di Miguel de Unamuno.

Don Chisciotte seguì la strada che più garbava a Ronzinante, poiché tutte le strade conducono all’eternità della fama quando alberga nel petto un coraggioso proposito. … E proprio mentre così procedeva gli avvenne di imbattersi in quel gruppo di mercanti toledani che andavano a Murcia a comprare seta. E vide in ciò una nuova avventura e si piantò dinnanzi a loro, come ci narra Cervantes, e volle che confessassero «che non c’è in tutto il mondo più bella donzella dell’Imperatrice della Mancia, la impareggiabile Dulcinea del Toboso. ….. Qua Don Chisciotte non si dispone a battagliare per soccorrere i bisognosi, né per raddrizzare i torti, né per ristabilire la giustizia, ma solo per la conquista del regno spirituale della fede. Voleva far confessare a quegli uomini che, con i loro cuori coniati in moneta scorgevano soltanto il regno materiale delle ricchezze, che esiste anche un regno spirituale, e redimerli così, malgrado loro stessi. I mercanti non cedettero perché, dissero, non conoscevano Dulcinea. Ed è qua che Don Chisciotte inforca la più bella chisciotteria ed esclama: «Se ve la mostrassi, cosa mai varrebbe la confessione di una verità così ben conosciuta? L’importanza sta nel dovere, senza vederla, credere a quel che dico, confessarlo, giurarlo e sostenerlo!». Ma essi sostenevano che almeno mostrasse loro un piccolo ritratto e, aggiungendo protervia all’ostinazione, bestemmiarono. …. E per far loro pagare, e ben cara, una sì gran bestemmia, si slanciò Don Chisciotte, lancia in resta contro colui che aveva parlato «con tanta furia e rabbia che, se per buona fortuna Ronzinante non fosse inciampato e caduto nel mezzo della strada, il baldanzoso mercante l’avrebbe passata brutta». Don Chisciotte fu sbalzato a terra e lì, lungo disteso, facendo di tutto per tirarsi su, li sfidava ancora chiamandoli «gente codarda, gente miserabile» e dimostrando loro che non per colpa sua ma per difetto del cavallo giaceva lì disteso. E arrivò un mulattiere «il quale non doveva essere molto ben intenzionato sentendo dire al povero caduto tante insolenze, non potè sopportare la cosa senza rispondergli col sorbottarlo e lo macinò per benino a legnate fino a far tacere tutto il resto della sua collera e senza fare alcun caso alle grida dei suoi padroni che lo lasciasse stare. Ma tu, impareggiabile Cavaliere, macinato dalle botte e quasi disfatto, ti consideri fortunato, poiché ti pare che codesta sia «disavventura tutta propria dei cavalieri erranti»; e con questa considerazione esalti la tua sconfitta, tramutandola in vittoria.

Steso a terra Don Chisciotte si rifece a un passo di uno dei suoi libri, e cominciò a rotolarsi per terra e a recitare poesie. E capitò a passar di lì Pedro Alonso, un agricoltore suo vicino, che lo rialzò da terra, lo riconobbe, lo aiutò e lo ricondusse a casa sua. Ma non riuscirono a intendersi lungo la strada nella conversazione che ebbero entrambi. Ed è proprio in questa conversazione che Don Chisciotte pronunciò la famosa sentenza, tanto pregna di sostanza, che dice: «So io chi sono!».

Se egli sa chi è, non lo sanno però, né possono saperlo, i pietosi come Pedro Alonso. So io chi sono! Dice l’eroe, perché il suo eroismo fa sì che conosca se stesso. L’eroe può ben dire: «So io chi sono!», e proprio in questo consistono in pari tempo la sua forza e la sua sventura. La sua forza perché, siccome sa chi è, non ha motivo di temere alcuno tranne Dio, che ha fatto di lui ciò che è; e la sua sventura, perché soltanto lui sa, su questa terra, chi è; e siccome gli altri non lo sanno, tutto ciò che egli farà o dirà, sembrerà loro fatto e detto da uno che non si conosce, da un pazzo.

È cosa grande non meno che terribile l’avere una missione della quale è consapevole soltanto colui che la ha e che non riesce a far credere in essa tutti gli altri; l’aver udito nel più recondito dell’anima la voce silenziosa di Dio che dice: «Devi far questo», mentre non dice agli altri: «questo mio figliolo che qua vedete deve far questo». È cosa terribile l’aver udito dire: «Fa questo; fa questo che i tuoi fratelli, giudicando secondo la legge generale con cui li governo, considereranno follia o infrazione alla legge stessa; fallo!, perché la legge suprema sono Io che te lo ordino». E siccome l’eroe è l’unico che ode e sa tutto questo, e siccome l’obbedienza a questo comando e la fede in esso sono ciò che lo fa essere chi è (un eroe), può a ben diritto dire: «so io chi sono, e il mio Dio e io soltanto lo sappiamo, ma non lo sanno gli altri». Tra il mio Dio e me – può soggiungere – non v’è legge alcuna che faccia da legame; ci intendiamo direttamente e personalmente, ed è questo appunto ch’io sono chi sono. Non ricordate l’eroe della fede, Abramo, sul monte Moria? (sacrificio di Isacco).

