di Rudolf Otto

  • Il logos è una emanazione di Dio mediata dalla razionalità.
  • Il logos si manifesta attraverso i concetti che, a loro volta possono al massimo circoscrivere l’essere.
  • È essenziale che la divinità venga pensata in analogia all’essere personale e intelligente, come l’uomo la concepisce secondo il proprio limitato e ristretto modo di pensare.
  • Per ogni idea del divino a sfondo teistico è essenziale che la divinità sia concepita e indicata con molta chiarezza, facendo uso di predicati come spirito, intelligenza, volontà, volontà orientata, volontà positiva, unità di essenza, consapevolezza, ecc…
  • Ora, tutti questi attributi sono concetti chiari e distinti, per cui sono accessibili al pensiero, al pensiero analitico, e dunque anche passibili di una definizione.
  • Riteniamo dunque un indice di grandezza e di superiorità che una religione sia in possesso di «concetti» e conoscenze (e cioè conoscenze di fede) del soprannaturale espresse in concetti.
  • Nello stesso tempo dobbiamo tenere ben presente che i predicati razionali, quelli menzionati ed altri, non vadano a esaurire l’essenza della divinità.
  • Ogni lingua, nella misura in cui è composta di parole, vuole in primo luogo comunicare delle idee. E quanto più le idee sono chiare e distinte, tanto migliore è la lingua.
  • Ma anche se, come accade di solito, hanno un posto privilegiato, i predicati razionali esauriscono così poco l’idea del divino da essere persino capaci di esistere solamente a partire da un irrazionale e in ordine a esso.
  • Si tratta di predicati essenziali, ma che sono nello stesso tempo sintetici, e perciò possono essere intesi rettamente soltanto se sono riferiti a un oggetto di cui fanno qualifica e che tuttavia non sia ancora compreso in essi, anzi che non sia comprensibile, poiché ha bisogno di essere compreso in modo particolare e diverso.
  • La stessa mistica, in fondo, pensa così quando lo chiama l’árreton, l’ineffabile, altrimenti essa dovrebbe esistere solo nel silenzio.
  • Qui incontriamo la contrapposizione tra il razionalismo e la religione intesa in senso profondo. Il primo e più importante tratto distintivo del razionalismo, con tutto ciò che ne deriva, si trova qui. 
  • La distinzione, spesso conclamata, per cui il razionalismo è la negazione del «miracolo», mentre il suo opposto, l’irrazionalismo, ne sarebbe l’affermazione è chiaramente falsa, o almeno si tratta di una tesi molto superficiale.
  • Infatti, la teoria corrente secondo la quale il miracolo è un’occasionale rottura della catena della causalità naturale attraverso un’entità che l’ha posta in essere e che dunque ne è padrona, è una deduzione quanto mai «razionale».
  • L’affermazione per cui l’ortodossia stessa sarebbe la madre del razionalismo in effetti in parte è vera, ma non perché provenga dalla dottrina o dall’insegnamento, ma perché tale asserzione, non trovando nell’insegnamento alcun mezzo per rendere in qualche modo giustizia all’irrazionale del suo oggetto e poterlo mantenere vivo nella sua forma religiosa esperienziale, ha piuttosto unilateralmente razionalizzato l’idea di Dio nel chiaro disconoscimento di questo aspetto particolare.
  • E con un’energia e una forza che potrebbe dirsi straordinaria si chiudono gli occhi davanti all’aspetto altamente specifico dell’esperienza religiosa: se c’è una sfera dell’esperienza umana con qualcosa di specifico e da osservare come tale nel suo modo di manifestarsi, questa è proprio la sfera religiosa.
  • Conoscere e riconoscere qualcosa come «sacro» è primariamente una valutazione specifica, che in quanto tale di trova soltanto nell’ambito religioso. Tale categoria si impone subito rispetto anche ad altre, ad esempio all’etica, tuttavia essa non nasce da altre. Racchiude in se stessa un momento assolutamente specifico, che si sottrae al razionale nel senso sopra considerato, e si configura come un «ineffabile», nella misura in cui è totalmente inaccessibile alla comprensione concettuale.
  • L’impiego della parola «sacro» non è rigoroso. «Sacro» ha in sé tutti quei significati comunemente intesi, ma contiene, anche per il nostro sentimento, un’eccedenza.
  • La questione è piuttosto che la parola «sacro» e i suoi equivalenti nelle lingue semitiche, in latino, in greco e in altre lingue antiche indicavano soprattutto e in primo luogo soltanto questa eccedenza, e non certo il momento della moralità, o perlomeno non fin dall’inizio, e in ogni caso mai in modo esclusivo.
  • La più intima caratteristica di tutte le religioni, ma in maniera privilegiata nella religione biblica, dove assume anche un nome particolare, e cioè qādosh che corrisponde all’hágios e al sanctus e in maniera più precisa al sacer, comprende anche il «buono» e il buono assoluto, considerato cioè nel momento di più alto sviluppo dell’idea, viene tradotta con il termine «sacro».
  • Ma il termine «sacro», di fatto, è anzitutto il frutto di una progressiva schematizzazione etica e corrisponde al riempimento di un momento originario e specifico, che in se stesso può anche essere indifferente all’aspetto etico e può essere considerato in sé e per sé. 
  • E agli inizi dello sviluppo di questo momento, tutte quelle espressioni significano senza dubbio qualcosa ti totalmente diverso rispetto al «buono».
  • Tradurre qādosh semplicemente con «buono» viene giustamente considerata un’interpretazione di carattere razionalistico.
  • È importante quindi trovare un nome per indicare questo momento nella sua specificità, un nome che in primo luogo sia in grado di fissarne la forma particolare e in secondo luogo consenta di tener conto e di definire anche le possibili sotto-determinazioni o i gradi di sviluppo.
  • Per questo vorrei forgiare il seguente termine: numinoso, intendendo parlare, con esso, di una speciale categoria numinosa che sia interpretativa e valutativa in rapporto a un particolare stato d’animo. Poiché è assolutamente sui generis, questa categoria non è definibile in senso stretto, come non lo è nessun dato fondamentale originario, ma ha soltanto un carattere evocativo: non lo si può insegnare, ma soltanto stimolare, suscitare, come tutto ciò che viene dalli «Spirito».
  • Da cristiani, subito ci imbattiamo qui senz’altro in sentimenti che ci sono famigliari anche in altri ambiti, benché in tono minore: sentimenti di riconoscenza, di tristezza, d’amore, di fiducia, di umile sottomissione, di accettazione. Tuttavia, questo non esaurisce il momento religioso, né traduce gli elementi del tutto particolari della «solennità», così come non rende ragione della grandiosità dello strano coinvolgimento emotivo che solo qui ha luogo.
  • Questo «sentimento di dipendenza» che si professa da sé, che è molto di più e nello stesso tempo qualitativamente tutt’altra cosa da ogni sentimento naturale di dipendenza, possiamo definirlo sentimento creaturale: il sentimento sella creatura che sprofonda nel proprio nulla e scompare di fronte a quella realtà che è al di sopra di ogni creatura; ma anch’esso non offre una chiarificazione concettuale della cosa.
  • Il sentimento religioso non sarebbe neanche un auto-sentimento, vale a dire il sentimento di una particolarità specifica del mio io, cioè il sentimento della mia dipendenza. Infatti, questo è totalmente contrario all’evidenza spirituale. Il «sentimento creaturale», piuttosto, è esso stesso un momento soggettivo concomitante e un effetto, che accompagna al contempo come un’ombra un altro momento emotivo (e cioè il momento del «timore»).
  • Quest’ultimo fa senza dubbio riferimento anzitutto e immediatamente a un oggetto fuori di me. Ma proprio questo è l’oggetto numinoso. Soltanto là dove il numen viene inteso come praesens, può sorgere nell’animo il sentimento creaturale come suo riflesso.
  • La rappresentazione degli dèi della Grecia nella coscienza umana era percepita come qualcosa di realmente presente: era un sentimento profondo e universale di qualcosa di oggettivamente esistente.
  • Di questo «sentimento reale» come dato primo e immediato, e cioè di questo sentimento di un numinoso dato oggettivamente, il «sentimento di dipendenza», o meglio il sentimento creaturale, è un effetto solo successivo, in quanto è una svalutazione del soggetto percipiente in relazione a se stesso. O, in altri termini, il sentimento di una mia «assoluta dipendenza» ha per presupposto un sentimento di una sua «assoluta superiorità».
  • Ma che cos’è e come si comporta questo numinoso, percepito in modo oggettivo fuori di me? Che esso sia in se stesso irrazionale, e cioè non chiarificabile in concetti, sarà riconoscibile soltanto tramite la speciale reazione emotiva che provoca nell’animo che lo vive. È in questo modo che il numinoso afferra e smuove l’animo umano con l’uno e l’altro tipo di esperienza emotiva.
  • Cerchiamo qui questa primaria risonanza emotiva legata all’oggetto, cui segue secondariamente nel sentimento di sé, come un’ombra, il sentimento creaturale.
  • Prendiamo in considerazione ciò che è più profondo e più intimo in ogni forte emozione religiosa, ciò che può qualche volta anche commuovere e riempire il nostro animo con una forza quasi sconvolgente; esso può avere varie manifestazioni, ma in ogni caso è il frutto del silenzioso e riverente brivido della creatura davanti a ciò che è il mistero indicibile, che sgorga al di là della sfera della comprensione razionale.
  • Dal punto di vista concettuale, il mysterium non indica niente altro che ciò che è nascosto, ma con ciò è indicato qualcosa di assolutamente positivo, e la positività viene vissuta unicamente nel sentimento.
  • Alla forma positiva della cosa rinvia anzitutto l’aggettivo tremendum. Il Tremor, di per sé è semplicemente la paura: un ben noto sentimento «naturale» che però è una cosa ben diversa dal timore.
  • In alcune lingue esistono espressioni che indicano questa «paura» che è più della paura. Per esempio «santo» in ebraico (hiq’dīsh). «Santificare nel cuore» una cosa significa contrassegnarla con un sentimento di speciale timore reverenziale, non confondibile con altre paure. Si tratta di qualcosa connesso con il terrore panico (deíma panikón) dei greci antichi. È uno spavento pieno di intimo orrore, quale nessun essere creato riesce a suscitare: ha in sé qualcosa di spettrale. La lingua greca ha per questo il termine sebastós.
  • Da questo timore e dalla sua forma grezza, da questo sentimento che è scoppiato una volta in una qualche prima vibrazione di fronte a qualcosa di «inquietante» che si manifestava estraneo e nuovo al sentire dell’umanità agli albori sono derivati tutti gli sviluppi storico-religiosi.
  • In questo sentimento hanno le loro radici i «demoni» e gli «dèi» e tutto ciò che l’appercezione mitologica o la fantasia riuscirono a creare nella concretizzazione di questo sentimento.
