La natura negativa della felicità

di Arhtur Schopenhauer.

§ 58 La natura negativa della felicità

  • Il desiderio, ossia la mancanza, è la condizione preliminare di ogni piacere. La soddisfazione o la felicità non sono nient’altro che la liberazione da un dolore, da un bisogno. Ora, però è così difficile che si riesca a raggiungere e a ottenere qualcosa: a ogni progetto si contrappongono difficoltà e fatiche senza fine, e gli ostacoli si moltiplicano a ogni passo. Quando, infine, tutto è stato superato e tutto è stato raggiunto, non è possibile ottenere nient’altro se non di essere liberati da una qualche sofferenza o da un qualche desiderio e, di conseguenza, ci si ritrova nella situazione in cui ci si trovava in precedenza.
  • A noi è data immediatamente sempre e solo la mancanza, vale a dire il dolore. Invece, la soddisfazione e il piacere non li possiamo conoscere se non in modo mediato, per mezzo del ricordo delle sofferenze e delle privazioni passate, alle quali il loro sopraggiungere ha posto fine.
  • Segue da ciò che non ci rendiamo conto in modo preciso dei beni e dei vantaggi di cui siamo effettivamente in possesso né li sappiamo apprezzare, ma crediamo che debbano essere proprio così come sono: essi infatti ci danno gioia sempre solo negativamente, tenendo lontano le sofferenze. Prima di poterne sentire il valore dobbiamo averli perduti, poiché il positivo che si rende noto immediatamente è costituito dalla mancanza, dalla privazione, dalla sofferenza.
  • Anche per questo ci rallegra il ricordo del bisogno, della malattia, della privazione, ecc., che abbiamo superato; e non si può nemmeno negare che, sotto questo aspetto e dal punto di vista dell’egoismo, che è la forma della volontà di vivere, la vista o la descrizione delle sofferenze altrui ci diano soddisfazione e piacere, proprio per quella via di cui ci parla Lucrezio: «dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti \ l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio, \ non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, \ ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce» (De rerum natura,II).
  • Che ogni felicità abbia una natura solo negativa e che proprio per questo non possa dare alcun appagamento e alcuna felicità durevoli, ciò trova una giustificazione anche in quello specchio fedele dell’essenza del mondo e della vita che è l’arte, e in particolare nella poesia. Quello che vediamo nella poesia lo troviamo anche nella musica, nella cui melodia, espressa in modo generale, abbiamo riconosciuto la storia più intima della volontà consapevole di sé, la vita più segreta, le aspirazioni, le sofferenze e le gioie, il flusso e il riflusso del cuore dell’uomo.
  • L’irraggiungibilità dell’appagamento e il carattere negativo della felicità trova la sua spiegazione nel fatto che la volontà, dalla quale la vita umana, come ogni fenomeno, è un’oggettivazione, è una tensione senza scopo e senza fine. L’impronta di questa infinità la troviamo impressa anche in tutte le parti del suo manifestarsi complessivo, della sua forma più generale – il tempo e lo spazio senza fine – sino al più perfetto di tutti i fenomeni, la vita e la tensione degli uomini.
  • Si possono pensare, in linea teorica, tre estremi della vita umana e considerarli come elementi della vita umana reale. Il primo luogo la volontà potente, le grandi passioni. Poi, in secondo luogo, il puro conoscere, la comprensione delle idee, che dipende dalla liberazione della conoscenza dall’asservimento della volontà. In terzo ed ultimo luogo, il più profondo letargo della volontà, e quindi della conoscenza a essa legata, la vuota aspirazione, la noia che paralizza la vita.
  • La vita dell’individuo, ben lungi dal restare ferma in uno di questi estremi, li tocca solo di rado ed è, il più delle volte, solo un debole ed esitante avvicinarsi a questa o a quella parte, un povero voler oggetti insignificanti che si ripete in continuazione e sfugge in questo modo alla noia.