Grande e terribile cosa è che sia l’eroe l’unico che può vedere la sua eroicità dal didentro, nelle sue stesse viscere, mentre gli altri la vedono dal di fuori, nelle viscere di lui. È ciò che fa sì che l’eroe viva ‘solo’ in mezzo agli uomini e che questa sua solitudine gli serva di confortante compagnia; se mi veniste a dire che, con il pretesto di una simile rivelazione intima, uno qualunque potrebbe, assumendo di sentirsi eroe suscitato da Dio, sollevarsi a suo capriccio, vi dirò che non basta dirlo e assumere d’esserlo, ma bisogna credervi. Non basta esclamare : «So io chi sono!»; bisogna saperlo davvero, e si scopre ben presto l’inganno di chi lo dice, ma non lo sa e forse nemmeno vi crede. E se lo dice e vi crede,  sopporterà rassegnatamente l’avversione del prossimo che continuerà a giudicarlo secondo la legge generale, e non secondo Dio.

«So io chi sono!», nell’udire questa arrogante dichiarazione del Cavaliere non mancherà chi esclami: «Che razza di presunzione, quel gentiluomo!… Sono ormai secoli che diciamo e ripetiamo che l’impegno maggiore dell’uomo dev’essere quello di conoscere se stesso, e che dalla conoscenza di se stesso deriva ogni salvezza; e quel presuntuoso se ne viene a spiattellarci un so io chi sono, tanto fatto! Basterebbe soltanto questo per darci la misura della profondità della sua follia».

Ebbene, chi sbaglia sei proprio tu, se parli così. Don Chisciotte ragionava con la volontà e quando diceva: «so io chi sono!» Intendeva dire soltanto: «so io chi voglio essere!». E questo è il cardine di tutta la vita: che l’uomo sappia chi vuole essere. Poco ti deve importare ciò che sei; la cosa fondamentale, per te, è ciò che vuoi essere. L’essere che tu sei, altro non è che un essere caduco e perituro, che mangia di ciò che gli dà la terra e che un giorno la terra si mangerà; ciò che invece tu vuoi essere è l’idea di te in Dio, Coscienza dell’Universo: è la divina idea di cui tu sei la manifestazione nel tempo e nello spazio. E il tuo impulso volitivo verso questa cosa che tu vuoi essere, altro non è che la nostalgia che ti trascina verso il tuo divino focolare. L’uomo è uomo in tutto e per tutto soltanto quando vuol essere più che uomo.  E se tu che rimproveri così Don Chisciotte per la sua arroganza, non vuoi essere altro che ciò che sei, sei perduto, irremissibilmente perduto.

Sei perduto se non ridesti nelle tue stesse viscere Adamo e la sua fortunata colpa, la colpa che ci ha fatto meritevoli della redenzione. Perché Adamo volle essere simile a Dio, volle conoscere il bene e il male; e per giungervi assaggiò il frutto proibito dell’albero della scienza e gli si apersero gli occhi e si trovò soggetto al lavoro e al progresso. E da quel momento incominciò a essere più che uomo, facendo di necessità virtù, e traendo dalla propria degradazione la sua stessa gloria, e dal peccato le fondamenta stesse della sua redenzione. E perfino gli angeli lo invidiarono, perché ci dice padre Gaspare de la Figuera, gesuita, nella sua Somma Spirituale – e dal momento che ce lo assicura lui, vuol dire che lo sa da buona fonte -, che Lucifero e i suoi compagni si compiacquero di sé perché furono persuasi che le cose andavano bene, e che «quando giunse il comandamento di Dio che tutti i suoi angeli adorassero Cristo, rivelando loro che Dio doveva farsi uomo ed essere infante e morire, considerando tutto questo come incalcolabile discapito della propria natura spirituale, se ne rimasero offesi; di modo che preferirono privarsi della grazia di Dio e della gloria che da Lui potevano avere, piuttosto che piegarsi a simile oltraggio». Così ben si comprende come l’angelo caduto – dal momento che cadde per compiacenza di se stesso – cadde per superbia, e che l’uomo cadde per ambizione, perché volle essere più di ciò che è. Cadde dunque l’angelo per superbia, e caduto resta; cadde l’uomo per ambizione, ma si innalza al seggio più alto di quello da cui cadde.

Solamente l’eroe può dire: «so io chi sono!», poiché per lui «essere» vuol dire «voler essere»; l’eroe sa chi è, e sa chi vuol essere; e soltanto Dio e lui lo sanno, mentre gli altri uomini non sanno neppure chi sono essi stessi, perché in realtà non «vogliono» essere nulla, e tanto meno sanno chi è l’eroe; e non lo sanno nemmeno i pii come Pietro Alonso che lo rialzano da terra. S’accontentano di rialzarlo dal suolo di accoglierlo presso il proprio focolare, senza saper vedere in Don Chisciotte altri che il loro vicino di casa Alonso Chisciano, e senza fare altro che aspettare perché si faccia buio perché nell’entrare in paese «non si avesse a vedere cavalcare così malamente quel nobiluomo pesto».

Intanto il curato e il barbiere del paese, insieme con la governante e la nipote di Don Chisciotte, stavano commentando la sua scomparsa e infilando l’una dopo l’altra assai più sciocchezze di quante non ne avesse infilate il Cavaliere. Questi arrivò infine e, senza badar loro più che tanto, cenò e se ne andò a letto.

Da «VITA DI DON CHISCIOTTE E SANCHO PANZA» di Miguel de Unamuno

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *