino a quando però noi stessi siamo la volontà di vivere, lo possiamo riconoscere e indicare solo negativamente, poiché l’antico principio di Empedocle, secondo il quale il simile può essere riconosciuto solo con il simile, ci preclude qui del tutto ogni possibilità di conoscenza, come pure, al contrario, proprio su di esso si basa in ultima analisi la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, vale a dire il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Poiché il mondo è l’auto-riconoscersi della volontà.
- Ove tuttavia si continuasse a ogni costo a pretendere di ottenere, in un modo o nell’altro, una conoscenza positiva di ciò che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non ci resterebbe altro che rinviare alla condizione della quale ebbero esperienza tutti coloro che sono giunti sino alla completa negazione della volontà, e che è stata designata con i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via; una condizione che però non si può chiamare in senso proprio conoscenza, poiché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto e, per di più, è raggiungibile solo nella propria esperienza personale e non può essere comunicata.
Il punto di vista della filosofia
- Ma noi, che ci atteniamo in tutto e per tutto al punto di vista della filosofia, dobbiamo qui accontentarci della conoscenza negativa, soddisfatti di aver raggiunto il confine estremo di quella positiva.
- Abbiamo dunque riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutte le manifestazioni fenomeniche di quest’ultimo unicamente la sua oggettità; e quest’ultima l’abbiamo inseguita dall’impulso inconsapevole delle più oscure forze naturali sino alle più consapevoli azioni dell’uomo; così non intendiamo in alcun modo sottrarci alla conseguenza che con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono soppressi anche tutte quelle manifestazioni fenomeniche, quel perenne impulso e quel continuo sforzo senza scopo e senza tregua, a tutti i livelli dell’oggettità, in cui e grazie a cui il mondo consiste, viene soppressa la varietà delle forme che si succedono gradualmente, viene soppresso insieme alla volontà l’intero suo fenomeno, e infine vengono soppresse anche le forme universali di quest’ultimo, tempo e spazio, e anche la sua forma fondamentale, il soggetto e l’oggetto. Nessuna volontà: nessuna rappresentazione, nessun mondo.
- Dinnanzi a noi resta dunque solo il nulla. Ma ciò che si ribella di fronte a questo dissolversi nel Nulla, la nostra natura, è appunto esso stesso solo la volontà di vivere che noi stessi siamo, così come essa è il nostro mondo.
- Il fatto che noi detestiamo così visceralmente il nulla, altro non è che una diversa espressione del fatto che vogliamo così intensamente la vita, che non siamo altro che questa volontà, e che non conosciamo nient’altro che lei.
- Ma se rivolgiamo lo sguardo dalla condizione di indigenza e di parzialità che ci è propria a coloro i quali hanno superato il mondo, nei quali la volontà, conseguita la piena conoscenza di sé, ha ritrovato se stessa in tutte le cose e quindi ha liberamente negato se stessa, e i quali, perciò, attendono di veder scomparire ancora, con il corpo, solo l’ultima traccia di essa, che ancora li tiene in vita; allora ci si mostrerà, in luogo dell’impulso e dello sforzo incessanti, in luogo del continuo passaggio dal desiderio al timore e dalla gioia alla sofferenza, in luogo della speranza che non può mai essere soddisfatta e mai essere estinta, in cui consiste il sogno della vita dell’uomo che vuole, quella pace che è più alta di qualsiasi ragione, quella calma piatta dell’animo, quella quiete profonda, quella fiducia e quella serenità imperturbabili il cui semplice riflesso sul volto, come lo hanno raffigurato i grandi Raffaello e Correggio, è da solo un completo e sicuro Vangelo: solo la conoscenza è rimasta, la volontà è scomparsa.
- Ma noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato vicino al quale la miseria e la disperazione della nostra condizione appaiono, per contrasto, in piena luce. E tuttavia quella contemplazione è la sola che ci possa dare una consolazione durevole, una volta che noi da una parte abbiamo riconosciuto che alla manifestazione fenomenica della volontà, al mondo, appartengono essenzialmente una sofferenza incurabile e una miseria senza fine, e dall’altra vediamo che, con la soppressione della volontà, anche il mondo si dissolve e che dinnanzi a noi non resta che la vuotezza del Nulla.
- In questo modo, dunque, attraverso la considerazione della vita e della condotta dei santi – nei quali, purtroppo, raramente è concesso di imbatterci direttamente, ma che ci sono condotti dinanzi agli occhi dalla storia che di essi ci viene raccontata e, con l’impronta di una verità più profonda, dall’arte -, dobbiamo scacciare la tetra impressione di quel Nulla che si profila come la meta finale alle spalle di ogni virtù e di ogni santità, e che noi temiamo come i bambini che hanno paura del buio, invece di avvolgerlo, come fanno gli Indiani, di miti e di parole senza senso. Noi piuttosto lo ammettiamo apertamente: quello che rimane dopo la completa soppressione della volontà è, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, senza dubbio il nulla. Ma, al contrario, per coloro nei quali la volontà si è rivolta contro se stessa e ha negato se stessa, è questo nostro mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, a essere nulla.
ARTUR SCHOPENHAUER
«Il mondo come volontà e rappresentazione»
(prima edizione 1819 – terza ed. 1859)