  • Essa è un fievole aspirare e soffrire, un barcollare come in sogno attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con l’accompagnamento di una serie di pensieri triviali. Questi uomini sono come degli automi teleguidati che camminano senza sapere il perché; e, ogni volta che un uomo viene concepito e partorito, l’orologio della vita umana viene ricaricato, per ripetere ancora una volta la stessa musica già suonata innumerevoli altre volte, frase per frase e battuta per battuta, con variazioni insignificanti.
  • Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita umana non sono più che un breve sogno dell’infinito spirito della natura, della tenace volontà di vivere, non sono più che un disegno fuggevole che essa, per gioco, traccia sul suo foglio infinito, lo spazio e il tempo, e che lascia sussistere solo per un attimo che, di contro alla loro immensità, risulta appena percettibile, e poi la cancella per lasciar spazio ad altri disegni. Nondimeno – e in questo sta la parte seria della vita – ciascuno di questi fuggevoli disegni, di questi insipidi capricci, deve essere pagato dalla volontà di vivere tutta intera, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori e, da ultimo, con una morte amara, che è stata a lungo temuta e che, finalmente, sopraggiunge.
  • E così, come se il destino avesse voluto aggiungere alla miseria della nostra esistenza la beffa, la nostra vita deve contenere in sé tutti i dolori della tragedia, mentre noi non siamo in grado di conservare nemmeno una volta la dignità del personaggio tragico, e siamo destinati a essere, negli innumerevoli eventi particolari della vita, dei goffi caratteri da commedia.
  • Ora, per quanto affanni grandi e piccoli riempiano ogni vita umana e la mantengano in uno stato di perenne inquietudine e movimento, essi non riescono tuttavia a nascondere l’insufficienza della vita nel soddisfare lo spirito, il vuoto e la mancanza di sapore dell’esistenza, né a bandire la noia, la quale è sempre pronta a riempire ogni pausa lasciata libera dalle preoccupazioni.
  • Da ciò deriva il fatto che lo spirito umano, non ancora soddisfatto dalle preoccupazioni, dalle afflizioni e dalle occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, sotto la forma di mille superstizioni diverse, un mondo immaginario nel quale si affatica in tutti i modi, dedicandogli tutto il proprio tempo e tutte le proprie forze non appena il mondo reale gli conceda quella quiete che non riesce a sopportare.
  • L’uomo si crea demoni, dèi e santi a propria immagine e somiglianza; ad essi devono poi essere offerti sacrifici, preghiere, gli ornamenti dei templi, voti, pellegrinaggi, e così via. È l’espressione e il sintomo del duplice bisogno dell’uomo, da una parte il bisogno di aiuto e di sostegno, dall’altra di un’occupazione e di un passatempo. 

§ 59 La vita umana è una sofferenza multiforme

  • Giunti a questo punto, ci siamo persuasi a priori che la vita umana, già per la sua impostazione complessiva, è del tutto incapace di una vera felicità, ed è al contrario essenzialmente una sofferenza multiforme e uno stato assolutamente sciagurato.
  • Chiunque si sia destato dai primi sogni giovanili, abbia fatto attenzione alla propria esperienza e a quella altrui, si sia guardato intorno nella vita, nella storia del passato e in quella del tempo attuale, ne avrà certamente ricavato che questo mondo umano è il regno del caso e dell’errore, i quali in esso comandano in modo spietato nelle grandi come nelle piccole cose e accanto ai quali la follia e la malvagità brandiscono la frusta.
  • Ne deriva che ogni cosa buona potrà farsi strada soltanto a fatica e che solo raramente qualcosa di nobile e di saggio potrà venire alla luce e risultare efficace o trovare credito, mentre l’assurdo e il falso nel dominio del pensiero, il banale e l’insulso, nel dominio dell’arte, il malvagio e il fraudolento nel dominio dell’azione, mantengono in effetti la supremazia, appena disturbati da qualche breve interruzione.