  • La religione non è nata da paure di tipo naturale, e neppure da una presunta generica angoscia nei confronti del mondo: l’essere presi dal terrore, infatti, non è la paura abituale e naturale. È una categoria possibile soltanto a colui che si è reso consapevole di una determinata predisposizione del sentimento, certo diversa da ogni predisposizione «naturale».
  • Nella forma del «timore demoniaco», esso costituisce, nella sua prima e rozza vibrazione, il proprio specifico contrassegno della cosiddetta «religione dei primitivi» che, anche se superate ed evolute in forme nuove, possono irrompere di nuovo nell’anima, e del tutto ingenuamente. Ciò appare, per esempio, nella forza e nella suggestione che ha l’orrore nei racconti di spettri e fantasmi. La sua essenza è del tutto indipendente dai gradi di intensità. Può essere tanto violenta da entrare nelle ossa, tremare le membra e drizzare i capelli. Ma può anche sopraggiungere tramite un’emozione molto delicata e con una trasformazione appena percettibile e fuggevole della mente. Ha propri gradi di intensità, ma non è una forma di intensificazione di un altro timore. Io posso essere pieno di paura, angoscia e spavento oltre ogni misura, senza che vi siano tracce di un sentimento «inquietante».
  • Nemmeno i piaceri si distinguono soltanto per gradi di intensità, ma si differenziano tra loro per mezzo di specifiche selezioni. Costituiscono stati d’animo di tipo diverso, a seconda che l’anima si trovi in uno stato di piacere, di soddisfazione, di gioia, o si trovi in un rapimento estetico o in una esaltazione morale o infine nella beatitudine religiosa propria dell’esperienza devota. Simili stati d’animo hanno tra loro certamente delle analogie e delle affinità, ma non si riesce a comprendere chiaramente quale sia l’essenza di ogni singolo stato d’animo.
  • Il sentimento del numinoso, nei suoi stadi più elevati, è assai diverso dal puro timore demoniaco, anche se nemmeno qui nega le proprie origini e parentele. Anche là dove la fede nei demoni si è da tempo elevata a fede negli dèi, gli «dèi», in quanto numina, mantengono sempre per il sentimento qualcosa di spiritico in sé, e cioè il carattere specifico di ciò che è «inquietante e terrificante», carattere che contribuisce a plasmare la «sublimità» o viene da questa schematizzato.
  • E questo momento non scompare neppure negli stadi più elevati, della pura fede in Dio, e non può qui per essenza scomparire: si limita ad attenuarsi e a nobilitarsi. L’orrore ha perduto il suo senso di smarrimento, ma non il suo indicibile fascino. Resta il timore mistico, che scioglie il sentimento naturale sopra descritto, come riflesso concomitante, nell’autocoscienza, il sentimento della propria nullità, del proprio sprofondare di fronte alla tremenda realtà vissuta nell’esperienza oggettivata del «tremore».
  • Per designare il momento che suscita il Tremor numinoso si ha una «proprietà» del numen che assume un ruolo centrale nei nostri testi sacri, si tratta dell’ira di Dio. Essa divampa e si manifesta in modo enigmatico come una forza nascosta della natura. È incontrollabile e aleatoria. 
  • Quest’ira non è nient’altro che il tremendum stesso il quale, essendo totalmente irrazionale, qui viene concepito ed espresso facendo uso di un’analogia ingenua presa in prestito dal mondo naturale, e cioè dalla vita interiore, che è inevitabilmente usata per dare espressione al sentimento religioso. 
  • In questo contesto è a sua volta illuminante che questa parola non sia un «concetto» propriamente razionale, ma soltanto un’analogia concettuale, un momento stranamente respingente, colmo di timore, assai sconcertante per coloro che sono soltanto disposti a riconoscere la bontà, la mitezza, l’amore e l’affidabilità di Dio.
  • La razionalizzazione di quest’ira, di solito erroneamente definita «naturale», ma in realtà decisamente innaturale, cioè numinosa, consiste nel suo riempimento con i momenti etico-razionali della giustizia divina, relativamente alla ricompensa e alla punizione in ordine alle trasgressioni di carattere morale.
  • Il momento del tremendum è per noi trascrivibile con più completezza come tremenda majestas. Il momento della majestas può mantenersi vivo quando il primo momento, quello dell’inavvicinabilità, si ritira e svanisce, come può capitare ad esempio nella mistica. Soprattutto a questo momento dell’assoluta soverchianza, di questa majestas, fa riferimento come sua ombra e riflesso soggettivo quel «sentimento creaturale» che si chiarisce come il sentimento del proprio sprofondare, del proprio annientarsi, del sentirsi terra, cenere e nulla. Del resto questo sentimento costituisce la materia prima  del sentimento dell’umiltà religiosa.
  • Questo porta a un senso di dipendenza che poi sarebbe da parte della divinità la causalità, e cioè la causalità originaria universale, o meglio la condizionatezza di ogni essere. Ma questo momento non è affatto il primo e più immediato che incontriamo quando pensiamo al «sentimento pio» nel contesto della devozione. Questo momento non è neppure qualcosa di numinoso, ma soltanto il suo schema. Esso infatti non è un momento irrazionale, ma appartiene pienamente alla parte razionale dell’idea di Dio, potendosi sviluppare con precisione tramite concetti e avendo tutt’altra fonte di provenienza.
  • La «dipendenza» espressa dalle parole di Abramo non è invece quella proveniente dal sapere di essere creati, ma dal sentimento della creaturalità, che è impotenza e riconoscimento della propria nullità di fronte alla soverchianza. Infatti, la majestas e «l’essere polvere e cenere» di Abramo conducono a una serie di concezioni del tutto diverse rispetto alle idee di creazione e di conservazione. Quei simboli coinvolgono da una parte l’annichilimento dell’io e dall’altra l’unica e assoluta realtà della trascendenza, elementi questi che sono propri di certe forme di mistica.
  • Si pensi alle espressioni di Meister Eckhart sulla povertà e sull’umiltà. Quando l’uomo si fa povero e sottomesso, allora Dio diventa tutto in ogni cosa, diventa l’essere e l’esistente tout court. Dalla majestas e dall’umiltà nasce il concetto «mistico» di Dio, non l’idea connessa al platonismo e al panteismo, ma quella che proviene dall’esperienza di Abramo.
  • Si potrebbe definire la mistica che scaturisce dalla majestas e dal sentimento creaturale come «mistica della majestas». Questa, rispetto alla sua origine, è certamente molto diversa dalla mistica della «visione unitiva», per quanto possa legarsi intimamente a quest’ultima. In Meister Eckhart forma  un chiaro e percettibile disegno, intimamente connesso alla speculazione sull’essere e riflesso nella sua «visione unitiva», mantenendo tuttavia un proprio e singolare motivo, che ad esempio non risulta in Plotino. Tale motivo viene colto da Meister Eckhart quando dice: «Fate in modo che Dio diventi grande in voi»; oppure, in ancora più evidente accordo con Abramo: «Quando dunque ti sei guardato dentro di te, vedi che Io sono e tu non sei»; o ancora: «Veramente! Io e tutte le creature non siamo nulla, soltanto Tu sei e sei tutte le cose». Questa è mistica, ma che evidentemente non è nata dalla metafisica dell’essere, e tuttavia può far in modo che essa si metta al suo servizio.
  • Infine, i momenti del tremendum e della majestas contemplano in se stessi un terzo momento, che vorrei chiamare l’energia del numinoso. È riconoscibile in modo sensibile soprattutto nell’ira di Dio, e si esprime negli ideogrammi della vitalità, della passione, di un essere pieno di sentimento, della volontà, della forza, del movimento, dell’eccitabilità, dell’attività e della brama. Questi suoi tratti derivano essenzialmente dagli stadi del demoniaco e si modificano via via fino a giungere all’idea del Dio «vivente».
  • Essi costituiscono quel momento irrazionale dell’idea del divino che ha dato la sveglia soprattutto e in modo particolarmente intenso alla contraddizione con il Dio dei filosofi, il Dio della speculazione razionale e della pretesa di definizione. Quando ci si è serviti di questo momento, i filosofi l’hanno sempre accusato di essere un «antropomorfismo».
  • Il mistero, senza il momento del tremendum, potrebbe essere specificatamente indicato come il mirabile, che procura meraviglia prodotta da una cosa meravigliosa. Il meravigliarsi nel senso genuino è perciò un puro stato emotivo del sentimento numinoso e soltanto in modo sbiadito e vago diventa un generico stupirsi.
  • Lo stupore è chiaramente diverso dal tremore: indica un allibito essere sorpresi, un rimanere a bocca aperta, un assoluto spaesamento. 
  • Mysterium, in senso generale, sta a indicare anzitutto solamente «mistero» nel senso di ciò che è estraneo, incompreso, non spiegato, e in questo senso per ciò che noi intendiamo è solo un concetto analogico proveniente dall’ambito del naturale che si presta alla definizione, appunto, per un certo grado di analogia, senza tuttavia esaurire affatto il significato. L’analogia, però, e cioè il mistero inteso religiosamente, è, per esprimerlo nel modo più pertinente, il Totalmente Altro, il tháteron, l’alienum, l’estraneo ed estraniante, ciò che è fuori dall’ambito abituale, del comprensibile e del famigliare, e dunque del «noto», ciò che vi si oppone e perciò colma l’animo di allibita sorpresa.
  • Ma appena si comincia a oggettivare a posteriori questa sensazione, in origine irrazionale, per esempio con idee di spiriti o concetti simili, tentando di chiarire in qualche modo l’enigma del mysterium, se ne ottiene un effetto di impoverimento dell’efficacia.
  • Da queste razionalizzazioni non nasce la religione, bensì la traduzione razionale della religione, che poi finisce in una teoria così grossolana e fatta di tante chiarificazioni così ragionevoli che il mistero ne viene quasi espulso. 
  • Il vero oggetto misterioso è incomprensibile non soltanto perché la mia conoscenza di esso ha certi insuperabili limiti, ma perché qui mi trovo di fronte a qualcosa di «Totalmente Altro» che per genere ed essenza è incommensurabile alla mia essenza, e di fronte al quale arretro in allibita sorpresa. Agostino coglie bene questo stupore: «Che cos’è quella realtà che mi illumina e colpisce il mio cuore senza creare ferite? E che mi spaventa e mi inebria? Mi spaventa in quanto sono dissimile da essa e mi inebria nella misura in cui mi sento a essa simile» (Confessioni,11,9,1).
  • Il «soprannaturale» e il «trascendente» sono a loro volta nomi che sembrano essere predicati positivi, e accostandoli al misterioso pare che il «mistero» si spogli del significato esclusivamente negativo che aveva all’inizio, per trasformarsi in una affermazione positiva. Ma tutto questo non è che apparenza, visto nella prospettiva del concetto. «Soprannaturale» e «trascendente» infatti sono chiaramente meri predicati negativi ed escludenti in rapporto alla natura e al mondo. È vero, invece, se visto nella prospettiva del contenuto emotivo del sentimento, effettivamente assai positivo, benché esso non sia traducibile anche in questo caso. Tramite questo contenuto, i termini «soprannaturale» e «trascendente» diventano per noi, senza che ce ne accorgiamo, definizioni di una realtà e un modo di esserci caratteristici, «totalmente altri», della cui specificità percepiamo qualcosa senza poterla tradurre concettualmente in un’espressione chiara.
  • La mistica porta al suo punto estremo il contrasto intrinseco all’oggetto numinoso in quanto «Totalmente Altro», non accontentandosi di contrapporlo a tutto ciò che è naturale e mondano, ma in ultima analisi all’«essere» e all’«essente». Lo chiama infine il «nulla», intendendo con questo termine non solo ciò che è indicibile, bensì quello che è altro e opposto, in modo assoluto e per essenza,  rispetto a tutto ciò che è e può essere pensato. Ma portando al paradosso la negazione e la contrapposizione, l’unica realtà di cui il concetto qui può farsi carico per comprendere il momento del mysterium, la mistica conserva allo stesso tempo la qualità positiva del «Totalmente Altro» come un elemento vivissimo dell’emozione religiosa, che suscita con grande intensità. Di fatto gli ideogrammi della mistica quali il «nulla» e il «vuoto» sottintendono il «Totalmente Altro.
  • Questo momento del numinoso, che chiamiamo mysterium, attraversa in sé quasi tutte le linee dello sviluppo storico-religioso, con un processo che lo porta a un rafforzamento sempre più intenso e a un posizionamento sempre più deciso del suo carattere di mirum. A questo proposito si possono segnalare tre stadi: lo stadio di ciò che è meramente sconcertante, quello del paradosso e quello dell’antinomico.
  • Il quanto «Totalmente Altro», il mirum è innanzitutto l’inafferrabile e l’inconcepibile, ciò che si sottrae alla nostra comprensione, perché trascende le nostre categorie; ma non le supera soltanto, bensì sembra porsi di tanto in tanto in opposizione a esse, sembra sospenderle e confonderle.
  • In tal senso non è soltanto inafferrabile, ma diventa quasi paradossale; non è soltanto al di sopra di qualsiasi tipo di ragione, ma appare porsi contro la ragione. E perciò lo chiamiamo l’antinomico. Si tratta di qualcosa di ancor più grande del puro paradosso: qui non appaiono soltanto affermazioni che vanno contro la ragione, le sue norme e le sue leggi, ma affermazioni che si esprimono in modo sdoppiato e contraddittorio rispetto al loro oggetto; affermazioni inconciliabili fatte di contrapposizioni insolubili. Alla volontà di comprensione razionale il mirum appare qui nella forma estrema dell’irrazionale.
  • L’intera storia delle religioni testimonia di un’armonia di contrasti e del duplice carattere del numinoso: almeno a partire dallo stadio del «timore demoniaco». È il fenomeno più strano e interessante della storia delle religioni. Come orribile e terrificante il demoniaco-divino appare all’animo umano, così diventa per esso allettante e seducente.
  • La creatura che trema alla sua presenza, umile e disperata, ha però sempre l’impulso di rivolgersi a esso, anzi in un qualche modo di appropriarsene. Il mistero non ha solo un che di mirabile, è anche il meraviglioso. Accanto al fattore sconcertante si pone infatti quello che affascina, trascina e incanta in modo singolare, in un crescendo che porta fin troppo spesso alla vertigine e all’ebbrezza, alla dimensione dionisiaca del numen. Chiameremo questo momento il fascinans del numen.
  • Le idee e i concetti razionali che si accompagnano al momento razionale del fascinans e lo sistematizzano sono l’amore, la pietà, la compassione, la disponibilità: tutti momenti naturali della comune esperienza interiore, solo che qui vengono portati alla perfezione. Ma questi momenti, per quanto importanti per l’esperienza della beatitudine religiosa, non la esauriscono affatto. 
  • Quel profondo senso del meraviglioso, che si trova nel mistero dell’esperienza beatifica del divino, lo si potrebbe chiamare col nome di «grazia», ma accettando anche il senso pieno numinoso del termine, che comprende il vero stato di grazia e indica nello stesso tempo un «ancora di più».
  • Questo «ancora di più» ha le sue fasi preliminari ai primissimi albori della storia delle religioni. Sarebbe senz’altro possibile, anzi quasi probabile, che il sentimento religioso nel primo stadio di sviluppo sia nato soltanto con uno dei suoi poli, cioè quello respingente, e che in un primo tempo abbia preso forma solo come timore demoniaco. 
  • Ma, a partire da questo timore demoniaco, se cioè esso non avesse significato altro e non si fosse lentamente trasformato in un momento di qualcosa di più completo, capace di penetrare a mano a mano nella coscienza, non sarebbe stato possibile alcun passaggio a sentimenti di un positivo abbandonarsi al numen. 
  • Grazie a una certa quantità di strani comportamenti e fantasiose mediazioni, l’uomo religioso cerca di impossessarsi del misterioso stesso, di realizzarsi attraverso di esso, anzi di immedesimarvisi. 
  • Questi atteggiamenti possono suddividersi in due classi: quella dell’identificazione magica tra se stessi e il numen tramite un atto magico-cultuale: una formula, una benedizione, uno scongiuro, una consacrazione, un esorcismo e simili; e quella del rito sciamanico del «possesso», dell’invasamento, dell’auto-realizzazione nell’esaltazione e nell’estasi. Il punto di partenza, in origine, era squisitamente magico, e l’intento era solo quello di impossessarsi della forza prodigiosa del numen a scopi «naturali».
  • Possedere il numen ed esserne posseduti diviene fine a se stesso, è cercato per se stesso con l’impiego dei più raffinati e impetuosi messi dell’ascesi. Ha inizio, così, la vita religiosa.
  • Anche qui si assiste a uno sviluppo che porta alla purificazione e maturazione dell’esperienza interiore: gli stati più sublimi di un purificato «essere nello spirito» e di una mistica nobilitata ne costituiscono il risultato finale.
  • Per quanto questi stati siano eterogenei, è questo che li unisce, in modo che il mistero venga vissuto in essi nella sua realtà positiva e nella sua modalità più intima, ossia come qualcosa di straordinariamente beatificante, anche in modo che non possa essere espresso a parole o chiarito concettualmente, ma soltanto vissuto nell’esperienza. 
  • Ciò che la «dottrina salvifica» possiede relativamente ai beni di salvezza che si possono considerare positivi è da essa integralmente afferrato e vivificato, senza però che vi si esaurisca. E, pervadendolo e rischiarandolo, essa lo rende qualcosa di più di quanto la ragione possa comprenderne e dirne. Dà la pace, che sta al di sopra di ogni ragione. La lingua può solo balbettarne, ed essa non offre di sé altro che un’idea lontana, insufficiente e confusa, limitata a immagini e analogie. Solo col sentimento, nel sentimento e a partire dal sentimento si può entrare in quel mondo parallelo.
  • Il puro amore e la pura fiducia, per quanto beatifici, non riescono a chiarirci quel momento di estasi profonda che vibra nei canti salvifici più delicati e più profondi, e in particolare negli inni che anelano alla salvezza finale.
  • Qui vive il «di più» del fascinans. Vive anche in quelle accese esaltazioni dei beni della salvezza che si ritrovano in tutte le religioni soteriche e che si pongono ovunque in singolare contrasto con la sorprendente povertà, e spesso l’ingenuità, di quanto viene in realtà promesso con concetti e immagini. La «salvezza» appare ovunque come qualcosa che spesso è poco chiaro e per nulla comprensibile all’uomo naturale, anzi, come questi la intende, essa è non di rado tediosa e priva di interesse.
  • Per come la intende: ma in realtà neppure la capisce, poiché gli ideogrammi con cui viene esplicata non esauriscono minimamente il suo vero significato che ha una matrice puramente sentimentale.
  • Il fascinans non vive solo nel sentimento della nostalgia religiosa. È già vivo e presente nel momento della solennità: sia nella devozione raccolta e assorta e nell’elevazione dello spirito al sacro  proprie del singolo, sia nel culto comunitario compiuto con serietà e in profondità. 
  • Che sia nella forma del venturo regno di Dio e della beatitudine ultraterrena del paradiso oppure nella forma del proprio ingresso nel beatificante trascendente, o che sia solo attendendo e presentendo, oppure sperimentando già nel presente: nelle forme e manifestazioni più varie, essendo affine nel profondo, si manifesta l’esperienza straordinariamente potente di un bene che è solo la religione a conoscere, nel contesto di un puro irrazionale di cui l’animo ha sentore in una ricerca fatta di tensione. Tutto ciò si riconosce dietro a oscuri e inadeguati simboli espressivi.
  • Questa situazione mostra anche che al di sopra e al di là della nostra essenza razionale si cela una modalità ultima e altissima del nostro essere, che non trova sufficiente soddisfazione nell’appagare e saziare le esigenze dei nostri impulsi e desideri sensuali, psichici e spirituali. I mistici l’hanno chiamata la «scintilla dell’anima».
  • Una traccia di esaltazione vive in ogni vero sentimento di beatitudine religiosa, anche dove esso si presenti in forma misurata e controllata. Lo evidenzia chiaramente lo studio delle grandi esperienze nelle quali il vissuto religioso appare nella sua più tipica purezza e nell’intensità dell’atto, mostrandosi in modo più chiaro e tangibile che nella forma meno tipica della tiepida religiosità frutto dell’abitudine: si tratta dell’esperienza della «grazia», della «conversione», della «rinascita». 
  • Nella forme cristiane di tali esperienze occupa senza dubbio un posto centrale la redenzione dalla colpa e dalla schiavitù del «peccato». Si deve porre l’attenzione sulla incapacità di rendere a parole quello che si è vissuto all’interno di queste esperienze: l’emozione beata, la perdita di controllo, l’esaltazione e la tendenza a sconfinare spesso nell’abnorme e nello stravagante in cui un’esperienza del genere può trasformarsi.
  • Quello che conosciamo nel cristianesimo come esperienze di grazia e rinascita trovano il loro corrispettivo, al di fuori del cristianesimo, nelle religioni di elevato livello spirituale. È certo assai varia nelle sue modalità e assolutamente diversa da quella propria del cristianesimo; eppure, per intensità del vissuto è ovunque piuttosto simile: è dappertutto un fascinans assoluto, una salvezza che, rispetto a esperienze che sono «naturalmente» esprimibili e confrontabili, si presenta come «esaltazione», o ne conserva forti tracce. 
  • E così, seguendo la via eminentiae et causalitatis, affermiamo che il divino è l’essenza somma, più forte, più buona, più bella, più cara che un essere umano possa pensare. Ma seguendo la via negationis diciamo che il divino non è solo il fondamento e il superlativo di tutto ciò che è pensabile.
