di Henri Bergson.
L’errore del finalismo radicale, come del resto quello del meccanicismo radicale, è di estendere troppo l’applicazione di certi concetti naturali alla nostra intelligenza.
All’origine noi non pensiamo che per agire. È nello stesso stampo dell’azione che è stata colata la nostra intelligenza. La speculazione è un lusso, mentre l’azione è una necessità. Ora, per agire, cominciamo con il proporci un fine; facciamo un piano, poi passiamo ai dettagli del meccanismo che lo realizzerà. Quest’ultima operazione è possibile soltanto se sappiamo su cosa possiamo contare. Dobbiamo aver estratto dalla natura delle similitudini che ci permettono di fare anticipazioni sul futuro. Dobbiamo, quindi, aver applicato, più o meno consapevolmente, la legge di causalità. D’altronde, quanto meglio si delinea nello spirito l’idea della causalità efficiente, tanto più la causalità efficiente prende la forma di una causalità meccanica. Quest’ultima relazione, a sua volta, è tanto più matematica quanto più esprime una rigorosa necessità. Per diventare dei matematici, quindi, non dobbiamo fare altro che seguire la tendenza naturale del nostro spirito. Ma, d’altra parte, questa matematica naturale è solo il sostegno inconsapevole della nostra abitudine cosciente a concatenare le stesse cause agli stessi effetti; e questa abitudine ha, a sua volta, come funzione ordinaria quella di guidare azioni ispirate da intenzioni o, che è lo stesso, di dirigere dei movimenti coordinati in vista dell’esecuzione di un modello: nasciamo artigiani come nasciamo geometri; anzi siamo geometri solo in quanto siamo artigiani. Così l’intelligenza umana, in quanto modellata secondo le esigenze dell’azione umana, è un’intelligenza che procede a un tempo per intenzione e per calcolo, coordinando dei mezzi a un fine e rappresentandosi meccanismi dalle forme sempre più geometriche. Sia che ci si figuri la natura come un’immensa macchina governata da leggi matematiche, sia che vi si veda la realizzazione di un piano, non si fa, in entrambi i casi, altro che seguire sino in fondo le due tendenze dello spirito che sono complementari l’una all’altra e che hanno origine nelle stesse necessità vitali.
Ecco perché il finalismo radicale è molto vicino al meccanicismo radicale nella maggior parte dei punti. A entrambe le dottrine ripugna di vedere, nel corso delle cose, o anche soltanto nello sviluppo della vita, un’imprevedibile creazione di forme. Il meccanicismo non tratta della realtà che l’aspetto della similitudine o della ripetizione. Dunque è governato dalla legge secondo cui nella natura non c’è che l’identico che riproduce l’identico. Tanto più emerge la geometria che contiene, tanto meno può ammettere che qualcosa si crei, anche se si tratta solo della forma. In quanto geometri, respingiamo l’imprevedibile. Sicuramente potremmo accettarlo in quanto artisti, poiché l’arte vive di creazione e implica una fede latente nella spontaneità della natura. Ma l’arte disinteressata è un lusso, come la speculazione pura. Prima di essere artisti, siamo artigiani. E ogni fabbricazione, per quanto rudimentale sia, vive di similitudini e ripetizioni, come la geometria naturale che le serve da base. Essa lavora su modelli che si propone di riprodurre. E quando inventa, procede o si immagina di procedere, attraverso una disposizione nuova di elementi noti. Il suo principio è che occorre l’identico per ottenere l’identico. In breve, l’applicazione rigorosa del principio di finalità, come quella del principio di causalità meccanica, conduce alla conclusione che tutto è dato. I due principi, nei loro diversi linguaggi, dicono la stessa cosa, poiché rispondono allo stesso bisogno.
Per questo, essi sono anche d’accordo nel fare tabula rasa del tempo. La durata reale è quella che morde le cose lasciandovi l’impronta dei suoi denti. Se tutto è nel tempo, tutto cambia internamente, e la stessa realtà concreta non si ripete mai. La ripetizione, dunque, è possibile solo in astratto: ciò che si ripete è questo o quell’aspetto che i sensi e soprattutto l’intelligenza hanno isolato dalla realtà, proprio perché la nostra azione, verso cui è teso lo sforzo della nostra intelligenza, non può muoversi che fra delle ripetizioni. Così, concentrata su ciò che si ripete, preoccupata unicamente di saldare l’identico all’identico, l’intelligenza si distoglie dalla visione del tempo. Respinge ciò che è fluido e solidifica tutto ciò che tocca. Noi non pensiamo il tempo reale. Ma lo viviamo, perché la vita oltrepassa l’intelligenza. Il sentimento che abbiamo della nostra evoluzione e dell’evoluzione di tutte le cose nella pura durata è qui presente, e disegna intorno alla rappresentazione intellettuale propriamente della una frangia imprecisa che va a perdersi nella notte. Meccanicismo e finalismo concordano nel tener conto soltanto del nucleo luminoso che brilla nel centro. Dimenticano che questo nucleo si è formato per condensazione a spese del resto; e che servirebbe servirsi di tutto, altrettanto e anche più del fluido che del condensato, per cogliere il movimento interno della vita.
A dire il vero, se la frangia esiste, anche se indistinta e vaga, per il filosofo deve avere maggiore importanza del nucleo luminoso che essa circonda. Perché è la sua presenza che ci permette di affermare che il nucleo è un nucleo, che l’intelligenza pura è un restringimento, per condensazione, di una potenza più vasta. E, proprio perché questa vaga intuizione non ci è di nessun aiuto per dirigere l’azione sulle cose, azione completamente localizzata alla superficie del reale, possiamo presumere che essa non si eserciti più soltanto in superficie, ma in profondità.
Non appena usciamo dagli schemi in cui il meccanicismo e il finalismo radicale costringono il pensiero, la realtà ci appare come un’esplosione continua di novità, ciascuna delle quali non fa in tempo a prodursi per fare il presente, che già viene respinta nel passato: è in quel preciso momento che cade sotto lo sguardo dell’intelligenza, i cui occhi sono sempre rivolti all’indietro. Tale è anche il caso della nostra vita interiore. Per ogni nostro atto possiamo trovare senza difficoltà degli antecedenti di cui esso sarebbe, in qualche modo, la risultante meccanica. E possiamo dire anche che ogni azione è il compimento di una intenzione. In questo senso il meccanicismo, come il finalismo, sono ovunque nell’evoluzione della nostra condotta. Ma, se l’azione interessa l’insieme della nostra persona ed è veramente nostra, essa non avrebbe potuto essere prevista, anche se i suoi antecedenti la spiegano una volta compiuta. E, per quanto realizzi un’intenzione, essa differisce, in quanto realtà presente e nuova, dall’intenzione stessa, che non poteva essere che un progetto di ricominciamento o di risistemazione del passato. In questo senso, dunque, meccanicismo e finalismo non sono altro che due visioni esterne della nostra condotta. Essi ne estraggono l’aspetto intellettuale. Ma la nostra condotta sfugge alla loro presa e si estende molto oltre. Questo non vuol dire, ancora una volta, che l’azione libera sia l’azione capricciosa, irragionevole. Agire per capriccio significa oscillare meccanicamente fra due o più partiti già formati e aderire alla fine a uno di essi: questo non significa aver maturato una situazione interiore e nemmeno essersi evoluti; ma vuol dire, per quanto paradossale questa affermazione possa apparire, aver piegato la volontà a imitare il meccanismo dell’intelligenza. Al contrario, una condotta veramente nostra è quella di una volontà che non cerca di contraffare l’intelligenza e che, restando se stessa, vale a dire evolvendo, conduce, attraverso una maturazione graduale, ad atti che l’intelligenza potrà scindere indefinitamente in elementi intellegibili, senza riuscirvi mai completamente: l’atto libero è incommensurabile all’idea, e la sua «razionalità» va definita attraverso questa stessa incommensurabilità, che permette di trovarvi tutta l’intelligibilità che si vorrà. Questo è il carattere della nostra evoluzione interna. E questo è, probabilmente, anche quello dell’evoluzione della vita.
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Tratto da Henri Bergson «L’EVOLUZIONE CREATRICE» 1907

