di Michel Onfray.
Jean-Jacques Rousseau è quella figura del settecento che incarna, più di Voltaire, il modello del protagonista che trasformerà la Rivoluzione in una grande e nera opera del risentimento. La sua è la tipica nevrosi dell’uomo rancoroso. Rousseau ama se stesso e non ama il mondo, ha un’alta stima di se stesso e detesta gli altri, pone se stesso sopra tutto e tutti e avvilisce tutto ciò che lui non è. È ben lontano dall’essere moralmente al di sopra di ogni sospetto ma poi, proprio sulla morale, attacca tutti quanti. Abbandona cinque figli all’assistenza pubblica, ma poi scrive le seicento pagine dell’Emilio per spiegare agli altri come devono educare i loro. Tutta la sua vita si trova sotto il segno della contraddizione: è un uomo che pensa una cosa e ne fa un’altra, spesso opposta.
Jean-Jacques Rousseau è però un problema meno grave del rousseauismo, un regime intellettuale all’ombra del quale parecchie persone ancora vivono e che, negli ultimi due secoli, ha prodotto milioni di morti. Tutto per creare un uomo nuovo, post-cristiano in maniera forsennata. Si tratta di rigenerare il genere umano. Rousseau fornisce gli elementi più tossici per questo esperimento di nuova civiltà. Quali sono questi ingredienti?
Notiamo anzitutto come formula il proprio sbalorditivo metodo: «Cominciamo dunque dall’escludere tutti i dati di fatto». È una frase che si trova proprio all’inizio del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza ed è un invito che segna l’entrata della filosofia moderna nel puro ambito della speculazione e dell’ideologia: se i dati di fatto sono da escludere, su cosa si può lavorare? Solo su ipotesi, su congetture, su assiomi, su postulati… Tutti questi presupposti si trasformano rapidamente in verità grazie al potere performante del filosofo. Poco importa ciò che è, conta solo ciò che deve essere secondo Rousseau.
Già si vede nella ipotesi del buon selvaggio, quando afferma che allo stato di natura, l’uomo è buono. Ma se nascono naturalmente buoni, come fanno gli uomini a diventare poi cattivi? La verità è che poi non siano così buoni come sembra.
In questo sedicente stato di natura, la disuguaglianza, afferma perentoriamente Rousseau, non esiste: gli uomini nascono di fatto liberi e uguali. La disuguaglianza arriva dopo con la proprietà: «Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile». Bella l’immagine, peccato sia falsa. Quindi, da una parte c’è un forte e, dall’altra ci sono molti sempliciotti! Basterebbe questo per provare l’esistenza delle disuguaglianza ancor prima dell’avvento della proprietà e mostrare che questa disuguaglianza naturale si trova al centro stesso della inclinazione etologica a diventare padroni, e quindi a produrre schiavi.
Rousseau continua a voler trasformare la storia in una finzione e sostiene che i deboli si sarebbero dovuti opporre al gesto di chi ha piantato i suoi pali, cioè i forti, e dire a chi, più debole ancora, è rimaso a guardare: «siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!». Volendo provare l’uguaglianza naturale, Rousseau seguita in realtà a mostrare la disuguaglianza presente dappertutto in natura prima della cultura. In cima, c’è il forte che crea, decide, vuole e fa la legge – il guerriero; alla base, ci sono i deboli che lasciano fare e non dicono nulla – il popolo; in mezzo ai due, fra i deboli e contro i forti, c’è chi dovrebbe stimolare i primi e combattere i secondi – il filosofo.
In primo luogo, dopo aver eliminato i dati di fatto, nei due Discorsi, Rousseau prende atto di come vanno, secondo lui, le cose, e cioè di come allo stato di natura gli uomini siano buoni, liberi, uguali e felici; in secondo luogo, descrive l’avvento dello stato di cultura in cui questi uomini diventano cattivi, schiavi, disuguali e infelici a causa della proprietà; in ultimo, propone di ritrovare, grazie alla cultura, ciò che essa stessa ha distrutto: la felicità e l’uguaglianza. L’artificio con cui la politica sarebbe in grado di restaurare l’età dell’oro prende il nome di contratto sociale.
Con il contratto sociale Rousseau crea la matrice di ciò che diventerà il totalitarismo. Il contratto sociale consente, per legge, di ritrovare la libertà dello stato di natura. La volontà generale non corrisponde semplicemente alla somma delle singole volontà (questa sarebbe piuttosto la volontà di tutti), ma all’espressione di queste singole volontà nella misura in cui puntano e aspirano all’interesse generale rappresentato dalla legge, che ne palesa, appunto, la sovranità. La libertà non è il potere di fare ciò che si vuole (questa sarebbe piuttosto la licenza), ma l’obbligo di fare ciò cui obbligano le leggi decise dalla maggioranza, perché «la decisione della maggioranza obbliga sempre gli altri». Chiunque volesse qualcosa di diverso rispetto a quello che vuole la maggioranza si trova immediatamente collocato in una zona di esclusione della comunità. Scrive Rousseau: «Tutti ugualmente hanno bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni a conformare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altro a conoscere ciò che vuole». Volere liberamente significa non sapere quello che si vuole. Un educatore, o meglio, un rieducatore, insegnerà a chi ha voluto in maniera scorretta come si fa a volere in maniera corretta.
Il contratto presuppone «l’alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità» e realizza in questo modo la repubblica in senso etimologico: la cosa pubblica. Rousseau aggiunge che «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò che non significa altro, se non che lo si costringerà a essere libero». Costringere a essere libero, forzare a essere libero? Rousseau precisa meglio: chiunque storca il naso di fronte a queste costrizioni mette a repentaglio lo Stato; a quel punto, uno dei due deve sparire: o lo Stato, o il ribelle. Dato che lo Stato non può crollare senza recare danni terribili a tutti, a morire dovrà essere il ribelle. Chiunque rifiuta la libertà che consiste nell’«obbedienza alla legge, che noi stessi ci siamo prescritta», si condanna a morte. Di questo si ricorderanno i giacobini.
Il rousseauismo è quindi una strana ideologia: elimina i dati di fatto e preferisce le ipotesi; afferma che gli uomini sono uguali nello stato di natura, anche se troviamo degli uomini più forti che sottomettono degli uomini più deboli; ritiene che gli uomini siano naturalmente buoni, anche se alcuni di loro ne schiavizzano altri; assicura che la società rende l’uomo cattivo, che basta cambiarla per renderlo buono e trasforma il contratto sociale nel dispositivo creatore di sovranità; sostiene che, per essere liberi, occorra smettere di volere liberamente e pretende che, per essere se stessi, occorra volere ciò che vuole la comunità; confonde la volontà generale con l’espressione della maggioranza e obbliga la minoranza a sottomettersi ai più; destina infine a morte chiunque non condivida la legge che esprime il volere dei più.
In realtà le cose stanno proprio all’opposto: ci sono solo fatti e le ipotesi si rivelano buone solo per imbastire falsità; gli uomini non sono uguali e buoni in uno stato di natura che si distingue dallo stato di cultura per l’instaurarsi della proprietà; la malvagità non è cosa che riguarda la società fuori dall’uomo ma un automatismo antropologico ed etologico insito nell’uomo; il contratto sociale è una finzione della filosofia politica perché gli uomini non sono capaci di volere ciò che è bene per la società quando è male per se stessi; la libertà non è obbedire alla maggioranza ma disporre della propria autonomia; costringere o addirittura mandare a morte le minoranze non potrà mai costituire un vero programma di libertà.
Il terribile paralogismo di Rousseau consiste nel credere che l’uomo può volere contro i propri interessi, il che è la negazione di tutto quello che l’antropologia, e con essa la tradizione dei moralisti francesi, ci insegna da sempre. L’incapacità degli uomini di rispettare la volontà generale fa crollare il dispositivo rousseauiano: gli uomini sono solo capaci di arrivare alla volontà di tutti, in altre parole alla somma degli interessi particolari, cosa che non può mai definire una volontà generale.
L’ideologia dell’uomo che potrebbe essere reso di nuovo buono presuppone la reazione di un uomo nuovo che proviene da una figura dell’antichità: lo spartano. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, breviario dei totalitarismi ancor più del Contratto sociale, il filosofo ne tratteggia il ritratto. In positivo: adora la disciplina militare; vive con poco; si mostra disinteressato; ha la mentalità del conquistatore; dà prova di vero coraggio; vive e si sacrifica totalmente per la patria; è semplice e poco raffinato; è capace di lavorare con le proprie mani; è innocente e manifesta buon senso. In negativo: detesta i soldi e il commercio; deride tutto ciò che gli pare effeminato; prova repulsione per il lusso; si fa beffe della cultura e dei lavori intellettuali; combatte la corruzione dei costumi; cancella con un semplice colpo do mano la filosofia e la metafisica; disprezza lo scrittore ozioso e l’oscuro letterato.
Quest’uomo sarà la società a costruirlo attraverso l’opera dell’educatore che «mette delle verità nella sua testa». Secondo l’Emilio, l’uomo nuovo dovrà essere educato con severità fino all’età di venticinque anni senza mai essere abbandonato dal precettore che lo guiderà in tutto e per tutto. Il discepolo ubbidirà unicamente al suo maestro, il quale gli insegnerà: a soffrire, a sopportare cose ripugnanti, a obbedire senza riflettere, a rassegnarsi, a volere quello che vogliono che lui voglia, a dormire poco, a reprimere l’attività di tutti i suoi sensi, a considerare la sessualità come qualcosa di vergognoso, a non vedere la forza e l’astuzia, le simulazioni e le menzogne usate nei suoi confronti, a essere docile, a non leggere, a non imparare lingue straniere, a non occuparsi mai di storia, a non rimanere mai da solo, persino nella propria stanza dove dorme assieme al proprio maestro, a odiare l’ozio, a disprezzare la sedentarietà, a non volere diventare uno scrittore, a esercitare un mestiere manuale, a esaurire le proprie energie comprese quelle sessuali nello sforzo fisico, a scegliere la donna che il suo precettore gli avrà indicato, ad avere un tutore una volta raggiunta l’età in cui il maestro l’abbandona, e così via fino alla fine della vita. E lo Stato si disinteresserà dei deformi e delle vite inutili, proprio come a Sparta.
La stessa cosa vale per Sophie, sua moglie. Sophie non è bella ma ha fascino; è una donna semplice, sa cucire, cucinare, fare le pulizie ed è ordinata e meticolosa; è allegra, modesta e riservata e pratica la religione e la virtù; è casta, onesta, piacente e ha talento. Rousseau considera la donna inferiore all’uomo, quasi una bambina cresciuta e futile: l’uomo è attivo mentre la donna è passiva; rispetto all’infedeltà di quest’ultima, quella dell’uomo è meno grave; la donna può scegliere se fare figli o diventare cortigiana; non ha bisogno di imparare molto oltre a quello che le è necessario nome sposa e come madre; deve essere educata a compiacere gli uomini e a dimostrarsi amabile nei loro confronti; dipende sempre da qualcuno e ha paura della libertà; deve imparare a sopportare l’ingiustizia; è incapace di creare, di pensare o di praticare la filosofia e deve accettare la religione del marito. Questa donna che Rousseau vorrebbe senza educazione in modo da poter mettere al mondo figli sani, rallegra la casa del marito e assicura il riposo del guerriero, incarna l’ideale femminile dei regimi totalitari nei secoli a seguire. Sono le famose tre K del regime nazista: Kinder, Küche, Kirche, figli, cucina, chiesa.
Una parte della Rivoluzione francese, la parte che ha voluto costringere i cittadini a essere liberi, ha cercato di realizzare questo programma spartano. Fouché con le sue cannonate, Robespierre con il suo Comitato di salute pubblica, Saint-Just con la sua ghigliottina, Fouquier-Tinville con il suo Tribunale rivoluzionario, Carrier con i suoi annegamenti di Nantes, Turreau con le sue colonne infernali in Vandea…. Tutti costoro hanno legato i propri nomi a quel primo tentativo di creare un uomo nuovo. Tutti costoro hanno cercato di creare un cittadino ubbidiente, sottomesso, impaurito, timoroso e crudele, battezzandolo con il sangue del re e della regina, cullandolo con l’omicidio del loro figlio di dieci anni e zavorrandolo con le decine di migliaia di teste di aristocratici e di preti, di refrattari e di vandeani.
È giunta l’ora dell’uomo rigenerato, quindi si suppone che esistano degli uomini degenerati.
Questo è Jean-Jacques Rousseau.
Tratto da «DECADENZA» di Michel Onfray

