di Henry Bergson.
Uno dei risultati più chiari della biologia è stato quello di mostrare che l’evoluzione si è realizzata secondo linee divergenti. All’estremità di due di queste linee, le due principali, troviamo l’intelligenza e l’istinto nella loro forma più pura. Perché allora l’istinto si dovrebbe risolvere nelle forme dell’intelligenza? Perché in termini comunque intelligibili? Non ci accorgiamo che pensare, qui, a qualcosa di intelligente, o di assolutamente intelligibile, significa tornare alla teoria aristotelica della natura? Senza dubbio, sarebbe comunque meglio tornarvi piuttosto che fermarsi davanti all’istinto come se fosse un mistero insondabile. Ma, pur non essendo nell’ambito dell’intelligenza, l’istinto non è situato fuori dei confini della mente. In certi fenomeni di sentimento, in certe simpatie e in certe antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, in forma più o meno vaga, e anche troppo impregnata di intelligenza, qualcosa di quello che deve succedere nella coscienza di un animale che agisce per istinto. L’evoluzione non ha fatto che allontanare l’uno dall’altro, per svilupparli fino in fondo, degli elementi che in origine si compenetravano.
Più precisamente, l’intelligenza è, prima di tutto, la facoltà di rapportare un punto dello spazio a un altro punto dello spazio, un oggetto materiale a un oggetto materiale; essa si applica a tutte le cose, ma restando fuori di esse, e non scorge mai di una causa profonda che la sua diffusione in effetti giustapposti. Balza agli occhi l’oscillare delle teorie scientifiche sull’istinto fra l’intelligente e il puramente intelligibile, cioè fra l’assimilazione dell’istinto a una intelligenza «decaduta» e la riduzione dell’istinto a un puro meccanismo. Cosa potremmo dire, se non che ci troviamo di fronte a due simbolismi per certi versi ugualmente accettabili e, per altri, ugualmente inadeguati al loro oggetto? La spiegazione concreta, non più scientifica ma metafisica, deve essere cercata per tutt’altra via, non più nella direzione dell’intelligenza, ma in quella della «simpatia».
L’istinto è simpatia. Se questa simpatia potesse estendere il suo oggetto e anche riflettere su se stessa, ci darebbe la chiave delle operazioni vitali, come l’intelligenza, sviluppata e corretta, ci introduce nella materia. Poiché, non lo si ripeterà mai abbastanza, l’intelligenza e l’istinto sono rivolti nei due sensi opposti, una verso la materia inerte, l’altro verso la vita. L’intelligenza, tramite la scienza che è opera sua, ci svelerà sempre più compiutamente il segreto delle operazioni fisiche; della vita non ci fornisce che una traduzione in termini di inerzia. Essa vi gira attorno e prende, dal di fuori, il maggior numero possibile di vedute su questo oggetto che attira a sé, invece di entrarvi dentro. È invece all’interno stesso della vita che ci condurrà l’intuizione, cioè l’istinto divenuto disinteressato, cosciente di se stesso, capace di riflettere sul suo oggetto e di estenderlo all’infinito.
L’intelligenza resta il nucleo luminoso attorno al quale l’istinto, anche se ampliato e purificato in intuizione, non forma che una vaga nuvolosità. Ma, in mancanza della conoscenza propriamente detta, riservata alla pura intelligenza, l’intuizione potrà farci cogliere quanto vi sia di insufficiente nei dati dell’intelligenza e lasciarci intravvedere il mezzo per ampliarli. L’intelligenza dovrà riconoscere che la vita non rientra completamente né nella categoria del molteplice, né in quella dell’uno, che né la causalità meccanica, né il finalismo, danno una traduzione sufficiente del processo vitale. Poi, attraverso la comunicazione simpatica che stabilirà tra noi e il resto dei viventi, attraverso la dilatazione che otterrà della nostra coscienza, essa ci introdurrà nel campo proprio della vita, che è compenetrazione reciproca, creazione continua indefinitamente. Ma se, con ciò, essa supera l’intelligenza, è dall’intelligenza che è venuta la scossa che l’ha fatta salire al punto in cui si trova. Senza l’intelligenza, sarebbe rimasta, sotto forma di istinto, inchiodata all’oggetto specifico che le interessa praticamente, ed esteriorizzata da esso in movimenti di locomozione.