  • Dio, in se stesso, è altro ancora. 
  • Una parola di assai difficile traduzione letterale, un concetto poco comprensibile per le sue diverse sfaccettature e singolari implicazioni è il termine greco deinós. Esso non è altro che il numinoso, benché a un livello per lo più inferiore, retoricamente o poeticamente più rarefatto e in forma più attenuata. Il suo fondamento ermeneutico è l’aspetto inquietante del numinoso. Nello sviluppo dei suoi momenti diventa malvagio e impressionante, potente e insolito, strano e ammirevole, orrido e affascinante, divino, demoniaco, energico. Sofocle vuol suscitare con questo termine un sentimento di vero timore numinoso in tutti i suoi momenti.
  • Per dare il giusto rilievo al secondo aspetto del numinoso in quanto capacità di attrarre a sé, nella definizione precedente del mysterium tremendum abbiamo dovuto riconoscere che esso è al contempo un fascinans assoluto: in questo insieme di infinito orrore e infinita meraviglia, il mistero trova il suo duplice contenuto positivo, che si svela al sentimento.
  • Questa armonia di contrasti, interna alla modalità e al contenuto del mistero, che cerchiamo di descrivere pur senza riuscirci completamente, si può rendere solo in modo approssimativo con un’analogia presa in prestito da un ambito non propriamente religioso, ma estetico, che pure è solo un pallido riflesso di quello che vorremmo esprimere, essendo tale analogia difficilmente decifrabile: ci riferiamo al sublime.
  • Si tende spesso e volentieri ad arricchire il concetto negativo di «trascendente» con questo contenuto famigliare, ma ad una considerazione più attenta e letterale questo si rivela un errore. I sentimenti religiosi non sono sentimenti estetici, anche se ci sono analogie lessicali. 
  • Il sentimento del sublime si rivela molto affine a quello del numinoso ed è capace di stimolarlo e di esserne a sua volta stimolato, di trasformarsi in esso oppure di lasciarlo trasformarsi in sé fino a svanire.
  • È una nota legge fondamentale della psicologia che le idee generalmente si attirino e che una susciti l’altra e, se somigliante, la faccia venire alla coscienza. Per i sentimenti vige una legge molto simile. Anche un sentimento può rievocarne uno analogo e può indurmi a serbare al contempo l’altro. Io posso passare da un sentimento a un altro, e questo per gradi, con una transizione impercettibile, dove il sentimento x va lentamente a scomparire, mentre viene stimolato il sentimento corrispondente y, che a sua volta si intensifica e si consolida. 
  • Quello che qui si trasforma, in realtà, non è il sentimento in sé: sono io che mi trasformo, cioè mi converto da un sentimento a un altro con un mutamento del mio stato d’animo, mediante un graduale indebolimento dell’uno e una graduale intensificazione dell’altro. 
  • La trasformazione di un sentimento in un altro sarebbe una vera mutazione. Solo a partire dallo spirito umano si può evolvere.
  • Uno stimolo per il risveglio del sentimento numinoso è stato spesso il sentimento del sublime, e lo può essere a tutt’oggi, in forza della legge che abbiamo trovato e delle analogie con il sentimento numinoso. Ma questo stimolo, senza dubbio, si è inserito solo tardi nella catena degli stimoli. Anzi, probabilmente il sentimento religioso è nato prima di quello del sublime, che ha poi risvegliato e liberato; liberato non da se stesso, ma dallo spirito e dal suo apriorismo. 
  • Vediamo che il sentimento religioso forma connessioni durature con altri sentimenti, che sono a esso collegati in forza di questa legge. In realtà, essi sono spesso soltanto abbinati più che veramente connessi. Da questi semplici accoppiamenti o connessioni casuali secondo la legge della pura analogia esteriore differiscono tuttavia le correlazioni necessarie, fondate sul principio della profonda affinità sostanziale. 
  • Ora, una tale relazione di schematizzazione è anche il rapporto tra il razionale e l’irrazionale nella complessa idea del sacro. Il numinoso-irrazionale, schematizzato mediante determinati concetti razionali, rende nel senso più pieno la categoria perfetta del sacro stesso. Una vera schematizzazione si distingue dalle semplici connessioni casuali per il fatto che, nello sviluppo crescente e progressivo del sentimento della verità religiosa, questa non si disgrega e non viene eliminata, ma al contrario è riconosciuta in modo sempre più fermo e deciso. Per questo motivo è probabile che anche l’intima connessione tra il sacro e il sublime sia più di una semplice associazione di sentimenti, e che questa sia stata piuttosto solo il suo risveglio storico e la sua prima opportunità di manifestarsi. Questa loro profonda e duratura connessione in tutte le grandi religioni mostra che anche il sublime è autentico «schema» del sacro.
  • Un esempio di questa compenetrazione tra i momenti razionali e quelli puramente irrazionali della nostra vita emotiva, un esempio che si presta al confronto con il sentimento complesso del sacro, in quanto anche qui il momento sovra-razionale ne costituisce il tratto peculiare: si tratta dell’emozione che suscita in noi la poesia musicata. Il testo di un canto esprime sentimenti naturali, come la nostalgia per la patria, la fiducia durante i pericoli, la speranza di poter ottenere un bene o la gioia per il suo possesso: tutti momenti concreti del destino umano, che sono concettualizzabili. 
  • La musica, presa in sé, è estranea a tutto questo, ma suscita nell’anima gioia e beatitudine, uno smarrimento trasognante, un tumulto e un fluttuare, senza che si possa esprimere e spiegare con concetti che cosa nella musica turbi in tal misura. E quando diciamo che essa è lamentosa o esultante, stimolante o inibente, si tratta soltanto di sottigliezze interpretative tipiche della nostra psiche, scelte per analogia e comunque non altrimenti spiegabili. 
  • La musica suscita un’esperienza, con le conseguenti vibrazioni interiori, di genere particolarissimo, cioè di genere appunto musicale. Ma le fasi alterne e le multiformità di questa esperienza rivelano (anche solo in parte!) certe affinità e corrispondenze sensibili con i nostri abituali stati d’animo ed emozioni di natura non musicale, e possono perciò indurli a vibrare all’unisono e a fondersi con loro. Se questo succede, si può parlare di «schematizzazione» o razionalizzazione: ne risulta un’emozione complessa, della quale i sentimenti umani universali formano l’ordito e i sentimenti musicali irrazionali la trama. La canzone è quindi musica razionalizzata.
  • Abbiamo già incontrato in precedenza e abbiamo chiamato «sentimento creaturale» quella singolare e profonda risposta dello spirito al numinoso vissuto, consistente nel sentirsi sprofondare, nel farsi sempre più piccoli fino ad annullarsi. Come suo carattere distintivo si era messa in luce una certa svalorizzazione del proprio io, in rapporto, per così dire, alla propria realtà e alla propria esistenza. 
  • Questi impeti emotivi così impulsivi non provengono solo dalla consapevolezza delle trasgressioni commesse, ma si manifestano piuttosto con il sentimento del numen, implicando la svalorizzazione di sé di fronte al numinoso, insieme al proprio popolo e alla realtà esistente. Non sono semplici svalutazioni morali ma rappresentano il sentimento dell’assoluta profanità. 
  • Si tratta di qualcosa che l’uomo «naturale» non può conoscere e neppure condividere. La conosce e la sente solo colui che è «nello spirito», ma solo se fornito di acuta perspicacia e della più severa capacità svalutativa di se stesso. Egli la riferisce non solo alle proprie azioni, ma alla propria condizione esistenziale di creatura rispetto a ciò che è al di sopra di ogni creatura. 
  • Ma ciò che è al di sopra di ogni creatura viene valutato nello stesso tempo facendo uso della categoria di un valore assolutamente peculiare, che si oppone diametralmente al disvalore del «profano» e attiene solo e per eccellenza al numen: Tu solus sanctus. È il valore numinoso, il principio primo irrazionale e l’origine di tutti i possibili valori oggettivi.  
  • Il Tu solus sanctus non è un’irruzione di paura, ma una timida lode che non solo si professa, balbettando, l’onnipotenza divina, ma vuole nello stesso tempo riconoscere e celebrare un valore assoluto che è al di sopra della nostra capacità intellettiva. 
  • Una volta compreso che sanctus, in sé e per sé, non è una categoria morale, lo si traduce con il termine trascendente, anche se la trascendenza è un’asserzione riferibile solo all’essere, e non riguarda il valore, per cui tale concetto può sottometterci ma non indurci a un vero rispetto.
  • L’augustum è un momento essenziale del numinoso, la religione è essenzialmente, anche a prescindere da ogni schematizzazione morale, una obligatio profonda, impegno che vincola e obbliga la coscienza; è obbedienza e servizio, non per pura coercizione dell’onnipotente, ma per sottomissione convinta al più sacro dei valori.
  • Al valore numinoso si contrappone il disvalore, o controvalore numinoso. Solo quando il carattere di questo disvalore numinoso si trasmette anche al valore morale, trasfondendosi o sussumendosi in esso, la semplice «illegalità» diventa «peccato», l’anomia diventa peccaminosità, e questa diviene «infamia» e «sacrilegio». E soltanto in quel momento, in quanto peccato per lo spirito, assume per la coscienza quel terribile peso, che la porta al soffocamento e all’avvilimento delle proprie forze. 
  • L’uomo «naturale», anche l’uomo solo morale, non riesce a comprendere a fondo cosa sia il «peccato». L’assenza dogmatica secondo cui l’esigenza morale in quanto tale condurrebbe l’uomo al  crollo psichico e all’indigenza più assoluta, obbligandolo così a cercare la redenzione, è palesemente inesatta. 
  • Il vecchio razionalismo moralistico percepiva e condannava severamente ciò che era «sbagliato», si adoperava nella predicazione e nell’insegnamento ad aiutare a riconoscere l’errore e a prenderlo in seria considerazione, al fine di combattere coraggiosamente le proprie mancanze. Ma non era soggetto a crolli interiori e non aveva nemmeno bisogno di redenzione, perché in realtà, come gli rimproveravano i suoi detrattori, gli mancava il senso di che cosa fosse il «peccato».
  • Partendo da un presupposto puramente morale non si sente né il bisogno di redenzione, né quello di cose straordinarie come la «consacrazione», la «protezione» o l’«espiazione». Tali fenomeni, che sono davvero i misteri più profondi della religione, per i razionalisti e i moralisti rappresentano solo dei fossili mitologici, e chi pretende, pur senza alcuna sensibilità per l’esperienza del numinoso, di esaminare le idee bibliche e anzi di interpretarle, non può che incorrere in raggiri; ma bisogna essere consapevoli che essi sono fenomeni genuini solo all’interno della sfera religiosa.
