di F. Nietzsche.
- Il continuo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco: in modo analogo a quello per cui la procreazione dipende dai due sessi, che stanno tra loro in un continuo conflitto cui si alternano periodi di conciliazione.
- Questi due termini li prendiamo in prestito dai Greci, i quali rendono comprensibili a coloro che vogliono penetrarli i profondi insegnamenti segreti della loro percezione dell’arte non attraverso concetti, bensì attraverso l’incisivo risalto delle figure nel loro mondo di dèi.
- L’arte apollinea della forma, utilitaria e razionale, e l’arte dionisiaca, istintiva e priva di immagini, si pongono agli estremi del loro dominio producendo un risultato sempre diverso a seconda che prevalga l’una o l’altra, frutto di un’interazione sempre sofferta.
- Per osservare più da vicino entrambi questi istinti, pensiamoli in primo luogo come i mondi artistici separati tra loro del sogno e dell’ebbrezza; tra questi due fenomeni fisiologici si può osservare lo stesso contrasto che c’è tra l’apollineo e il dionisiaco.
- La bella parvenza dei mondi del sogno, nella creazione dei quali l’uomo è pienamente artista, è il presupposto di ogni arte plastica ma anche di una significativa metà della poesia. Noi godiamo nell’immediata comprensione della figura, tutte le forme ci parlano, niente ci è indifferente o ci appare non necessario. Sebbene questa realtà del sogno sia estremamente vivida, fa tuttavia balenare in noi la sensazione che sia solo apparenza. L’uomo filosofico ha il presentimento che, sotto questa realtà in cui viviamo e siamo, si celi una seconda realtà completamente diversa e che anche questa sia apparenza.
- Questa stessa necessità dell’esperienza del sogno è stata espressa dai Greci nel loro Apollo: Apollo come il dio di tutte le energie plastiche è al tempo stesso il dio profetico. Egli che, secondo la radice del nome, è lo «splendente», la divinità della luce, domina anche la bella parvenza del mondo interiore della fantasia. La superiore verità, la perfezione di questi stati interiori contrapposta alla realtà diurna, comprensibile solo in maniera lacunosa, inoltre la profonda coscienza di una natura che nel sonno e nel sogno aiuta e risana, trovano una corrispondenza simbolica nella facoltà divinatoria e nelle arti in generale, attraverso le quali la vita è resa possibile e degna di essere vissuta. Ma anche quella linea sottile che l’immagine del sogno non può superare, per non avere un effetto patologico, non può mancare nell’immagine di Apollo: quella misura e senso del limite, quella libertà dalle emozioni più sfrenate, quella quiete piena di saggezza del dio delle arti plastiche. Il suo occhio deve essere «solare», corrispondentemente alla sua origine; anche quando è adirato e il suo sguardo è corrucciato, su di lui aleggia la sacra aura della bella parvenza.
- Apollo si dovrebbe dire che in lui ha trovato la sua più sublime espressione la fiducia incrollabile nel principio di ragione sufficiente, e la calma con cui resta assiso chi in tale principio è irretito.
- Di contro, è intuibile quanto orrore afferri questo uomo immerso nella calma apollinea quando improvvisamente resta disorientato di fronte alla conoscenza del fenomeno mentre il principio di ragione sembra subire un’eccezione in una qualunque delle sue manifestazioni. Se a questo senso di stupore associamo l’estasi gioiosa che sale dalle più intime profondità del suo animo allora possiamo gettare uno sguardo sull’essenza del dionisiaco, in una certa analogia con i sintomi dell’ebbrezza che fanno svanire l’elemento soggettivo in una totale dimenticanza di sé.
- Sotto all’incanto del dionisiaco non solo si rinsaldano i vincoli tra uomo e uomo: anche la natura straniata, ostile o asservita, celebra nuovamente la sua festa di riconciliazione con il suo figliol prodigo: l’uomo. La terra dispensa spontaneamente i suoi doni e le belve feroci delle rocce e del deserto si avvicinano mansuete. Il carro di Dioniso è ricolmo di fiori e ghirlande: sotto il suo giogo incedono la pantera e la tigre.
- Adesso lo schiavo è un uomo libero, adesso si infrangono tutte le rigide, ostili barriere innalzate tra gli uomini dalla necessità e dall’arbitrio. Ciascuno si sente non solo riunito, riconciliato, amalgamato al suo prossimo, ma addirittura una cosa sola. Cantando e danzando, l’uomo rivela la sua appartenenza a una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è in procinto di sollevarsi in aria danzando. I suoi gesti attestano lo stato di incantamento.
- L’uomo non è più artista, è diventato opera d’arte: qui, nel trasalimento dell’ebbrezza, si rivela la potenza artistica dell’intera natura per il supremo, voluttuoso appagamento dell’uno originario.
- Di fronte a questi stati artistici immediati della natura, ogni artista è «imitatore», vale a dire, o artista apollineo del sogno, o artista dionisiaco dell’ebbrezza o, infine, – come nella tragedia greca – artista al tempo stesso del sogno e dell’ebbrezza.
- Accostiamoci ai Greci per capire in che grado e fino a quale livello si siano sviluppati in loro quegli istinti artistici della natura.
- Dobbiamo scoprire l’immenso abisso che separa i Greci dionisiaci dai barbari dionisiaci.
- In tutto il mondo di allora esistevano feste dionisiache dove si trovava un eccesso di sfrenatezza sessuale, in cui venivano scatenate le bestie più selvagge della natura, fino a un’esecrabile mistura di lussuria e crudeltà.
- Contro gli eccitamenti febbrili di queste feste, la cui conoscenza giungeva fino ai Greci da tutte le vie di terra e di mare, questi furono, a quanto sembra, per un certo periodo di tempo, completamente al sicuro, protetti dalla figura di Apollo che qui si ergeva in tutta la sua fierezza. È stata l’arte dorica a immortalare Apollo in questo suo atteggiamento maestoso di difesa.
- Questa resistenza prese a sfaldarsi e divenne persino impossibile allorché alla fine cominciarono a farsi strada istinti analoghi dalle radici più profonde della grecità: adesso l’azione del dio delfico si limitò a togliere di mano al potente avversario le armi distruttive giungendo, al momento opportuno, a una conciliazione.
- Questa conciliazione è il momento più importante nella storia del culto greco: fu la conciliazione di due avversari che avvenne attraverso una rigida demarcazione delle linee di confine che da quel momento erano tenuti a rispettare, e tramite l’invio periodico di doni onorifici; ma in fondo non c’erano ponti sull’abisso che li separava.
- Però, se guardiamo come si manifestava la potenza dionisiaca sotto la pressione di quel trattato di pace, riconosciamo nelle orge dionisiache dei Greci, in confronto alle Sacee babilonesi, in cui l’uomo regrediva a tigre o a scimmia, il significato di feste per la redenzione del mondo e di giorni di trasfigurazione. Solo presso di loro la natura raggiunge, per la prima volta, uno stato di esultanza nell’arte, solo presso di loro la lacerazione del principium individuationis diventa un fenomeno artistico. Quelle ripugnanti feste, fatte di lussuria e crudeltà, avevano perso qui i loro poteri; nelle feste greche emergerà invece un tratto sentimentale della natura, quasi si rammaricasse di essere stata spezzettata in singoli individui.
- Ora è necessario che l’essenza della natura si esprima in forma simbolica; un nuovo mondo di simboli è necessario: in primo luogo l’intero simbolismo corporeo, non solo quello della bocca, del volto, della parola, ma tutta la gestualità della danza che fa muovere ritmicamente tutte le membra.
- Lo spirito apollineo copre, come il velo di Maia, il suo substrato originale dionisiaco ma non lo annichilisce.
- Lo stesso istinto, che prese forma concreta in Apollo, ha generato anche l’intero mondo olimpico e in questo senso possiamo ritenere Apollo padre di quel mondo.
- In quel mondo non c’è nulla che ricordi l’ascesi, la spiritualità e il dovere: qui ci parla unicamente un’esistenza esuberante, anzi trionfante, in cui viene divinizzato tutto quello che esiste, non importa se buono o cattivo.
- Narra l’antica leggenda che il re Mida abbia dato per lungo tempo la caccia nel bosco al saggio Sileno, l’accompagnatore di Dioniso, senza riuscire a catturarlo. Quando questi infine cadde nelle sue mani, il re gli domando quale fosse la cosa preferibile e il bene supremo per gli uomini. Rigido e immobile il demone tace; fino a che, costretto dal re, erompe in una stridula risata pronunciando queste parole: «Misera stirpe caduca, figli del caso e dei tormenti, perché mi costringi a dirti quello che per te sarebbe ben più vantaggioso non sentire? Il bene più grande è per te assolutamente irraggiungibile, non essere nato, non essere, non essere nulla. Ma immediatamente dopo, il bene più grande è per te – morire presto».
- Che relazione c’è tra il mondo degli dèi olimpici e questa saggezza popolare? La stessa che intercorre tra la visione estatica del martire sotto tortura e i suoi supplizi.
- Ora, per così dire, si spalanca al nostro sguardo la montagna incantata dell’Olimpo e ci svela le sue radici. Il Greco conosceva e sentiva gli aspetti orrendi e terrifici dell’esistenza: per riuscire, nonostante questo, a vivere, si sentì costretto a porvi davanti la luminosa e gloriosa creazione onirica degli dèi olimpici che, quanto meno, velavano la dura realtà rendendola sopportabile.
- Lo stesso istinto che dà vita all’arte, in quanto complemento e completamento dell’esistenza che può sedurci alla vita, fece sorgere anche il mondo olimpico nel quale la «volontà» greca teneva davanti a sé uno specchio trasfigurante. È così che gli dèi giustificano la vita degli uomini, vivendola essi stessi – l’unica teodicea in grado di soddisfarci.
- L’esistenza sotto la chiara luce del sole di tali dèi viene percepita come qualcosa che si vorrebbe di per sé riuscire a conquistare, e l’autentico dolore degli eroi omerici si riferisce al fatto di doversene distaccare, di doverla, soprattutto, lasciare troppo presto: cosicché adesso si potrebbe dire di loro, che hanno rovesciato quanto espresso dalla saggezza del Sileno.
- Nello stadio apollineo, la «volontà» anela a questa esistenza con impeto, l’uomo omerico si sente a tal punto tutt’uno con essa che ingenuamente il lamento diventa il suo encomio.
- Ma quanto è raro che si raggiunga l’ingenuo lasciandosi completamente inghiottire dalla bellezza dell’apparenza!
- Com’è dunque indicibilmente sublime Omero, che come singolo ha con quella cultura popolare apollinea lo stesso rapporto che c’è tra l’artista del sogno e la capacità onirica del popolo e della natura in genere!
- L’ingenuità omerica si può intendere solamente come completa vittoria dell’illusione apollinea: illusione simile a quella che la natura impiega così frequentemente per raggiungere i suoi fini. Il vero scopo viene nascosto da un’immagine illusoria.
- Con questo rispecchiarsi nella bellezza la «volontà» ellenica combatteva contro la propria disposizione, correlata a quella artistica, alla sofferenza, alla saggezza e al dolore: e come monumento della sua vittoria sta davanti a noi Omero, l’artista ingenuo.
- Su questo artista ingenuo ci può fornire qualche spiegazione l’analogia col sogno. Il sogno fa dimenticare il giorno e la sua terribile invadenza, che chiamiamo realtà. Infatti è la realtà che consideriamo più importante anche se non sappiamo esattamente dove essa abbia le sue radici.
- Quanto più osservo nella natura quegli onnipotenti istinti artistici e in essi una fervida aspirazione all’apparenza, alla redenzione attraverso l’apparenza, tanto più mi sento spinto all’ipotesi metafisica che ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eternamente sofferente e pieno di contraddizioni, ha bisogno al contempo della visione beatificante e della gioiosa apparenza per la sua continua redenzione.
- Se proviamo per un attimo a lasciare da parte la nostra propria «realtà» e a concepire la nostra esistenza empirica, come quella del mondo in generale, alla stregua della rappresentazione, prodotta in ogni momento, dell’uno originario, allora il sogno deve valere per noi come «apparenza dell’apparenza», e con ciò come un appagamento ancora superiore della brama originaria di apparenza. Per questo stesso motivo il più intimo nucleo della natura prova quella indescrivibile gioia per l’artista ingenuo e l’opera d’arte ingenua, che similmente non è altro che apparenza dell’apparenza.
- Ma Apollo ci viene di nuovo incontro mostrandoci, con la solennità dei suoi gesti, come sia necessario l’intero mondo del tormento affinché, attraverso di esso, il singolo sia spinto a creare la visione che redime e quindi, immerso nella contemplazione di questa, sieda quieto nella sua barca altalenante in mezzo al mare.
- Apollo, in quanto divinità etica, esige dai suoi la «misura» in senso ellenico, e per poterla conservare la conoscenza di se stessi. E così, alla necessità estetica della bellezza, si accompagna l’esigenza del «conosci te stesso» e del «niente di troppo», mentre la superbia e la dismisura furono considerate i veri demoni propriamente ostili della sfera non apollinea, e quindi come caratteri peculiari dell’era pre-apollinea, vale a dire del mondo barbarico dell’epoca dei Titani, estraneo a quello apollineo.
- A causa del suo amore titanico per gli uomini, Prometeo dovette essere sbranato dagli avvoltoi, mentre Edipo, a causa del suo eccesso di sapienza, che gli permise di risolvere l’enigma della Sfinge, dovette precipitare e smarrirsi nel vortice dei misfatti: così il dio delfico interpretava il passato della Grecia.
- Al greco apollineo parve «titanico» e «barbarico» anche l’effetto che produceva il dionisiaco: senza tuttavia potersi nascondere di essere al contempo intimamente imparentato con quei Titani precipitati e quegli eroi. Sì, egli dovette sentire qualcosa di più: la sua intera esistenza, con la sua bellezza e misura, riposava su un fondamento nascosto di sofferenza e conoscenza, che quello spirito dionisiaco gli faceva ancora una volta scoprire.
- Apollo non poteva vivere senza Dioniso! Il «titanico» e il «barbarico» erano, in fin dei conti, tanto necessari quanto l’apollineo!
- La convivenza era, però, un conflitto. L’individuo, con tutti i suoi limiti e le sue misure, tendeva spontaneamente alla dimenticanza di sé, propria degli stati dionisiaci, e trascurava i faticosi precetti apollinei. La dismisura si rivelava come la verità, la contraddizione, la gioia nata dal dolore parlava di sé erompendo dal cuore della natura.
- Se in questo modo, nella lotta di quei due principi antagonisti, la storia della Grecia antica viene a dividersi in quattro grandi epoche artistiche, dobbiamo allora porci ulteriori domande sul fine ultimo di questo divenire e operare, qualora l’ultimo periodo raggiunto, quello dell’arte dorica, non si dovesse considerare il coronamento e il fine di quegli istinti artistici: ed ecco che qui si offre al nostro sguardo quell’opera d’arte grandiosa e celebrata, la tragedia attica e il ditirambo drammatico come fine comune di entrambi gli istinti, il cui misterioso connubio, dopo il lungo antagonismo che lo aveva preceduto, ha esaltato se stesso generando una tale creatura, che è al tempo stesso Antigone e Cassandra.
- liberamente tratto da “LA NASCITA DELLA TRAGEDIA” di F. Nietzsche