Abbiamo detto che, in tutta l’estensione del regno animale, la coscienza appare come proporzionale alla capacità di scelta di cui dispone l’essere vivente. Essa illumina la zona di virtualità che circonda l’atto. Misura la distanza che c’è fra ciò che si fa e ciò che si potrebbe fare. A considerarla dal di fuori la si potrebbe prendere dunque per un semplice ausilio dell’azione, per una luce che l’azione accende, scintilla fuggevole che scocca dall’attrito dell’azione reale con le azioni possibili. Ma bisogna osservare che le cose potrebbero andare esattamente allo stesso modo se la coscienza, invece di essere effetto, fosse causa. Si potrebbe supporre che, anche presso l’animale più semplice, la coscienza copra, di diritto, un campo enorme, ma che sia compressa, di fatto, in una specie di morsa: ogni progresso dei centri nervosi, offrendo all’organismo la scelta fra un maggior numero di azioni, lancerebbe un appello alle virtualità che circondano il reale, allentando così la morsa, e lasciando passare più liberamente la coscienza. In questa seconda ipotesi, come nella prima, la coscienza sarebbe effettivamente lo strumento dell’azione; ma sarebbe ancora più giusto dire che l’azione è lo strumento della coscienza, poiché il riferirsi e l’applicarsi dell’azione a se stessa sarebbero, per la coscienza imprigionata, il solo mezzo possibile per liberarsi. Come scegliere fra le due ipotesi?
Se la prima fosse vera, la coscienza riprodurrebbe esattamente in ogni momento lo stato del cervello; il parallelismo (nella maniera in cui è intelligibile) fra lo stato psicologico e lo stato cerebrale sarebbe rigoroso. Al contrario, nella seconda ipotesi, sarebbe sì solidarietà e interdipendenza fra cervello e coscienza, ma non parallelismo; più il cervello si complicherà, aumentando così il numero delle azioni possibili fra le quali l’organismo ha la scelta, più la coscienza dovrà superare il suo concomitante fisico.
L’evoluzione della vita, considerata sotto questo aspetto, acquista un significato più chiaro, anche se non possiamo ancora sussumerla sotto una vera e propria idea. Tutto avviene come se nella materia fosse penetrata un’ampia corrente di coscienza carica, come ogni coscienza, di una molteplicità enorme di virtualità che si compenetrano. Essa ha trascinato la materia all’organizzazione, ma il suo movimento ne è stato al tempo stesso rallentato e infinitamente diviso. Da una parte, infatti, la coscienza ha dovuto assopirsi, come la crisalide nel bozzolo in cui prepara le ali, e, d’altra parte, le molteplici tendenze che essa racchiudeva si sono suddivise in serie divergenti di organismi che, del resto, esteriorizzavano queste tendenze in movimenti, più che interiorizzarle in rappresentazioni. Nel corso di questa evoluzione, mentre alcune tendenze si assopivano ancora più profondamente, altre si risvegliavano sempre di più, e il torpore degli uni favoriva l’attività degli altri. Ma il risveglio poteva verificarsi in due modi diversi. La vita, cioè la coscienza lanciata attraverso la materia, fissava la sua attenzione o sul suo stesso movimento, o sulla materia che attraversava. Essa si orientava così sia nel senso della intuizione, sia in quello dell’intelligenza. L’intuizione, a prima vista, sembra di gran lunga preferibile all’intelligenza, poiché la vita e la coscienza vi restano racchiuse dentro di sé. Ma lo spettacolo dell’evoluzione degli esseri viventi ci mostra che essa non poteva andare molto lontano. Dal lato dell’intuizione, la coscienza si è trovata a tal punto compressa dal suo involucro dal dover ridurre l’intuizione a istinto, cioè a non abbracciare che la piccolissima porzione di vita che l’interessava; per di più, abbracciandola nell’ombra, e toccandola senza quasi vederla. Da questo lato l’orizzonte si è subito chiuso. Al contrario, determinandosi in intelligenza, cioè contraendosi inizialmente sulla materia, la coscienza sembra esteriorizzarsi rispetto a se stessa; ma, proprio perché si adatta agli oggetti esterni, essa riesce a circolare in mezzo a essi, ad aggirare le barriere che essi le oppongono, ad allargare indefinitamente il proprio dominio. Del resto, una volta liberata, essa può ripiegarsi su se stessa, e risvegliare le virtualità di intuizione che ancora dormono in essa.
Da questo punto di vista, non solo la coscienza appare come il principio motore dell’intelligenza, ma anche l’uomo viene a occupare una posizione privilegiata fra gli stessi esseri coscienti. Fra gli animali e lui non vi è più una differenza di grado, ma di natura.
Riassumendo, se volessimo esprimerci in termini finalistici, dovremmo dire che la coscienza, dopo essere stata obbligata, per liberare se stessa, a scindere l’organico in due parti complementari, vegetali da una parte e animali dall’altra, ha cercato una via d’uscita nella doppia direzione dell’istinto e dell’intelligenza: essa non l’ha trovata con l’istinto, e non l’ha ottenuta, dal lato dell’intelligenza, che con un brusco salto dall’animale all’uomo. Così, in ultima analisi, l’uomo sarebbe la ragion d’essere dell’intera organizzazione della vita sulla Terra. Ma questo non sarebbe che un modo di dire. In realtà c’è soltanto una certa corrente di esistenza e la corrente antagonista: di qui, tutta l’evoluzione della vita. Occorre approfondire l’esame dell’opposizione tra queste due correnti. Forse scopriremo così una loro fonte comune….
Tratto da Henri Bergson «L’EVOLUZIONE CREATRICE» 1907

