di Walter F. Otto.

L’aspetto più straordinario della religione olimpica, un segna della sua grandezza spirituale, è il fatto che essa sia riuscita a scorgere in tutta la sua grandiosità anche il dio del ripresentarsi del mondo primigenio. 

Dioniso è ben noto all’epopea omerica, e tuttavia egli aveva comprensibilmente poco significato per una generazione di eroi penetrata dallo spirito di Atena: né nell’Iliade, né nell’Odissea egli gioca un ruolo vitale. Ciò, però, non significa, come invece comunemente si crede, che egli sia effettivamente diventato famigliare ai greci soltanto nei secoli successivi. Attualmente sappiamo che già alla metà del secondo millennio a.C. era venerato dai greci a Creta. A Delfi il suo culto è talmente arcaico da poter affermare che nell’antichità egli vi fosse venerato ancor prima di Apollo. La sua grande stagione in Grecia, tuttavia, iniziò soltanto con la caduta di quella nobiltà che si richiamava ai propri eroici antenati. Non si può pensare un’opposizione maggiore di quella tra Zeus, Atena e Apollo, le principali divinità della nobiltà eroica, e Dioniso, che appare come colui che dissolve l’intero ordine dell’essere di queste divinità nel caos del mondo primigenio. Si trattò della più devastante irruzione della venerazione degli dèi più antichi, pre-olimpici, con cui in età classica la tragedia dovette seriamente lottare, come mostrano soprattutto le Eumenidi e il Prometeo di Eschilo. Le Erinni e il loro seguito furono però soltanto riconciliate, potendo mantenere nelle profondità il loro carattere sacro: Dioniso aveva trionfato. A Delfi egli si era concesso a tal punto con Apollo, dal quale differisce come il giorno dalla notte, che i due dèi appaiono come fratelli, e celebri immagini ce li mostrano nell’atto di porgersi amichevolmente la mano.

Si tratta probabilmente del miracolo più grande nella venerazione greca degli dèi: il figlio del dio del cielo e di una donna mortale, perseguitato, sofferente e vittorioso, mortale e risorto, ascende in certo qual modo tra gli olimpici. 

Qual’è la natura di questo dio?

Se Atena è colei che è sempre vicina, la cui presenza è l’attimo favorevole dell’azione decisiva, allora Dioniso è il dio che si manifesta con lo sguardo spettrale ed enigmatico, il cui simbolo è la maschera, che presso tutti i popoli significa l’apparire improvviso di spiriti misteriosi. Egli stesso viene venerato come maschera. Il suo sguardo toglie respiro, causando sconcerto ed eliminando ogni limite dell’esistenza ben ordinata. Gli uomini impazziscono, sia nel senso di una follia beata, che traspone in estasi indicibili, le quali liberano da ogni pesantezza terrena attraverso la danza e il canto, sia nel senso di una follia oscura, dilacerante e apportatrice di morte. 

Allorché egli irrompe con la sua schiera selvaggia, assistiamo al ritorno del mondo primigenio che, in quanto pre-esistente, deride ogni limite e norma e non riconosce alcuna gerarchia o diritto di nascita, poiché, come vita assorbita dalla morte, abbraccia e riunisce, per così dire, ogni creatura. 

Dioniso significa il mondo del puro miracolo, la lussureggiante esuberanza di ogni crescita, il potere magico della vite, che trasforma l’anima umana in prodigio, coniugandola con l’infinito. È il mondo del femminino originario, in un senso però diverso, più primitivo, rispetto a quello di Afrodite. Dioniso non si rivela nella donna che ama e che si sacrifica, che partorisce figli, bensì in quella che nutre e accudisce, in estasi di fronte al prodigio di tutto ciò che vive. Scompare il confine tra animale e uomo: le donne dionisiache allattano giovani fiere, si intrecciano con serpenti che leccano loro amorevolmente le guance. 

Nel regno di Dioniso la vita dirompente non è priva di morte. Il mistero del suo incanto senza nome è infatti l’infinita profondità della vita coniugata alla morte. Così egli è il cacciatore cacciato, sopraffatto, smembrato e nuovamente risorto, del pari le donne che condividono la sua danza non sono semplicemente materne nei confronti dei figli e dei cuccioli ma, al contempo, crudeli e assetate di sangue in seguito a oscura follia. 

Dioniso è il signore dei vivi e dei morti. Ad Atene, durante le sue festività primaverili, egli concede con sé le anime dei morti a far visita segretamente ai viventi, quando il vino nuovo è maturo e le libagioni avvengono in sua presenza e compagnia, in un entusiasmo festoso. 

Sul palcoscenico egli interpreta i grandi morti, di cui i canti eroici ne hanno tessuto le lodi, con i loro destini, le loro sofferenze e i trapassi. La tragedia è sorta ed è divenuta adulta nell’ambito del suo culto. Benché implicitamente, essa però indica già la connessione del suo spirito con quello di Apollo. Lo stupefacente duplice volto della tragedia, nel quale al canto orale – un tempo dominante e accompagnato dai flauti dionisiaci – si affianca il discorso parlato, finché quest’ultimo ottiene con Eschilo il ruolo fondamentale, tale stupefacente duplice volto della tragedia rappresenta l’immagine più grandiosa dell’unificazione del dionisiaco con l’apollineo.

Il significato cosmico dei due dèi che, per quanto diversi non si respingono, diviene chiaro se guardiamo alle loro festività. Si è già detto dell’originaria relazione di Apollo con il sole. La sua festa, che coincide con il solstizio invernale e che è l’unica festa costante, espressamente nominata dai poemi omerici, accade nel giorno in cui Odisseo torna a casa, tendendo l’arco per il suo colpo magistrale e annientando i Proci: entrambe le cose nel nome di Apollo. E nei giorni invernali, quando rinasce la luce celeste, le Menadi danzano sul Parnaso e rinvengono il fanciullo Dioniso nella culla.

La religione greca ha raggiunto le altezze più sublimi con il legame tra Dioniso e Apollo. Non può essere un mero caso che Apollo e Dioniso si siano venuti incontro. Si sono attratti e cercati perché i loro regni, nonostante la contrapposizione più aspra, alla base sono collegati da un nesso eterno. 

La stirpe degli dèi olimpici è essa stessa sorta da quelle ctònie profondità abissali in cui Dioniso è di casa, e non può certo negare la sua oscura provenienza. La luce e lo spirito lassù in alto devono costantemente avere sotto di sé ciò che è notturno e le profondità materne sulle quali tutto l’essere poggia. In Apollo è riunito tutto lo splendore dell’Olimpo, contrapposto al regno dell’eterno divenire e trapassare. L’intera misura del mondo consiste in Apollo con Dioniso, l’ebbra guida della circolarità terrena. 

Toccava alla religione olimpica, una religione non della sottomissione o del cuore bisognoso, bensì dello spirito illuminato, riconoscere e venerare l’ «armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira» (Eraclito), là dove altre religioni separavano e condannavano.

Tratto da «TEOFANIA» di Walter F. Otto – ADELPHI

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