  • Il momento della protezione si può cogliere chiaramente quando sorge il «timore» nei confronti dell’ira divina. Questa protezione diventa quindi una consacrazione che rende possibile l’avvicinarsi alla tremenda majestas. I mezzi della consacrazione sono messi a disposizione dal numen stesso. L’espiazione è a sua volta una protezione, ma in una forma più profonda. Trae origine dall’idea del valore e del disvalore numinoso. Il semplice timore, il mero bisogno di protezione dal tremendum, qui si eleva, generando il sentimento che, in quanto essere profano, l’uomo non sia degno di avvicinarsi all’augustum, anzi che il proprio pieno disvalore possa contaminare il sacro stesso. Qui subentra un bisogno e un desiderio di espiazione, tanto più forte quanto più la vicinanza, il rapporto e il possesso duraturo del numen sono amati e desiderati come un bene, anzi come il bene supremo.
  • Il Dio del Nuovo Testamento non è meno santo di quello dell’Antico Testamento, ma di più; la distanza che lo separa dalle creature non è minore, ma assoluta; il senso di indegnità del profano nei suoi confronti non si è indebolito, ma si è accresciuto. Che il Santo stesso si renda inavvicinabile non è cosa ovvia, come invece fa pensare l’ottimismo e l’esperienza del «buon Dio», bensì è grazia inconcepibile. Privare il cristianesimo di questo sentimento significherebbe appiattirlo fino a renderlo irriconoscibile. In tal senso queste riflessioni profonde e questi bisogni di «protezione» ed «espiazione» si rivelano molto diretti. E gli strumenti dell’auto-rivelazione e dell’auto-mediazione del Santo supremo, la «Parola», lo «Spirito», la «promissio», la stessa «persona di Cristo» diventano ciò che si insegue, in cui si trova il proprio rifugio, a cui ci si lega, per poi, una volta consacrati e purificati per loro intercessione, avvicinarsi al Santo stesso.
  • Riassumendo, fino a questo punto abbiamo ricercato l’irrazionale nell’idea del divino. L’irrazionale, non di rado, lo si interpreta in modi diversissimi, oppure lo si usa così in generale e indefinito da far sottintendere le cose più svariate: il puro fattuale di fronte alla legge, l’empirico di fronte alla ratio, il contingente di fronte al necessario, l’illogico di fronte al logico, lo psicologico di fronte al trascendentale, il conosciuto a posteriori di fronte al dimostrabile a priori; la potenza, la volontà e l’arbitrio di fronte alla ragione, al discernimento, alla chiarezza del valore; la brama, l’istinto e le oscure forze del subconscio di fronte alla riflessione chiara e ai disegni intelligenti; le profondità mistiche e i moti dell’anima e dell’umanità e d’altro lato l’ispirazione, il presentimento profondo, la profezia e per ultimo anche le forze occulte; o ancora, in generale, si indicano gli impulsi irrequieti e il fermento dei tempi, la ricerca a tastoni dell’inaudito e del mai visto nella poesia e nelle arti figurative. Tutto questo e ancor di più può essere l’irrazionale e, a seconda dei casi, viene esaltato oppure condannato. Chi utilizza attualmente questo termine è dunque tenuto a dire come lo interpreta.
  • Noi, per «irrazionale» non intendiamo né una sorda ottusità né ciò che non è ancora soggetta alla ratio, o nella vita istintiva o negli ingranaggi del mondo si oppone ostinatamente ai processi di razionalizzazione.
  • Per chiarire meglio il nostro pensiero ci affidiamo qui all’uso linguistico, ad esempio quando per un evento singolare che sfugge per la sua profondità a un’interpretazione razionale, si dice: «Qui c’è qualcosa di irrazionale». Assumiamo come «razionale» nell’idea del divino ciò che di essa rientra nell’area chiara e comprensibile della nostra capacità intellettiva, nell’ambito dei concetti famigliari e definibili. E riteniamo che attorno a questa zona di chiarezza concettuale si trovi una sfera misteriosa e oscura, che non si sottrae al nostro sentimento, ma al nostro pensiero astratto, e che per questo chiamiamo «l’irrazionale».
  • Quando si parla di beatitudine relativa al fascinans del numinoso, pur con il massimo sforzo di concentrazione, non si riesce a portare dall’oscurità del sentimento alla sfera della conoscenza astratta il contenuto e le modalità dell’oggetto beatificante, che rimane così nel buio indissolubile dell’esperienza puramente legata al sentimento e non concettualizzabile: solo mediante la trascrizione di ideogrammi interpretativi può essere, se non spiegato, per lo meno abbozzato. È questo che chiamiamo «irrazionale».
  • Anche come «Totalmente Altro» è contro ogni tipo di esprimibilità. Lo stesso si può dire del «timore». Quando parlo di semplice paura posso indicare con concetti, posso dire quello che essa è, ciò che temo: per esempio un danno o la rovina. Anche per quanto riguarda l’idea del rispetto morale posso dire che cosa essa infonde: ad esempio eroismo e forza di carattere. Che cosa però sia quello che temo nel «timore» o quello che esalto come augustum non lo può esprimere alcun concetto di fondo. È «irrazionale», così irrazionale come può esserlo la «bellezza» di una composizione, che allo stesso modo si sottrae a ogni analisi razionale e a ogni concettualizzazione.
  • Questo «irrazionale» percepito in modo aleatorio deve essere consolidato con segni duraturi al fine di arrivare a risultati di chiarezza e di validità generale dell’indagine. Non si tratta di razionalizzare l’irrazionale, cosa impossibile, ma di descriverlo, di determinarlo nei suoi momenti, e di contrapporsi così all’irrazionalismo arbitrario ed esaltato.
  • Per far chiarezza sull’essenza del sentimento numinoso è utile riflettere sul modo in cui esso si esprime all’esterno, trasmettendosi da un animo all’altro. Certo, non si può parlare di una trasmissione in senso stretto: è un sentimento che non è possibile insegnare, ma soltanto destare a partire dallo spirito. A volte si pensa che la religione, nella sua globalità, funzioni allo stesso modo, ma è una convinzione sbagliata. Nella religione ci sono molte cose che possono essere insegnate, che cioè si possono trasmettere per concetti, che si possono spiegare come si fa a scuola. Ma non si può insegnare questo suo sfondo, questo suo fondamento: in esso ci si può solo imbattere, lo si può solo stimolare, risvegliare. E ben poco facendo uso di semplici parole; avviene piuttosto, come si trasmettono di solito i sentimenti e gli stati d’animo: sentendo e immedesimandosi in ciò che accade nell’animo dell’altro. 
  • A chi non può cogliere nell’intimo che cos’è il numinoso non rimarrà traccia della teoria, della dottrina, persino della predicazione se non la si ascolta profondamente.
  • Non c’è elemento della religione che abbia bisogno quanto questo della viva voce, di un’intensa comunione che guidi e accompagni, attraverso un rapporto personale.
  • Ma anche come viva voce la semplice parola, priva di un cuore spirituale che le vada incontro, è impotente. E questo spirito deve dare il meglio di sé. Ma, dove è presente, molto spesso è sufficiente uno stimolo minimo, una vaghissima sollecitazione esterna. È sorprendente come possono bastare poche parole – a volte assai goffe – per far sì che lo spirito si trasformi in una potentissima e assai specifica emozione.
  • Chi legge la Sacra Scrittura «nello spirito» vive nel numinoso, pur ignorandone la nozione e il nome; lo farebbe persino se fosse incapace di analizzare il proprio sentimento e di individuare tra gli altri questo specifico tratto. 
  • Ciò che è realmente «misterioso» è più di ciò che è semplicemente «incompreso», benché sussista tra i due un’analogia che è attiva in determinati eventi che in un primo momento appaiono strani. Ad esempio: le espressioni arcaiche e ormai oscure della Bibbia e dei vari libri sacri, il modo diverso di esprimersi racchiuso in essi, il linguaggio cultuale della tradizione antica ormai in parte o del tutto incomprensibile, come mai proprio queste cose non frenano, ma esaltano il raccoglimento? Come mai sono proprio queste cose ad apparire «solenni», a farsi amare? È manierismo, o ancora semplice fedeltà alla tradizione? No di certo.
  • È da ricondurre al fatto che grazie a queste cose si risveglia il sentimento del mistero, del «Totalmente Altro», che vi rimane attaccato; esse suscitano sentimenti che sgorgano dalle profondità dell’inconscio. E che cos’è che colpisce di tutte queste cose? È proprio l’analogia tra ciò che non è del tutto compreso, che è inconsueto (e anche venerando per antichità) e il misterioso, che viene per così dire simboleggiata e risvegliata, grazie all’anamnesi della somiglianza.
  • Nelle arti, la modalità più efficace di rappresentare il numinoso è quasi ovunque il sublime, in particolare e per prima, sembra, nell’architettura. È difficile sottrarsi all’impressione che questo momento abbia cominciato a risvegliarsi già nell’Età della Pietra, associandosi al grandioso, cercando di modellare la luce per far risaltare il bello e lo stupefacente.
  • Non c’è dubbio che qui l’arte, senza bisogno di riflessione, è in grado di dar vita a un’impressione particolarissima: l’impressione del «magico», che non è altro che una forma repressa, oscurata di numinoso, una forma grezza poi nobilitata e trasfigurata nella grande arte, dove il magico scompare sostituito dal numinoso.
  • Il sublime, ma anche il mero magico, per quanto appaiono potenti, restano pur sempre delle semplici modalità indirette di rappresentare il numinoso nell’arte, la quale in Occidente dispone soltanto di due modalità dirette. Due modalità che – cosa significativa – hanno un carattere negativo: l’oscurità e il silenzio.
  • È caratteristico dell’oscurità di essere messa in evidenza attraverso un contrasto, che la rende così ancora più percepibile: deve essere sul punto di coprire un ultimo, piccolo bagliore. Solo la semi-oscurità è «mistica». E la sua impressione è completa quando le viene in aiuto il momento del «sublime» che si unisce a essa.
  • La semi-oscurità che si insinua in sublimi sale o sotto i rami di un grande viale, curiosamente animata e mossa dal gioco misterioso delle mezze luci, è sempre stata in grado di parlare all’animo, come sapevano bene i costruttori di templi, chiese e moschee.
  • Nel linguaggio dei suoni, all’oscurità corrisponde il silenzio. Noi, e probabilmente anche al loro tempo i profeti, non sappiamo più che questo tacere, dal punto di vista storico-genetico, è forse sorto dal timore di usare parole nefaste, preferendo tacere. Noi sentiamo la necessità di tacere per un altro motivo, diversissimo. È un effetto immediato del sentimento del numen presente che si risveglia in noi: neppure in questo caso siamo in grado di spiegare che cosa appaia, che cosa si presenti a un livello di sviluppo più elevato. 