  • L’eccellenza, in ogni genere di cose, è viceversa sempre e solo un’eccezione, un caso fra milioni di altri, sì che, anche quando si sia rivelata in qualche opera duratura, questa poi, dopo essere sopravvissuta al rancore dei contemporanei, rimane isolata.
  • Per ciò che poi concerne la vita dell’individuo, la storia di ogni vita è storia di sofferenza: ogni percorso esistenziale è, di regola, una serie ininterrotta di disgrazie grandi e piccole, che in effetti ciascuno tiene nascoste meglio che può.
  • Il contenuto essenziale del celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare è che il nostro stato è così miserabile che un assoluto non-essere dovrebbe essergli sicuramente preferito. Il suicidio ci offre realmente il non-essere? In noi c’è qualcosa che ci dice che le cose non stanno in questo modo; che con esso non tutto ha fine, che la morte non è affatto un annientamento assoluto.
  • Ciò corrisponde a quanto detto da Erodoto, il padre della storia: «infatti nel corso di una vita così breve nessun essere umano […] è tanto felice che gli sia capitato – e non una sola volta, ma più volte – di desiderare di essere morto piuttosto che vivo. Le sciagure che si abbattono su di noi e le malattie che ci tormentano ci fanno sembrare lunga un’esistenza che invece è breve. Così, poiché la vita è piena di affanni, la morte diviene per l’uomo il rifugio di gran lunga preferibile» (Le storie, VII); da allora non è mai stato contraddetto.
  • Ne segue che la così spesso lamentata brevità della vita potrebbe essere quel che in effetti la vita ha di meglio. Se si conducesse il più ostinato degli ottimisti attraverso tutti i luoghi dove impera il dolore e la miseria umana, sicuramente finirebbe anch’egli per comprendere di che specie sia questo migliore di mondi possibili. Da dove ha preso Dante la stoffa per il suo Inferno se non da questo mondo reale?
  • Da ciò appare in modo adeguatamente chiaro quale sia la natura di questo mondo. È certo che nella vita umana, come in ogni merce di cattiva qualità, l’aspetto esteriore è ricoperto da uno splendore fasullo. Eppure, anche sotto questo vano miraggio, gli affanni della vita possono aumentare a tal punto che la morte, la quale diversamente viene temuta più di ogni altra cosa, venga afferrata con avidità.
  • Sempre, in questa questione fondamentale come in ogni altra, l’uomo è ricondotto a fare assegnamento su se stesso. È inutile che si costruisca gli dèi per mendicare e carpire da essi ciò che soltanto la sua propria forza di volontà gli può procurare.
  • l’Antico Testamento aveva fatto del mondo e dell’uomo l’opera di Dio; così si vide il Nuovo Testamento costretto, per insegnare che la salvezza e la redenzione dalla miseria di questo mondo possono provenire solo da questo mondo stesso, a trasformare quel Dio in un uomo. La volontà dell’uomo è e rimane ciò da cui per l’uomo dipende tutto quanto. Nei Vangeli, le parole «mondo» e «male» vengono usate quasi come sinonimi.

§ 60 L’affermazione della volontà

  • L’affermazione della volontà è l’invariabilità del volere stesso, non turbato da alcuna conoscenza, che riempie la vita di un uomo in generale. Dato che già il corpo dell’uomo è oggettità della volontà, come essa appare a un dato grado e in quanto individuo determinato, il suo volere che si sviluppa nel tempo è, per così dire, la parafrasi del corpo, il commentario del suo significato complessivo e di quello delle sue parti, è un altro modo di rappresentare la medesima cosa in sé, della quale anche il corpo è già rappresentazione fenomenica.
  • Invece di affermazione della volontà potremmo perciò dire anche affermazione della vita. Il tema fondamentale di tutti gli svariati atti della volontà è il soddisfacimento dei bisogni, che sono inseparabili dall’esistenza del corpo in buona salute, che hanno già in esso la loro espressione e che si lasciano ricondurre alla conservazione dell’individuo e alla riproduzione della specie. 
  • Solo che in questo modo i motivi più diversi esercitano indirettamente il loro potere sulla volontà e ne producono gli atti più svariati. Ognuno di questi è solo un saggio, un esempio della volontà in generale che qui si rende manifesta: di quale natura sia questo saggio, quale forma abbia il motivo e quale forma comunichi a esso non è essenziale; la questione qui è soltanto che, in generale, si voglia, e con quale intensità. 
  • La volontà può rendersi visibile solo in relazione ai motivi, come l’occhio può mostrare la sua capacità di vedere solo alla luce. Il motivo in generale sta dinnanzi alla volontà come un Proteo multiforme: promette sempre una piena soddisfazione, una completa estinzione della sete della volontà; ma, una volta che sia stato raggiunto, eccolo riapparire in un’altra forma e, in essa, mettere nuovamente in moto la volontà, sempre secondo il grado di intensità che le compete e secondo la sua relazione con la conoscenza, i quali proprio per mezzo di tali saggi ed esempi diventano manifesti come carattere empirico.
  • L’uomo si scopre, sin dal primo manifestarsi della sua coscienza, come volente e, di regola, la sua conoscenza resta in relazione costante con la sua volontà. Egli cerca di imparare a conoscere in modo completo dapprima gli oggetti del proprio volere, poi i mezzi per poterli conseguire. Ora egli sa quello che deve fare e, di regola, non aspira ad alcun altro sapere.
  • Agisce e si dà da fare: la coscienza di sforzarsi sempre di raggiungere lo scopo del proprio volere lo tiene in piedi e lo mantiene attivo, e il suo pensiero va alla scelta dei mezzi.
  • Viene da lì una certa serenità, o quanto meno una certa tranquillità, alla quale né la ricchezza né la povertà tolgono, propriamente, nulla: poiché il ricco come il povero godono non di ciò che hanno, bensì di ciò che, con il loro darsi da fare, sperano di conseguire. 
  • È sempre un’eccezione quando il corso di una vita viene disturbato da un conoscere indipendente dall’asservimento alla volontà e diretto all’essenza del mondo in generale, sia che produca l’esigenza estetica della contemplazione, sia che produca l’esigenza etica della rinuncia.
  • I più sono assediati dal bisogno per tutta la vita, e ciò non lascia loro il tempo di riflettere. Al contrario, spesso la volontà si infiamma a un grado che oltrepassa di gran lunga quello dell’affermazione del corpo, grado che viene poi rivelato da violente emozioni e da forti passioni, nelle quali l’individuo non afferma tanto la propria esistenza, quanto piuttosto nega e cerca di sopprimere quella altrui, ove essa gli ostacoli il cammino.
  • La conservazione del corpo per mezzo delle sue stesse forze rappresenta un grado così minimo dell’affermazione della volontà che, se essa vi si arrestasse liberamente, noi potremmo ritenere che, con la morte di questo corpo, anche la volontà che in esso si manifestava si estingua.
  • Ma già la soddisfazione dell’istinto sessuale va al di là dell’affermazione della nostra propria esistenza, la quale riempie un tempo così breve, afferma la vita al di là della morte dell’individuo, per un tempo indeterminato. La natura, sempre vera e consequenziale, è qui addirittura ingenua e ci svela del tutto apertamente il significato profondo dell’atto dell’accoppiamento. La nostra coscienza, l’impetuosità dell’istinto ci insegnano che in questo atto si esprime, nella sua purezza e senza aggiunte estranee (come potrebbe essere la negazione di altri individui), la più energica affermazione della volontà di vivere; ed ecco che, nel tempo e nella serie casuale, ossia nella natura, appare, come conseguenza di quell’atto, una nuova vita: di contro a generante si pone il generato, diverso da esso in quanto fenomeno, ma in sé, o considerato secondo l’idea, identico a esso. È quindi per questo atto che le generazioni degli esseri viventi si collegano l’una all’altra in un tutto e, in questo modo, si perpetuano.