  • Oltre al silenzio e all’oscurità, l’arte orientale conosce una terza modalità di forte impressione numinosa: il vuoto e il grande vuoto. Il grande vuoto, per così dire, è un sublime in orizzontale. Il deserto con la sua estensione, la steppa sconfinata e sempre uguale: anch’essi sono sublimi e creano in noi uno stimolo, degli echi di numinoso, producendo un’associazione di sentimenti. Analogamente all’oscurità e al silenzio, il vuoto è una negazione, ma una negazione che cancella ogni «qui e ora», in modo che il «Totalmente Altro» diventi atto.
  • Nemmeno la musica possiede una modalità positiva di esprimere il sacro, anche se di solito è capace di conferire a ogni sentimento le più varie risonanze. Anche la musica sacra più perfetta dà espressione al momento più sacro, più numinoso della messa, quello della consacrazione, soltanto ammutolendo, in modo assoluto e a lungo, finché non sia il silenzio, per così dire, a farsi sentire.
  • Per quanto sia presente in tutte le religioni, il sentimento dell’irrazionale e del numinoso è particolarmente vivo in quelle semitiche, soprattutto in quella biblica. In questo caso, il misterioso vive, profondamente intessuto in queste religioni, nelle idee del demoniaco e dell’angelico mentre il «Totalmente Altro» circonda, trascende e permea questo mondo, intensificandosi nella dimensione escatologica e nell’ideale del Regno di Dio. Segno di un futuro che si estende nel tempo e nello stesso tempo segno dell’eterno, senza mai cessare di essere assolutamente prodigioso e «totalmente altro», si contrappone al naturale e si delinea nella natura di IHWH e di Elohim, che è anche il Padre celeste di Gesù e in quanto tale non perde, ma compie il suo essere IHWH.
  • Nel Vangelo di Gesù si è compiuto il tratto della razionalizzazione e dell’umanizzazione dell’idea di Dio; un tratto che, dai tempi più antichi della tradizione dell’antico Israele, fu inteso soprattutto nei Profeti e nei Salmi, facendo in modo che il numinoso diventasse sempre più ricco e si riempisse dei predicati tipici degli evidenti e profondi valoro razionali dell’animo. Ne risultò l’insuperata e insuperabile forma della «fede in Dio Padre» caratteristica del cristianesimo.
  • Ora, sarebbe un errore affermare che questa razionalizzazione sia un’esclusione del numinoso. È l’equivoco a cui conduce la plausibilissima delineazione della «fede di Gesù in Dio Padre» oggi prevalente, che certo non corrisponde al modo di pensare della comunità primitiva. Si tratta di un errore che si compie solamente se ci si rifiuta di considerare l’annuncio di Cristo come ciò che esso vuol essere dall’inizio alla fine: l’annuncio dell’oggetto più numinoso che si possa concepire, cioè del «Vangelo del Regno».
  • Il cristianesimo nascente si diffuse con la massima: «Il Regno di Dio è vicino». Del miscuglio di intimissimo orrore dinnanzi alla fine del mondo, al Giudizio e alla comparsa del mondo che verrà e beato fremito di attesa natalizia, del miscuglio tra il tremendum e il fascinans di questo mistero, ci facciamo di solito un’idea sbagliata o, addirittura, non riusciamo neppure a concepirlo. 
  • Ma dal Regno, con la sua essenza numinosa, discende una colorazione, un’atmosfera, un tono su ogni rapporto con esso, su chi lo annuncia, su chi lo prepara, sulla vita e gli sviluppi che ne sono il presupposto, sulla parola che lo riguarda, sulla comunità che lo attende e lo raggiunge. Tutto viene «mistificato», tutto diventa cioè numinoso. 
  • La cosa è drasticamente evidente nel modo in cui coloro che ne fanno parte si auto-definiscono e chiamano se stessi, e si chiamano a vicenda, facendo uso del termine tecnico numinoso «i santi». Il termine non ha, evidentemente, il significato di «moralmente perfetti». Sono piuttosto le persone che appartengono al mistero «escatologico». Si tratta della chiara, evidentissima contrapposizione ai «profani». Per questo, anche successivamente, possono chiamarsi addirittura «popolo sacerdotale», un’espressione che definisce un gruppo sacrale «consacrato».
  • Signore di questo regno è il «Padre Celeste». In questi nostri tempi questo nome ha un suono mite, quasi famigliare, come l’espressione «il buon Dio». Ma così facendo fraintendiamo il senso biblico del sostantivo e quello del predicato. 
  • Questo Padre, innanzi tutto, è il re santo e sublime di quel Regno che oscuro e minaccioso si avvicina dalle profondità del Cielo. Essendone il Signore, egli non è meno «sacro», numinoso, arcano, sacer e sanctus del suo Regno, anzi, lo è molto di più, lo è in misura assoluta; e in questa prospettiva è l’assolutizzazione e il compimento di tutto il «sentimento creaturale», il «timor sacro» e gli altri sentimenti di questo genere che apparteneva all’Antica Alleanza. È questa la ragione per cui il titolo «Padre nostro» è immediatamente seguito dall’espressione «sia santificato il tuo nome», invocazione che è più un timoroso ossequio che una supplica.
  • Il fatto che questo sfondo di umilissimo timore, in Gesù, non compaia sotto la forma di particolari dottrine va ricondotto alla circostanza che tutti gli ebrei, e in particolare tutti quelli che credevano nel Regno, ritenevano essere ovvio e di primaria importanza, vale a dire che Dio è il Santo di Israele.
  • Gesù doveva insegnare non ciò che era ovvio, ma ciò che egli soltanto aveva scoperto, che a lui soltanto era stato rivelato: che questo Santo è un Padre celeste. Era attorno a questo, nella sua dottrina, che ruotava tutto il resto, a maggior ragione perché Gesù si inseriva in un conflitto che non poteva che mettere con decisione in primo piano proprio questo elemento.
  • Infatti, la contrapposizione storica che diede vita, come suo supporto, all’evangelo fu da un lato il fariseismo, con la sua schiavitù alla Legge, e dall’altro Giovanni, con la sua concezione ascetica e penitente del rapporto con Dio. 
  • Rispetto a questi due elementi, il Vangelo della figliolanza e della paternità fu considerato come il giogo soave e il peso leggero di cui non possono non essere imperniate le parabole, così come i discorsi e gli annunci di Gesù, nel senso tuttavia che in essi si continua a percepire lo smisurato miracolo per cui è il «Padre nostro» ad essere nei cieli. L’una avvicina, mentre l’altra allontana: allontana non solo verso un’altezza infinita, ma anche verso l’ambito di ciò che è totalmente altro rispetto a quello che è qui.
  • Alla luce e sullo sfondo di questo numinoso, con il suo mysterium e con il suo tremendum, va vista infine anche la lotta interiore di Gesù nella notte del Getsemani, in modo da comprendere e rivivere quello che accadde.
  • Che effetto hanno i tremiti e le esitazioni, tanto profondi da raggiungere il fondo dell’anima, l’afflizione fino alla morte, il sudore che cade a terra, simile a gocce di sangue? È normale paura della morte? In colui che da settimane guardava negli occhi la morte? Proprio in colui che ha celebrato, lucidamente, l’ultima cena con i suoi discepoli? No, qui non c’è solo paura della morte!
  • C’è l’orrore della creatura di fronte al tremendum mysterium, dinnanzi all’enigma colmo di orrore. Ci vengono in mente – eloquenti parallelismi e presagi – le antiche saghe di YHWH che aggredisce di notte il suo servo Mosè, di Giacobbe che lotta con Dio fino al mattino. «Ha combattuto con Dio e ha vinto» (Gn 32,29), il Dio dell’ira e del furore, con il numen che è esso stesso mio Padre. In verità, chi  crede di non poter ritrovare il Santo di Israele nel Dio dell’evangelo da nessun’altra parte non può non scoprirlo qui, se è in ogni caso in grado di vedere.
  • Dell’atmosfera numinosa che circonda s.Paolo non è nemmeno necessario parlare. Dio «abita una luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (I Tim 6,16).
  • L’esaltazione del concetto di Dio e del sentimento di Dio, in lui, porta all’esperienza mistica. Un’esperienza che in s.Paolo vive nei sentimenti di entusiasmo assoluto e nel suo vocabolario di carattere pneumatico, entrambe realtà che sono molto al di là dell’aspetto puramente razionale della pietà cristiana. Le catastrofi e le peripezie della vita interiore, la tragicità del peccato e della colpa, l’ardore dell’esperienza beatifica sono possibili e comprensibile solamente se hanno radici nel numinoso. 
  • Per cogliere la violenza delle visioni di s.Paolo bisogna fare un salto nel tempo e immedesimarci nell’orrore provato dall’ebreo dinnanzi al furore di YHWH, dall’ellenista di fronte alla crudeltà natura e dall’uomo antico, in generale, davanti all’ira degli dei.
  • Si faccia molta attenzione, in s.Paolo, a un elemento che non è estraneo a quanto stiamo dicendo: la sua dottrina della predestinazione. È proprio il razionalista a percepire immediatamente che con la dottrina della predestinazione ci si trova in ambito squisitamente irrazionale. È un ambito assai scomodo, proprio per lui. E lo è a ragion veduta. Nell’ottica del razionale, essa è l’assurdo, lo scandalo per eccellenza. Il razionalista potrà forse ammettere i vari paradossi legati alla Trinità e alla cristologia, ma la predestinazione resterà per lui la maggior pietra d’inciampo.
  • Tale idea attinge a due diverse fonti, ed è a sua volta duplice e ambigua. I diversi sensi che assume andrebbero anche chiamati in modo diverso. Il primo livello è quello della «elezione»; l’altro, con una connotazione totalmente diversa, si riferisce alla predestinazione vera e propria.
  • L’idea dell’elezione, di essere cioè scelti e predestinati da Dio alla salvezza, è una pura e immediata espressione dell’esperienza religiosa della grazia. Guardando al se stesso che era prima, chi è investito della grazia e percepisce in misura sempre maggiore di non essere diventato quello che è grazie a ciò che ha compiuto o si è sforzato di fare, ma che la grazia gli è stata donata indipendentemente dalla propria volontà e dalle proprie capacità: lo ha afferrato, lo ha sospinto, lo ha guidato. Anche soprattutto le decisioni che ha preso, i consensi che ha dato – ciò che più gli appartiene e ne segna la libertà – si rivelano, ai suoi occhi, come qualcosa che ha più vissuto che compiuto. Ogni volta, prima di agire, vede all’opera l’amore salvante che cerca ed elegge, e riconosce presente sopra di sé l’eterno decreto della grazia, che è appunto pre-destinazione.
  • Essendo una mera esplicazione dell’esperienza della grazia, non ha nulla a che vedere con la cosiddetta predestinazione ambigua, cioè con la supposta predeterminazione di tutti gli uomini o alla salvezza o alla dannazione.
  • Il sacro dunque, nel pieno senso della parola, è per noi una categoria composita. I momenti che lo costituiscono sono la sua parte razionale e la sua controparte irrazionale. Ma in ambedue i momenti tale categoria è assolutamente una categoria puramente a priori.
  • Da una parte, le idee razionali dell’assolutezza, della perfezione, della necessità e dell’essenza, così come quelle del buono come valore oggettivo e della normatività oggettiva e vincolante, non devono affatto considerarsi sotto il profilo evolutivo a partire da una qualche percezione sensibile. Infatti, siamo respinti da ogni tipo di esperienza dei sensi e proiettati verso ciò che è indipendente da ogni tipo di percezione, verso la pura ragione, verso lo spirito stesso in quanto sua radice più originaria.
  • Dall’altra parte, i momenti del numinoso e i sentimenti che corrispondono loro sono proprio come le idee e i sentimenti razionali assolutamente puri, e le indicazioni che Kant formula per i concetti puri  e il sentimento puro del rispetto trovano la loro più precisa applicazione. Le famose parole introduttive dell Critica della ragion pura suonano infatti: 
  • «Non c’è alcun dubbio che ogni nostra conoscenza incominci dall’esperienza: in che modo la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata a funzionare se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti con cui i nostri sensi vengono a contatto? […] Ma se ogni nostra conoscenza ha inizio con l’esperienza, ciò non significa che derivi tutta dall’esperienza».
  • E già in rapporto alla conoscenza-esperienza egli distingue ciò che noi riceviamo attraverso le impressioni dei sensi da ciò che riguarda una facoltà conoscitiva più elevata, che viene soltanto stimolata dalle impressioni sensibili.
  • Di questa natura è il sentimento del numinoso. Esso erompe dal «fondo dell’anima», dal più profondo fondamento della conoscenza dell’anima, sicuramente non prima e non senza sollecitazioni e stimoli di dati e di esperienze empiriche legate ai sensi, bensì proprio in tali esperienze e tra di esse. Il numinoso, però, non emana da esse, ma soltanto attraverso di esse. Esse sono lo stimolo e l’occasione per smuoverlo affinché, una volta smosso inizialmente, si frammischi subito ingenuamente i immediatamente con il mondo dei sensi in modo tale che, divenendo a mano a mano più puro, si distacchi da questo mondo e si ponga in assoluto contrasto con esso. 
  • La prova che nel numinoso abbiamo a che fare con momenti conoscitivi puramente a priori va addotta con l’introspezione e l’esame critico della ragione. In esso troviamo infatti sedimentate convinzioni e sentimenti che per loro natura sono diversi da tutto ciò che si possa permettere una naturale percezione dei sensi. Non si tratta affatto di percezioni sensibili, ma di interpretazioni e valutazioni del dato sensibile, e poi, a livello più alto, di oggetti ed essenze le cui forme sono chiaramente dei prodotti della fantasia, benché aventi uno specifico contenuto che non è riconducibile alla percezione sensibile ma costituiscono un pensiero che la completa e la trascende. E poiché non sono percezioni sensibili, non sono neppure trasformazioni delle percezioni sensibili.
  • In tal modo, come a loro volta i puri concetti della ragione di Kant e le idee morali ed estetiche unitamente ai giudizi di valore rinviano a una sorgente nascosta e autonoma da cui le idee e i sentimenti religiosi prendono forma, una sorgente che si trova nello spirito stesso, indipendentemente dall’esperienza sensibile: è la «ragion pura» nel senso più profondo del termine, che a causa dell’eccedenza del suo contenuto va tenuta distinta sia dalla pura ragione teorica che dalla pura ragion pratica di Kant, essendo qualcosa di più elevato e più profondo di queste. Le chiamiamo il «fondamento dell’anima».
  • Spiegare è un’azione che sottende la ragione, ma la strada della ragione diverge da quella dello spirito che si manifesta con la religione. Infatti per spiegare la religione occorre possedere l’elemento originario a partire dal quale ciò è possibile (principio di causalità). Dal nulla non si spiega nulla. La natura può essere spiegata a partire dalle forze fondamentali e primordiali, per cui è necessario studiarne le leggi, che non ha senso che vengano ulteriormente spiegate.
  • Ma nel mondo dello spirito il principio primo da cui deriva una spiegazione è lo spirito stesso, con le sue disposizioni, capacità e leggi; spirito che va presupposto ma che non può essere spiegato.
  • Nessuno può dire come lo spirito è fatto, mentre in fondo è questo che vorrebbe fare la teoria dell’evoluzione spirituale. La storia dell’umanità ha inizio con l’uomo, il quale va presupposto per rendere conto della storia stessa. E lo si presuppone con un essere analogo a noi stessi nelle sue attitudini e capacità, visto che mettersi nei panni di un pitecantropo è un’impresa senza speranza. Del resto, possiamo chiarire anche gli impulsi della vita animale soltanto con il principio di analogia e con una regressione rispetto allo sviluppo compiuto dallo spirito. Ma voler comprendere lo spirito deducendolo da quel principio e da quella regressione significa fare della serratura la chiave, far luce servendosi dell’oscurità. 
  • Una prima datità indeducibile è costituita già dal primo illuminarsi della vita cosciente a partire dalla materia inerte. Ma già ciò che si rende cosciente è una molteplicità di qualità che possiamo interpretare come una predisposizione simile a dei semi, da cui, in seguito a una sempre migliore organizzazione del corpo, nascono abilità mano a mano più mature. E in tal senso possiamo gettare un po’ di luce sull’intero ambito della psiche sub-umana solo interpretandolo ancora una volta come una disposizione in rapporto alla disposizione dello spirito evoluto. Quest’ultima sta alla prima in un rapporto – diremmo – embrionale. 
  • Ciò che significa «disposizione» tuttavia no ci appare del tutto oscuro, dato che nel nostro crescere e nel nostro maturare seguiamo in qualche modo in noi stessi lo sviluppo della disposizione verso la sua maturità, del germe verso la pianta, senza che tutto ciò significhi trasformazione o aggiunta di qualcosa di nuovo. Chiamiamo questa sorgente una nascosta disposizione dello spirito umano, la quale si sveglia quando è sollecitata da stimoli. Disposizione in forma più elevata sono i talenti.
  • La disposizione che la ragione umana portò con sé quando la specie umana entrò nella storia in quanto attitudine divenne un impulso, e cioè un impulso religioso, in parte attraverso gli stimoli esterni, in parte attraverso la pressione interna. E questo impulso, con tentativi ed emozioni, cercando e dando vita a rappresentazioni fantastiche, generando idee sempre più progredite, voleva giungere e giunse alla consapevolezza di sé in virtù dello svolgimento dell’oscura idea fondamentale da cui a sua volta proveniva. E questa emozione, questa ricerca, questa generazione e questo svolgimento offrono la trama per lo sviluppo della religione nella storia.

LA COMPARSA DEL SACRO NELLA STORIA

  • All’inizio dell’evoluzione storico-religiosa ci sono certi singolari fenomeni che poco hanno a che vedere con il «concetto» di religione come lo intendiamo oggi.
  • Sono fenomeni che precedono la religione e che tuttavia hanno poi agito profondamente in essa; fenomeni come la credenza nei morti e il loro culto, la credenza nell’anima e il rispettivo culto, la magia, le favole e i miti, l’adorazione di oggetti naturali, terribili o affascinanti, nocivi o benigni, la particolare idea della forza, il feticismo e il totemismo, il culto degli animali e delle piante, il demonismo e il poli-demonismo. 
  • In tutti questi fenomeni, per quanto eterogenei tra loro e lontani dalla vera religione, si fa già sensibilmente presente e riconoscibile un comune momento, e cioè un momento numinoso, per mezzo del quale (e solamente per suo mezzo) essi possono dirsi preludio della religione.
  • Questi fenomeni non derivano originariamente dal momento numinoso; eppure possiedono forse tutti uno stadio preliminare nel quale non erano altro che mere formazioni «naturali» della fantasia primitiva di un tempo mitico. Ma poi essi vengono acquisendo una forma e una chiara configurazione, grazie a cui soltanto diventano preludio della religione, con una caratteristica e consolidata identità; configurazione che soprattutto conferisce loro un enorme potere sugli animi, come fa vedere la storia di ogni luogo. 
  • Caratteristica comune di questi fenomeni è la loro indeducibilità e apriorità. Sorgono, infatti, dal profondo inconscio e si trasformano inizialmente in «timore demoniaco» che sta all’origine della storia delle religioni. La religione comincia con se stessa e agisce già negli stadi preliminari del mitico e del demoniaco. 
  • Lo stato primitivo viene superato nella misura in cui il numen si «rivela» sempre più intensamente e pienamente, cioè quando esso si manifesta all’animo e al sentimento. Anche allora, però, permangono dalla parte del numinoso tutti i momenti di inconcepibilità irrazionale, che si rafforzano a mano a mano che il numinoso si «rivela», dal momento che rivelarsi non significa certo diventare comprensibile all’intelletto. 
  • Ci può essere qualcosa che per profonda essenza è noto, persino famigliare, al sentimento, qualcosa di beatificante e sconvolgente a cui tuttavia l’intelletto nega ogni concetto. 
  • Si può intimamente capire con il sentimento senza comprendere con l’intelletto, come nel caso della musica. Ciò che nella musica è comprensibile e intelligibile non è più musica. La conoscenza e la comprensione concettuale non sono la stessa cosa, anzi, spesso stanno in stridente contrasto. Così, la misteriosa, concettualmente insolubile oscurità del numen non ha un significato minore rispetto alla sua non-conoscenza o inconoscibilità.
  • L’irrazionale non è affatto qualcosa di sconosciuto, di non riconosciuto. Se così fosse, non ci riguarderebbe, e di esso non potremmo nemmeno dire che è qualcosa di irrazionale. È inconcepibile, incomprensibile, inafferrabile per l’intelletto. Ma è sperimentabile dal sentimento.
  • Così, sia i momenti razionali che quelli irrazionali della complessa categoria del «sacro» sono momenti a priori. E i secondi lo sono nella stessa misura in cui lo sono i primi. 
  • La religione non è succube né del télos né dell’éthos, e non vive di postulati, per cui anche l’irrazionale presente in essa ha la sua propria e autonoma radice nelle profondità nascoste dello spirito.
  • Ma, infine, questo vale poi anche per la connessione tra i momenti del razionale e quelli dell’irrazionale nella religione, per la necessità strutturale del loro reciproco appartenersi. 
  • La storia delle religioni riferisce sì, con una certa naturalezza, della graduale interconnessione di questi momenti come processo di moralizzazione del divino. In effetti, questo processo appare allo spirito come qualcosa di ovvio, qualcosa la cui necessità non lascia dubbi. Eppure, l’evidenza interna di questo processo è a sua volta un problema che non possiamo risolvere senza l’ipotesi di un’oscura «conoscenza sintetica a priori» dell’essenzialmente necessaria co-appartenenza di questi momenti. E infatti, dal punto di vista logico, tale connessione non è affatto necessaria. 
  • Una religione si preserva dal ridursi a razionalismo mantenendo vivi e vigili i suoi momenti irrazionali, come d’altra parte si preserva dal cadere o dal chiudersi nel fanatismo o nel misticismo arricchendosi di momenti razionali; solo così si rende capace di essere una religione qualitativamente elevata, culturalmente affinata e umanamente universale. E così il cristianesimo si formò nel salutare rapporto dei suoi momenti, sulla falsariga del mondo classico.
  • È diverso credere semplicemente a qualcosa di soprasensibile oppure farne anche l’esperienza, avere un’idea del sacro oppure avvertirlo che operando si manifesta. È una delle convinzioni base di tutte le religioni e della religione in sé che sia possibile anche questo secondo aspetto.
  • Il linguaggio religioso chiama «segni» questi elementi concreti e queste manifestazioni del sacro. Fin dall’epoca della religione primordiale è stato considerato come un segno tutto ciò che era in grado di destare nell’uomo il sentimento del sacro, di stimolarlo e di farlo erompere: il terribile, il sublime, il soverchiante, il sorprendente, il misterioso e l’arcano, divenuto portentum e miraculum.
  • Tutte queste circostanze non erano «segni» propriamente detti: erano semplici cause occasionali del sentimento religioso, perché si destasse spontaneamente; le cause vere e proprie si nascondevano in un momento in cui tutte queste circostanze non facevano che apparire simili al sacro. Interpretarle come reali manifestazioni del sacro fu l’effetto di una confusione tra la categoria del sacro e qualcosa di solo esteriormente corrispondente.
  • Chiamiamo divinazione la facoltà di conoscere e riconoscere autenticamente la manifestazione del sacro. Secondo la teoria soprannaturalistica la cosa è semplicissima: la divinazione, cioè il fatto di riconoscere qualcosa come un «segno», consiste nell’imbattersi in un processo che non si può spiegare in base alle leggi naturali. Ma dal momento che questo processo avviene comunque, e non può avvenire senza una causa, e non ne ha una naturale, si afferma che questo processo ne deve avere una soprannaturale, della quale è «segno».
  • È quasi superfluo mettere artificialmente a tema, per smentire questa concezione, il fatto che non siamo per nulla in grado di rilevare se un determinato processo sia dovuto a cause naturali o meno, se cioè abbia luogo contro le leggi della natura. È lo stesso sentimento religioso a ribellarsi alla cosificazione di quello che vi è di più sottile nella religione: incontrare Dio e trovarlo. 
  • Non le scienze naturali o la metafisica, ma già un maturo senso religioso rifiuta di avere a che fare con la grossolanità di queste confutazioni, che sono sorte dal razionalismo e generano razionalismo, che non solo sono d’intralcio alla vera divinazione, ma la sospettano di non essere che fantasticheria, misticismo, romanticismo. 
  • L’autentica divinazione non ha nulla a che fare con le leggi naturali, con il fatto che esista o meno un rapporto con esse. Non si chiede come si forma una determinata realtà – evento, persona o cosa che sia – ma si domanda quale ne sia il significato, il significato cioè del fatto di essere un «segno» del sacro.
  • Più importante della questione se la prima comunità abbia fatto – e abbia potuto fare – esperienza del sacro in Cristo e presso di Lui è per noi la questione se tutto questo sia possibile anche per noi oggi, se cioè l’immagine trasmessaci nella comunità e attraverso di essa di quanto ha operato, di come è vissuto e del modo in cui si è comportato abbia per noi il valore e la forza di una rivelazione o se invece non facciamo che nutrirci del patrimonio lasciatoci dalla comunità primitiva, edificando la nostra fede sulla base della testimonianza e dell’autorità altrui. 
  • La questione sarebbe insolubile se non ci fosse dato di accogliere in noi quell’intima capacità intuitiva di comprendere e di interpretare, quella testimonianza dello spirito possibile solamente sul fondamento della presenza nel nostro animo di una disposizione categoriale a riconoscere il sacro. 
  • Se già allora senza questo elemento era impossibile la comprensione e l’impressione dell’immediata presenza di Cristo, come potrebbe essere capace la mediazione di una qualsiasi tradizione? Tuttavia, le cose cambiano completamente quando ci è dato di fare questa ipotesi. In tal caso non ci disturba nemmeno l’aspetto frammentario, i molteplici elementi di insicurezza, i miscugli con la leggenda o la coloritura ellenistica: lo spirito riconosce ciò che proviene dallo spirito.
  • È questo e nient’altro che questo a fornirci una chiave per comprendere la questione di s.Paolo. Egli, il persecutore della comunità, poteva intuire l’essenza e il significato di Cristo e del suo evangelo soltanto a brandelli, per frammenti. Ma lo spirito, dall’interno, lo costrinse al riconoscimento di Damasco, insegnandogli a comprendere in profondità la figura di Cristo; così bisogna riconoscere che in fondo nessuno ha compreso Cristo tanto pienamente e acutamente quanto s.Paolo.
  • Se possiamo ancora fare esperienza del sacro in Cristo e presso di Lui, a sostegno della nostra fede, ne è primo e ovvio presupposto che noi possiamo direttamente comprendere ed esperire, in base al loro valore, le cose principali – le più originali e immediate – che Cristo ha compiuto, in modo che da qui si sviluppi poi subito l’impressione della sua sacralità. 
  • Qui sorge una prima domanda: quello che noi oggi siamo convinti di aver capito di Cristo e del cristianesimo coincide veramente con quello che Cristo voleva significare e compiere e con quello che di lui percepì la comunità primitiva?
  • La questione non è sostanzialmente diversa da quella che si chiede se il cristianesimo sia realmente in possesso di un principio proprio; un principio, benché capace di sviluppo storico, la cui essenza sia sostanzialmente rimasta fedele a se stessa, in modo da rendere il cristianesimo di oggi e la fede dei primi discepoli grandezze paragonabili ed essenzialmente uguali.
  • Il cristianesimo, la grande religione universale che abbiamo oggi sotto gli occhi con la sua effettiva presenza, in base alle sue pretese e alle sue promesse è senza dubbio una religione di redenzione nel senso più pieno dell’espressione. Salvezza – salvezza sovrabbondante -; liberazione del «mondo» e vittoria su di esso, sull’esistenza legata al mondo, sulla creaturalità; annullamento della lontananza da Dio e dell’inimicizia con Lui; redenzione dalla schiavitù del peccato e dalla colpa; riconciliazione ed espiazione, ma anche grazia e dottrina della grazia; spirito e comunicazione dello spirito; rinascita e nuova creatura: sono questi oggi i suoi contenuti peculiari, comuni malgrado le molteplici scissioni in chiese, confessioni e sètte.
  • Sono questi tratti a caratterizzarlo, con estrema chiarezza e precisione, come religione di redenzione per eccellenza,  del tutto paragonabile, da questo punto di vista, alle grandi religioni orientali con il loro forte dualismo tra salvezza e dannazione.
  • La parabola del granellino di senape e dell’albero che cresce da esso rappresenta bene una risposta alle questioni poste sopra. Essa sta a indicare il mutamento, dal momento che l’albero è qualcosa di diverso dal seme; ma un mutamento che non significa trasformazione, bensì passaggio dalla potenza all’atto, che è vero sviluppo, non trasmutazione. 
  • Già tutto è contenuto nell’annuncio di Gesù, che si caratterizza in due momenti fondamentali: 
  • 1 – a un livello originario e come perfetta costante, la predicazione del Regno di Dio in quanto aspetto basilare e non secondario;
  • 2 – la reazione al fariseismo, legata all’ideale di una pietà intesa come carattere e atteggiamento filiale in conseguenza del perdono delle colpe.
  • Ma entrambi i momenti, in linea di principio, offrono già tutto ciò che in seguito si svilupperà nel carattere redentivo del cristianesimo, comprese le dottrine che ne segnano l’originalità, come quelle della grazia, dell’elezione, dello Spirito e del rinnovamento nello Spirito. Tutte cose di cui fece esperienza e di cui era in possesso, implicitamente, la prima comunità.
  • La materia prima utilizzata dagli impulsi di ordine religioso, assai spesso, è prima di tutto di natura terrena e mondana. Gli impulsi escatologici – vale a dire gli impulsi rivolti a una salvezza risolutiva e definitiva – si manifestano tipicamente nella loro dimensione di irrequietezza, di costante avanzamento, di ansia di emanciparsi dalla propria origine e nel desiderio di trasfigurarsi; questo ne mette in risalto l’intima essenza, che altro non è che autentica brama di redenzione, presagio, anticipazione di un bene intuito, esuberante, «totalmente altro»; un bene che è salvezza e sotto questo aspetto è paragonabile ai beni soterici ai quali aspirano le altre religioni, essendone al contempo superiore.
  • Il Vangelo guarda tutto alla redenzione, che un giorno Dio compirà eppure è già stata sperimentata. Dal primo punto di vista in quanto certezza del Regno di Dio; dal secondo grazie alle esperienze spirituali, immediate e già presenti, dell’essere figli di Dio, versate nell’anima della sua comunità affinché ne entrasse subito in possesso. Che la comunità fosse pienamente consapevole di questa salvezza, del fatto che fosse qualcosa di completamente nuovo dal punto di vista qualitativo, di inaudito, di esuberante, tutto questo si rispecchia nel lógion secondo cui la Legge e i Profeti si fermano a Giovanni, ma ora il Regno è giunto con potenza, e che anche Giovanni fa parte di «Legge e Profeti».
  • Ma se si volesse sintetizzare all’estremo questa novità, pur mantenendone il nucleo più autentico, lo troviamo nelle parole di s.Paolo nella Lettera ai Romani (8, 15): «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre». Qui s.Paolo ha capito perché e con quali conseguenze Gesù va a imporsi, e ha colto con grande precisione dove si trova il punto di rottura con l’antico, dove inizia la «nuova religione», quali ne sono il principio e l’essenza.
  • Sono il «principio» e «l’essenza» di quei primi pescatori sul lago di Galilea che hanno attraversato sempre uguali tutta la storia del cristianesimo. Essi hanno stabilito qual’è il nuovo modo di guardare al peccato e alla colpa, alla legge e alla libertà, e hanno offerto, per principio, «giustificazione», «rinascita», «rinnovamento», il dono dello Spirito, la nuova creazione e la beata libertà dei Figli di Dio.
  • Così, i primi e immediati effetti dell’agire di Cristo – lo possiamo comprendere ancora oggi in tutta chiarezza – sono la creazione e il dono della salvezza come speranza e come possesso tramite i quali si desta la fede nel suo Dio e nel Regno di Dio. 

Liberamente tratto da: «Il sacro» di Rudolf Otto

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