  • La procreazione è, in riferimento al generante, solo l’espressione, il sintomo della sua energica affermazione della volontà di vivere; in riferimento al generato essa non è la ragione della volontà che in lui si manifesta, dato che la volontà in sé non conosce né ragione né conseguenza; essa è invece, come ogni causa, solo la causa occasionale della manifestazione di questa volontà in un determinato tempo e luogo.
  • Come cosa in sé, la volontà del generante non è diversa da quella del generato, dato che solo il fenomeno, non la cosa in sé, è sottoposto al principium individuationis. Con quell’affermazione, che oltrepassa il nostro corpo e va fino alla produzione di un corpo nuovo, vengono affermate nuovamente anche la sofferenza e la morte, in quanto appartengono al fenomeno della vita, mentre la possibilità della redenzione, che può essere prodotta da una capacità di conoscere che abbia potuto raggiungere la sua massima perfezione, questa volta viene vanificata. Si trova qui la ragione profonda della vergogna  che accompagna le faccende legate alla generazione.
  • L’istinto sessuale si conferma come l’affermazione più energica e più forte della vita, anche per il fatto che per l’uomo allo stato di natura, come per l’animale, esso è il fine ultimo, lo scopo più alto della sua vita. Quella di conservare se stesso è la sua prima aspirazione e, non appena se ne sia preso cura, non aspira ad altro che alla riproduzione della specie: più che a questo, in quanto semplice essere naturale, non può aspirare.
  • Anche la natura, la cui intima essenza è la stessa volontà di vivere, spinge con tutte le sue forze l’uomo, come l’animale, alla riproduzione della specie. Con il che essa ha raggiunto lo scopo al quale l’individuo le poteva servire, ed è ora del tutto indifferente nei confronti della sua fine, dato che alla natura, come alla volontà di vivere, sta a cuore solamente la conservazione della specie, e per lei l’individuo è niente.
  • Poiché nell’istinto sessuale si manifesta nel modo più forte l’intima essenza della natura, la volontà di vivere, i poeti e i filosofi antichi – Esiodo e Parmenide – dissero in modo sensato che Eros è il primo, il creatore, il principio dal quale sono derivate tutte le cose.
  • I genitali sono il vero punto cruciale della volontà e, di conseguenza, il polo opposto al cervello, che rappresenta la conoscenza, vale a dire il polo opposto all’altra parte del mondo, rispetto al mondo della rappresentazione. Essi sono il principio della conservazione della vita, assicurano alla vita un tempo senza fine; in quanto dotati di questo carattere, furono venerati dai Greci e dagli Indù. La conoscenza, al contrario, rende possibile la soppressione del volere, la redenzione attraverso la libertà e l’annientamento del mondo.
  • Abbiamo mostrato come chi si ponga in modo del tutto consapevole dal punto di vista della più energica affermazione della vita possa guardare la morte in faccia senza paura. La maggior parte degli uomini adotta, senza averne una chiara consapevolezza, questo punto di vista e afferma continuamente la vita. 
  • Come specchio di tale affermazione c’è il mondo, con innumerevoli individui, posto in un tempo infinito e in uno spazio infinito, e in una infinita sofferenza, tra la generazione e la morte, senza fine. Quanto a questo, tuttavia, non ci si può lamentare da nessun punto di vista, poiché la volontà mette in scena a proprie spese la tragicommedia, e ne è anche l’unica spettatrice. Il mondo è quello che è appunto perché la volontà, della quale è il fenomeno, afferma se stessa; e questa affermazione è giustificata ed equilibrata dal fatto che essa stessa quelle sofferenze le subisce. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *