di Etienne Gilson.
La parola ‘principio’ si impiega in più sensi. Può significare cominciamento o causa. I due sensi hanno in comune la nozione di anteriorità, poiché si tratta in entrambi i casi di un rapporto di ordine; il cominciamento è anteriore per definizione a ciò che viene dopo, come la causa è ontologicamente anteriore all’effetto.
L’essere è innanzitutto principio nel primo dei due sensi. È cominciamento della conoscenza in quanto ogni conoscenza è in primo luogo conoscenza di un ente, cioè di qualcosa che ha l’essere. Il niente non può essere conosciuto, nulla può essere conoscibile a meno che non sia. Segno ne è che ogni questione sulla natura di un essere si formula domandando ciò che esso est, e che la risposta comincia abitualmente col dire che esso est tale o tal altra cosa della quale segue la definizione. L’intelletto non è più cosciente dell’essere che il corpo dell’aria che respira. Tuttavia il pensiero perisce in mancanza di essere da conoscere, come il vivente muore in mancanza dell’aria da respirare.
La nozione di cominciamento stessa si intende in due sensi, almeno secondo i generi di conoscenza ai quali si applica. Si può pensare alla condizione prima di possibilità di ogni conoscenza in quanto tale. Si tratta allora del principio primo della conoscenza propriamente detto. Ma si può pensare a una conoscenza che sia la prima di tutte, nel senso che tutte le altre la presuppongano e che perciò sia il punto di partenza richiesto per ottenerle. Si tratta allora del principio primo del sapere, o della scienza. La ricerca e la considerazione del principio inteso nel primo di questi due sensi è di competenza della metafisica. Trascendente ogni sapere particolare, essa porta sulla possibilità stessa della conoscenza come tale. La ricerca del principio inteso nel secondo senso è competenza dell’epistemologia. Si tratta allora di sapere, se così si può dire, quale strada prendere per conquistare la scienza di tutta o parte della realtà o, in altri termini, l’oggetto, o gli oggetti, la cui conoscenza condiziona per noi quella degli altri.
La scelta di uno di questi due sensi implica la natura della filosofia che segue. Lo si vede bene dall’esempio che ne dà Cartesio. L’io penso ci viene da lui presentato come il primo principio della filosofia. In effetti, tale primo giudizio di esistenza gli permette di porne in seguito altri due: Dio esiste, e: esiste fuori di me una materia che consiste di estensione dotata di movimento. Per mezzo di questo procedimento Cartesio annuncia l’età moderna in cui la scienza tende a rimpiazzare ovunque la metafisica. Per giustificare questa aggressione gli saranno sufficienti due decisioni. La prima sarà di tenere per vana ogni verità che riguardi l’essere in generale senza riferimento definito a qualche essere particolare. Coloro che, al seguito di Cartesio, prenderanno questa decisione, prepareranno senza saperlo il declino e l’eliminazione della metafisica come scienza distinta. Nel XVIII secolo in particolare, molti vorranno conservare il nome sopprimendo la cosa: Condillac scambierà la sua analisi delle operazioni della mente per una metafisica, a causa della generalità epistemologica del problema posto. La teoria della conoscenza si sostituirà così alla metafisica fino al giorno in cui, nella critica kantiana, la eliminerà completamente. Per inciso, nulla mostra meglio i limiti di questo criticismo. Prendendo la fisica di Newton come il tipo stesso della conoscenza scientifica, il criticismo definisce sul suo modello le condizioni a priori della possibilità di una conoscenza di quel genere. Poco importa da allora che ci sia o no una conoscenza metafisica distinta da quella della scienza; la posizione stessa del problema kantiano equivale a squalificarla. La seconda decisione conferma la prima; essa consiste nel confondere il generale e il formale, il metafisico e il logico. Preparata dall’errore di molti metafisici che avevano confuso l’essere in quanto essere, oggetto della metafisica, con la nozione astratta di essere comune, o essere generale, questa decisione ebbe per effetto di trasformare gli oggetti della riflessione metafisica in nozioni astratte e vuote di qualsiasi contenuto reale. Ridotta così a un formalismo sterile, la metafisica era votata alla morte per inedia. Cartesio e Bacone non fecero che constatare il suo decesso. Cartesio non ha d’altronde mai negato che le nozioni fondamentali ricevute dalla metafisica fossero vere; non ha mai preteso che il principio di contraddizione fosse falso; la sua sola obiezione riguardò la loro sterilità, nel senso che, non essendo esse stesse delle conoscenze reali, non permettevano di acquisirne altre. Egli aveva ragione nei confronti della falsa nozione di metafisica corrente ai suoi tempi. Se si vuole prendere nuovamente il via evitando il rischio di naufragare sullo stesso scoglio, è alla autentica nozione di conoscenza metafisica che dobbiamo innanzi tutto ritornare.
Il formalismo delle Scuole non è stato che una forma assai povera di idealismo, senza dubbio la più povera di tutte. Non si può superarne la tentazione che mantenendo presente al pensiero questa certezza immediata: l’uomo pensa l’essere prima di pensare che pensa. Quale che sia il suo valore proprio, il cogito di Cartesio non è in ogni caso che il frutto di una conoscenza riflessiva. Prima di essere un principio, è una conclusione. Il soggetto pensante, il suo pensiero e la realtà obiettiva dei suoi concetti sono presupposti dalla coscienza che acquista da loro essere. Cartesio stesso non ha difficoltà a riconoscerlo: per pensare, bisogna essere. Il fatto che stimi senza importanza questa sua stessa considerazione mostra semplicemente una volta di più che l’ordine da lui cercato non è più quello della metafisica. Ritrovare quest’ordine suppone innanzi tutto che si restituisca al primo principio tutta la densità ontologica, tutto il suo peso di realtà.
Così inteso, il primo principio ritrova il suo senso preciso di primo giudizio di esistenza, presupposto da tutti gli altri e implicato in ciascuno di essi. Come, secondo la tradizione idealista nata da Cartesio e conservata da Kant, l’io penso accompagna tutte le mie rappresentazioni, allo stesso modo, secondo la tradizione realista nata in Grecia, il giudizio l’essere è accompagna tutti gli altri miei giudizi; esso è implicitamente rinnovato per ciascuno di loro ed è ciò che conferisce a tali giudizi la loro attitudine a significare, al di là del concetto, la realtà che esso designa. Ciò resta vero anche dell’ente, in quanto questo ha l’essere, oggetto della metafisica, poiché in luogo di significare, come accade nel pensiero del logico, la nozione di essere comune, che non esiste, nella mente del metafisico significa che l’essere appartiene attualmente a ciascuno degli enti dati nell’esperienza o di cui si hanno delle ragioni per affermare che possano essere tra gli oggetti di una tale esperienza. Non c’è nessuno tra gli enti di cui l’essere non debba essere legittimamente affermato: in ciò consiste la generalità metafisica dell’ente in quanto tale.
Lo stesso rilievo si applicherà ai trascendentali. Il fatto che essi appartengano tutti all’essere nella sua relazione a un pensiero o a una volontà, non impedisce loro di partecipare essi stessi delle proprietà metafisiche dell’essere. L’essere resta tale quale è in sé, quando è ricevuto per modo di conoscenza da un soggetto di cui è l’oggetto proprio e che d’altronde è esso stesso un ente.I «valori» non sono che dei fantasmi dei trascendentali erranti nel vuoto dopo aver spezzato i loro legami con l’essere. Il vero, il bene e il bello sono dell’essere o non sono nulla.
Si parla quasi sempre di principi primi, al plurale. L’espressione è quasi contraddittoria, poiché se esiste un principio veramente primo, non può essercene che uno solo. Ed è in effetti così, poiché l’uno, il vero, il bene non sono principi se non quando si convertono con l’essere. Si porrà dunque come regola che ogni nozione convertibile con l’essere è una forma del principio primo e, per conseguenza necessaria, che nessun’altra nozione lo è.Questo non vuol dire che nessun’altra nozione non possa essere principio, poiché il ragionamento parte più spesso da nozioni particolari che all’occorrenza giocano il ruolo di principi, ma nessuno di questi principi è primo, salvo l’essere e i suoi trascendentali.
Abbiamo tentato di evidenziare i caratteri dominanti della nostra conoscenza del principio. Abbiamo insistito sulla necessità, che è il compito proprio del metafisico, di ritornare al principio per considerarlo sotto tutti i suoi aspetti e per abituarsi agli scambi continui che senza posa si fanno e disfanno tra l’essere e i suoi trascendentali. Questa considerazione puramente speculativa è la stessa metafisica. È d’altronde per questo che un tempo essa era a buon diritto chiamata «filosofia prima». Ma la metafisica, senza la quale non c’è vera filosofia, non esaurisce la filosofia. Questa, che è amore della sapienza, non si accontenta di una contemplazione dei principi. La sapienza è la conoscenza dell’universo alla luce del principio. Tale conoscenza non è opera della metafisica. Uno degli errori più frequenti commessi dai metafisici, cioè dai filosofi, è l’illusione di essere capaci, essendo specializzati nella considerazione dei principi, di dedurre da questi direttamente, come conseguenza, una conoscenza valida delle leggi della natura, o delle regole dell’azione morale, o di quelle che conviene mettere in pratica per produrre il bello artistico. Da qui il pullulare dei sistemi di morale i quali, come spesso si rileva, finiscono di fatto per opporsi sulla giustificazione teorica delle regole di condotta su cui i loro autori sono di fatto d’accordo. È questo il senso della formula apparentemente paradossale di Lucien Lévy-Bruhl: alla domanda: che si deve fare? Non c’è risposta. E ciò è così vero in quanto è certo che di fatto, in ogni momento della storia del mondo e della società, chiunque si sia posto la domanda l’ha a suo modo risolta. Non è possibile dedurre delle regole della morale dal principio primo della ragion pratica, poiché nessuno dubita che si debba seguire il bene ed evitare il male: la volontà è desiderio del bene per sua stessa essenza, ma sapere quale sia il bene e quale sia il male, questo il principio non lo dice. Non lo si può neanche dedurre analiticamente, perché l’azione morale porta sul particolare, di cui nessuna regola universale può prevedere le circostanze, che la virtù della prudenza, la sola capace di trovare risposte convenienti a questioni del genere, deve in fin dei conti risolvere con una sorta di divinazione, razionale certamente, ma assai differente nel suo processo dai procedimenti della ragione deduttiva. È lì che trionfa il buon consiglio, il quale trova posto in tutti gli ordini dell’azione, compresa la ricerca della verità scientifica. Generalmente parlando, c’è come una discontinuità tra l’ordine dell’universale astratto, al quale si applica il primo principio sotto tutte le sue forme, e quello del singolare concreto che è l’ambito degli oggetti reali della conoscenza e dell’azione. L’essere è uno, gli esseri sono molteplici; l’essere è necessario, gli esseri sono contingenti; l’essere è eterno, gli esseri periscono. Inutile insistere su una evidenza messa in luce una volta per tutte dal genio visionario del grande Parmenide. Ci sono due mondi, quello dell’essere, che non esiste, e quello degli esistenti, che non sono. Si rimprovera spesso a Parmenide di averli lasciati fianco a fianco, ma è forse su questo punto che si nota meglio il suo genio. Numerosi filosofi si sono smarriti sforzandosi di ridurre questa dualità.
Il punto di vista dell’essere è quello dell’identità e della necessità. Tutte le relazioni interne che vi si osservano sono analitiche per definizione. È dunque certo in anticipo che ogni tentativo di suggerire una formula della realtà che dia totale soddisfazione alle esigenze della ragione obbliga in anticipo a trascurare tutto ciò per cui l’esistente si distingue dall’essere. Se il reale concreto rifiuta di lasciarsi ignorare, la ragione negherà semplicemente la sua esistenza sfrondandolo sapientemente per non lasciarne sussistere che i caratteri che ha in comune con l’essere. Purtroppo procedendo si rende il reale inintelligibile, si arriva cioè al contrario del risultato che si voleva ottenere.
La fonte di questo errore commesso così frequentemente è l’oblio della verità, nondimeno già conosciuta da Aristotele, che la conoscenza ha altri principi oltre a quello di ragione ragionante. Anche le sensazioni sono principi. Ciò vuol dire che la conoscenza sensibile ci informa di fatti tra i quali alcuni sono dati irriducibili. La ragione può partire da questi per aumentare le sue conoscenze, ma è impossibile risalirne al di là. L’Io penso di Cartesio è un dato iniziale di questo genere. Ciò d’altronde succede in quanto l’esistenza reale dei corpi estesi non è meno certa di quella del nostro pensiero. Tali dati costituiscono punti di partenza assoluti nella ricerca di nozioni astratte che conferiscano al mondo la sua intelligibilità.
Il più generale di questi fatti è quello che designiamo con i diversi nomi di divenire, cambiamento o movimento. Per principio, l’essere dell’intelletto è immobile, in realtà l’essere dell’esperienza sensibile non lo è. In presenza di questo fatto l’intelletto non ha altre scelte che quella di rinunciare a comprendere il mondo dell’esperienza sensibile, oppure quella di darsi principi speciali, costruiti in qualche modo su misura, che gli permettano di interpretarlo. Forse sarebbe più giusto dire che l’intelletto non ha scelta; poiché esso non può non voler esercitare la sua funzione propria, che è di comprendere, deve necessariamente equipaggiarsi di principi senza i quali la conoscenza intelligente del reale gli sarebbe impossibile. Poco importa che si ritengano questi principi innati o come acquisiti o infine che se ne facciano delle forme a priori dell’intelletto, il risultato non cambia: si trasformano allora in principi dell’intelletto dei principi fisici della realtà.
Caso esemplare è quello del principio di causalità. L’illusione è così potente che anche i rappresentanti attuali del realismo greco, e particolarmente dell’empirismo aristotelico, danno per certo che esista un primo principio della ragione che si chiama «principio di causalità». Aristotele non ne ha detto nulla ed è almeno dubitabile che detta nozione si sia mai offerta alla sua mente. Questo cosiddetto principio della ragione non compare nemmeno nella dottrina dei grandi aristotelici del Medioevo: Avicenna, Averroè e Tommaso d’Aquino. La ragione di questo silenzio è semplice: la causalità non è un trascendentale, la sua nozione non è convertibile con quella di essere. In altri termini, mentre non si può concepire dell’essere che non sia né uno, né vero, né buono, né bello, si può concepire un essere che non sia né causa né effetto. Il Dio cristiano della teologia scolastica è precisamente un tale essere, poiché è incausato, come ente di per sé necessario, e anche se ha causato il mondo, nulla l’obbligava a farlo. Infatti tutti i teologi cristiani ammettevano, alcuni come verità dimostrabile, altri come verità di fede, che il mondo non fosse sempre esistito. La nozione di essere che sia puramente essere e tuttavia non sia causa non si presenta al pensiero come contraddittoria e impossibile. Il principio di causalità, se ce n’è uno, non è dunque un principio primo della ragione speculativa.
La storia della filosofia permette di verificare questa tesi in una maniera in qualche modo sperimentale. Perfettamente coerente con se stesso, poiché considerava le idee come innate, Cartesio ammetteva senza discussione l’esistenza e la validità del principio di causalità, secondo il quale «tutto ha una causa». Egli faceva anche di questo principio il punto di forza della sua prova dell’esistenza di Dio, concepito come sola causa possibile della realtà obiettiva dell’idea che noi abbiamo di Lui. Così facendo era convinto di seguire una tradizione, se non cercando Dio come causa della Sua idea in noi, almeno nell’elevarsi dalla causa all’effetto in virtù del principio di causalità. Si sa quale fu la conclusione della sua prova: esiste un Dio che è solo per sé, non nel senso che sia assolutamente senza causa, ma piuttosto nel senso che è, positivamente, come se fosse per se stesso la propria causa. Filosofi e teologi classici protestarono. Più fedeli alla loro tradizione, ricordarono che Dio è per sé, negativamente, come se non avesse assolutamente causa della propria esistenza, in qualunque senso possibile. Si mettevano così in una infelice posizione, poiché se volevano evitare la conclusione di Cartesio, dovevano rinunciare a fare uso del principio di causalità. È quanto Cartesio fa pertinentemente osservare. Se si argomenta nel nome del principio di causalità, non si ha il diritto di congedarlo al momento di concludere. O la causalità non è un principio della conoscenza o, se lo è, non si ha il diritto di porla come causa prima di un essere che sarebbe in se stesso senza causa, e poiché Dio è per sé, non può avere altra causa che se stesso. L’introduzione nella tarda scolastica di un principio di causalità, conosciuto come un principio della conoscenza e non più soltanto come un principio delle cose, crea una situazione inestricabile. Tali scolastici affermavano per principio che ogni essere ha una causa, salvo Dio.
L’errore non consisteva nell’affermare la validità dei giudizi di causalità in generale, ma di cercare la sua giustificazione in una regola a priori del pensiero, come se l’intelletto non potesse concepire nello stesso tempo la causa. In una formula spesso citata nel Medioevo, Avicenna aveva detto che le nozioni di essere, di cosa e di necessario sono le prime che si offrono all’intelletto; quella di causa non è nominata, e in effetti non è consultando se stesso che lo spirito scopre la causalità, è consultando i messaggi che, per mezzo dei suoi sensi, gli giungono dall’esterno.
La causalità è un fatto di esperienza sensibile immediata. Consiste in ciò: che dei corpi immobili, dopo essere entrati in contatto con dei corpi in movimento, si muovono a loro volta. Si dice allora che il movimento del primo corpo è causa del movimento del secondo. L’esperienza è tanto più comune che oltre allo spettacolo degli urti tra i corpi situati fuori di lui, l’uomo stesso muove continuamente gli oggetti che lavora o di cui si serve come utensili. Senza chiedersi come avvenga, che è tutt’altro problema, ognuno di noi è assolutamente certo che il movimento della sua mano causa quello degli oggetti che essa spinge, lancia o tira verso di sé. Alla domanda: perché si muovono? Ognuno risponderà che il movimento della mano ne è la causa. L’uomo non potrebbe vivere se non agisse come se credesse nell’esistenza, tra lui e le cose e tra le cose stesse, di quel genere di rapporti che chiamiamo di causalità.
E qui non ci sarebbe alcun problema, se i filosofi non avessero azzardato la spiegazione della natura di tale rapporto. Per spiegarlo non disponevano che dell’idea di essere e del principio di contraddizione, che sono le prime regole dell’intelletto; ora, per definizione, queste regole impongono a ogni oggetto del pensiero che esso sia immobile e necessario. Il rapporto di causalità dato nell’esperienza è essenzialmente un cambiamento; è per rendere il cambiamento intelligibile che lo si dota di una sorta di necessità e, in un certo senso, di immutabilità. In effetti, se nulla è senza causa tutto è necessario per la sua causa. Inoltre non può esserci nulla di più nell’effetto che nella causa poiché, se fosse diversamente, il surplus sarebbe senza causa. Si è così ridotti a ridurre il cambiamento all’identità. Il risultato dell’operazione è prevedibile. L’essere di Parmenide è la legge del pensiero; se si vuole farne la legge delle cose, le di deve perciò stesso sottomettere alla sua necessità.
La difficoltà è evidente. Il principio di causalità non si può ricondurre al principio di identità che sopprimendo quel cambiamento ha il compito di spiegare.
Anche qui la storia della filosofia offre una sorta di verifica sperimentale dei risultati della riflessione astratta. Più una filosofia è innamorata della intelligibilità analitica e formale – la sola pienamente soddisfacente per lo spirito – più si sforza di eliminare dalla natura ogni rapporto di causalità. Lo si vede, per esempio, in Malebranche, per il quale Dio solo è causa. Concentrando l’efficacia causale in un solo essere, che diventa così la Causa, Malebranche ne libera l’universo. Meno metafisico, ma buon psicologo, Hume si accontenta di osservare che noi non abbiamo alcuna nozione chiara di ciò che possa essere l’azione esercitata dalla causa su ciò che chiamiamo effetto. Gli occasionalisti lo avevano del resto già rivelato. La comunicazione delle sostanze è impossibile, almeno nel senso che essa è inconcepibile. La nozione di causa efficiente è di per sé confusa; la causa manca di realtà, come la sua nozione manca di intelligibilità.
Hume passa generalmente per uno scettico, perché ha messo in dubbio, dopo molti altri di cui si parla meno, il valore del principio di causalità. Ma si è scettici per aver messo in dubbio la necessità di un principio che non esiste? Questa è una delle peripezie più sorprendenti della lunga storia della filosofia occidentale. In quanto, pur avendone fatto tardivamente un principio primo della conoscenza intellettuale, la riflessione filosofica un giorno a rifiutargli ogni intelligibilità. Per parlare più brutalmente, il principio di causalità trascinava la negazione della stessa possibilità del rapporto di causalità. Infatti Hume stesso non ha mai messo in dubbio che ci fossero degli effetti e delle cause, egli ha semplicemente riconosciuto che il rapporto di causalità non corrispondeva ad alcuna idea chiara della mente, e ciò è tutt’altra cosa. Nel tentativo di salvare il cosiddetto principio, Kant è riuscito in un bel raddoppio, poiché la categoria della causalità è in lui, in realtà e per quanto ne dice, una conoscenza che sarebbe contemporaneamente a priori ed empiricamente data, in breve quel mostro che sarebbe un empirismo dell’intelletto puro.
Bisogna chiudere la lunga parentesi che nel Medioevo venne aperta dall’introduzione di un primo principio di causalità nell’empirismo aristotelico. Gli aristotelici constatarono semplicemente che ci sono quattro generi di cause, due interne: la materia e la forma (ciò di cui la cosa è fatta, ciò che essa è), e due esterne: il movimento da cui risulta e il fine in vista del quale essa è e opera. Ciò era per loro un fatto. Nel caso particolare del cambiamento pareva loro manifesto che ogni cambiamento è preceduto da un altro e da questo condizionato. In pratica, è molto importante sapere successivamente a quale fatto questo o quest’altro fatto appare. Questa possibilità di previsione facilita l’azione. La condizione esistenziale di un fatto, di un avvenimento e di un essere si chiama la sua causa. La formazione dell’associazione di idee di questo genere è un luogo comune dopo Hume. La sua critica della nozione di causa efficiente non avrebbe sorpreso alcun peripatetico fedele allo spirito del Filosofo. Non ha turbato che quelli che volevano trasformare questa conoscenza empirica in un principio primo della ragione speculativa. Questi si sono resi conto, grazie a Hume, che non abbiamo alcuna idea chiara e distinta della nozione di causa efficiente, né, come prima di lui aveva detto Malebranche, dell’efficacia causale in generale. Il loro pseudo principio di causalità cadde immediatamente: l’efficacia motrice o altro che sia non si lascia ricostruire nei termini della nozione prima di essere, neanche in virtù del principio di contraddizione. La nozione che ogni cambiamento ha una causa è una generalizzazione ottenuta per inferenza spontanea, come d’altronde ogni concetto. Ma non è necessario che ogni essere abbia una causa, poiché la nozione di causa non è un trascendentale.
Il buon uso del principio non consiste dunque nel dedurne analiticamente delle conoscenze reali. Nella misura in cui la metafisica del sec.XVII pretese di farlo, Kant ha avuto ragione contro di essa. Questo «dogmatismo» in effetti condannabile era diventato inevitabile quando la tarda scolastica aveva sostituito l’ente con l’essere. Essa rendeva perciò necessario un passaggio «ontologico» dall’essenza all’esistenza, quantunque questo passaggio fosse impossibile. In quanto ha il suo actus essendi, l’ens opera e muta.Non si tratta di dedurre questi mutamenti, ma piuttosto di osservarli.
Conosciamo i pericoli dell’osservazione macroscopica, e quella che costituisce l’intuizione sensibile è incerta al più alto grado. Gli errori di cui è responsabile non si contano, né la loro enormità. Tommaso d’Aquino non fa che tradurre un sentimento generale scrivendo: «che qualche cosa sia in moto, mettiamo il sole, è evidente»(Contra Gentiles). È stato sfortunato, in quanto il sole non si muove del movimento che gli occhi credono di vedere, ma si muove di un altro movimento che gli occhi non vedono. È che il giudizio si mescola alla testimonianza dei sensi e che, mancando di essersi prima criticato, la corrompe. Presa in sé e per così dire allo stato bruto, la testimonianza dei sensi è abbastanza sicura per garantire le certezze che la filosofia attende dal senso comune. Il ‘ciò che’ dei fenomeni le sfugge, ma il fatto che si producano fenomeni cade sotto il senso. Nessuno dubita del divenire del mondo. Poco importa che lo si chiami movimento, cambiamento o con qualsiasi altro nome, il fatto è che si dà. Le illusioni sensoriali non si possono negare, ma la loro stessa nozione non avrebbe senso se esse fossero la regola. In un campo di oggetti immobili, il minimo movimento sveglia e attira l’attenzione dell’animale come dell’uomo. Qui siamo in effetti in un altro ordine rispetto a quello della conoscenza scientifica. Non si tratta che della percezione sommaria di eventi ai quali ci sappiamo vitalmente interessati. La più piccola scossa di terremoto metterà in allarme l’attenzione dell’idealista più diffidente nei confronti della testimonianza dei sensi. Infine, principi astratti quali la nozione di inerzia in questo ambito non sono applicabili. Che i corpi siano inerti o no, essi cominciano a muoversi, si arrestano, ripartono, sia per loro conto, se sono viventi, sia sotto l’azione di altri. Ciò che accade nel corso di una partita di biliardo, anche osservando il più superficialmente possibile, è sufficiente per alimentare la riflessione del filosofo. La quale può proseguire in tutta sicurezza, poiché al livello elementare di osservazione in cui si colloca, anche coloro che contestano speculativamente i fatti in causa agiscono come se la loro realtà non fosse dubitabile. Patet autem sensu aliquid moveri, colui che dice o scrive il contrario si muove per negarlo.
Il senso comune non è in grado di stabilire o confermare i principi dell’intelletto, ma l’interpretazione dei dati dell’esperienza sensibile è di sua competenza. Si ha torto di non credere che a ciò che si vede e si tocca, ma si ha ragione a crederci. Questa esperienza si accompagna essa stessa a una prima interpretazione razionale, in verità sommaria, ma tanto più preziosa in quanto è più prossima ai suoi dati. Confondendo l’esperienza che ha dei propri movimenti con quella dei corpi che si muovono fuori di lui, l’uomo conosce spontaneamente delle forze agenti simili a lui. L’animismo antropomorfico, denunciato da critici con buone ragioni nel loro ordine, esprime nondimeno una realtà profonda e indubitabile. Come sempre, quando si tratta del senso comune, la riflessione metafisica non fa che tradurla in termini intelligibili. Una volta ancora essa ci conduce all’essere, non più a quello dell’intelletto ma, questa volta, a quello dell’esperienza sensibile, e ne esprime l’essenza dicendo che esso è dotato di potere di operare. Non viene fatta nessuna ipotesi sulla natura di questo operare né sulla sua esistenza; è sufficiente che l’essere sensibile sia considerato come l’origine di queste operazioni in qualche senso e a qualche titolo. Se si accorda che esso è, la riflessione filosofica non richiede altro per giustificarsi.
La sua prima affermazione è che, dallo stesso fondo di attualità ontologica in cui sono, gli esseri agiscono; essi fanno, o operano, e tutto avviene come se la loro attività operatrice non facesse che manifestare fuori di loro l’energia immanente in forza della quale essi sono esseri. Ma ciò non è abbastanza, poiché se lo giudichiamo in base alla nostra esperienza personale, che è quella di un essere naturale esattamente allo stesso titolo degli altri ma che noi conosciamo dall’interno, l’essere attivo e operante desidera operare. La sua operazione è il suo fine proprio, ciò in vista del quale esso è e a cui tende come il compimento della sua natura. Questo in quanto sostantivo astratto designante un potere di agire in generale richiama il verbo che significa l’atto corrispondente: la scienza non è pienamente se stessa che nell’atto di sapere, come l’essere non è reale che nell’atto di esistere. L’estensione di questa visione dell’uomo al resto della natura crea forse una illusione di prospettiva e sempre ci saranno critici che ne denunceranno l’ingenuo antropomorfismo. Bisogna tuttavia scegliere tra ammettere che l’uomo sia un caso unico nell’insieme della natura, o ritenere giustificabile l’estrapolazione delle conoscenze acquisite dall’osservazione dell’uomo insieme agli esseri naturali. Certamente, l’inferenza richiede delle correzioni. Essa non è neanche possibile che al livello delle generalità dove la natura dell’uomo e quella degli altri esseri sono comparabili, come in questo caso. Ogni esistente è, e opera; tutto avviene come se, a qualsiasi grado dell’essere, l’ente non raggiunga la pienezza della sua natura che nell’atto in cui si manifesta ciò che essa è.
Nulla di tutto ciò si può dedurre dalla nozione di essere in quanto essere. L’osservazione empirica può soltanto rilevare che certi enti sono, e ciò che sono. I dati che informano l’osservatore su questi fatti non sono completamente concettualizzabili, nel senso che l’intelletto non può formarsi dei concetti quidditativi astratti degli attiche pongono l’ente nell’essere. La conoscenza che noi abbiamo della loro esistenza attuale è un giudizio dell’intelletto che esprime l’incontro di un ente e di un altro ente nell’atto comune di un senziente e di un sentito. Le essenze stesse non sono l’oggetto di una intuizione intellettuale. La loro definizione nominale significa soltanto per noi la ragione intelligibile, sconosciuta da noi in se stessa, del soggetto le cui operazioni ci sono date nell’esperienza sensibile. La conoscenza reale di un essere direbbe ciò che esso deve essere per possedere le proprietà che ha e compiere le operazioni che compie.
La metafisica prende dunque una falsa strada ogni volta che intraprende la descrizione degli esseri a partire da quello che essa sa dell’essere. La natura del primo principio sotto tutte le sue forme è dunque quella di una regola universale della conoscenza, da cui nessun sapere particolare può essere dedotto, ma a cui ogni conoscenza reale deve conformarsi. Il suo buon uso segue dalla sua natura. Consiste nell’esercitare una critica costante sulle operazioni dell’uomo nei suoi tre ordini principali: scienza, morale e arte. Se nulla si può dedurre dal primo principio, nulla si può sottrarre alla sua autorità. Esso controlla tutto, in modo che, non prescrivendo mai alcuna operazione particolare, impedisce di smarrirsi al seguito di oggetti irreali, come accade particolarmente quando, soccombendo in una qualunque forma alla tentazione dell’idealismo, l’intelletto pretende di trarre da se stesso, oltre al contenuto della conoscenza, anche la regola delle sue operazioni e delle sue produzioni.
La scienza è pienamente se stessa quando dice ciò che è, per quanto l’osservazione permette di conoscerla in ogni momento della sua storia, e l’intelletto permette di esprimerla sotto forma di leggi. Anche le sue anticipazioni più ardite non acquistano natura e valore di conoscenza acquisita se non in quanto siano suscettibili di essere empiricamente verificate. Tutto il sapere scientifico è dunque verificabile, salvo, naturalmente, i suoi principi. La funzione critica propria della metafisica, quella il cui esercizio ne fa una sapienza, consiste essenzialmente nel non lasciare che i principi della scienza si innalzino al livello dei primi principi.
La tendenza costante della scienza a universalizzare i suoi principi è ciò che si chiama «scientismo». L’operazione consiste nell’erigere i principi del metodo scientifico a principi della realtà. La storia della filosofia offre illustri esempi. In quanto Cartesio ha universalizzato il metodo matematico a tutto il conoscibile, tenta di sostituirlo allo stesso metodo metafisico. In quanto considera la fisica di Newton come modello della conoscenza razionale perfetta, Kant riduce la metafisica a illusione trascendentale e la morale a credenza. La generalizzazione più spinta è senza dubbio quella che consiste, in quanto la legalità scientifica implica la prevedibilità che, a sua volta, implica il determinismo, nel negare il libero arbitrio nell’uomo. Ma ciò vuol dire, come è stato ricordato con ragione, negare, in nome dei principi della scienza, in se stessa così rispettosa dei fatti osservati, la realtà di un fatto verificato da una quantità praticamente illimitata di osservazioni. Sostituendo uno pseudo-principio della conoscenza ai principi empirici della realtà, si rifiuta semplicemente alla realtà il diritto di esistere. La scienza non ci guadagna assolutamente nulla; l’uomo ci perde soltanto la metafisica e la morale; la metafisica esercita la sua funzione sapienziale riguardo alla scienza e alla conoscenza in generale, ogni volta che confronta con i primi principi le teorie scientifiche più generali, quelle che non mancano mai di nascere alle frontiere tra la giustificazione scientifica e la filosofia.
La scienza e la sua verità certamente sono opera dello spirito, ma non la natura; il pensiero che conosce non ha altra funzione da svolgere che quella di scoprire la realtà tale quale essa è. È un compito assai bello, lungo e difficile, che dispensa le gioie più pure e più intense a coloro che vi si dedicano rispettando i confini che separano la scienza dalle altre attività maggiori dello spirito.
Anche la morale è opera della ragione, ma della ragione nel suo uso pratico. L’uomo che conosce, a proposito di ogni cosa si domanda: che cosa è? In quanto agisce, l’uomo si domanda: cosa devo fare? Cioè: quale atto devo compiere se voglio che sia buono? L’atto come buono è per se stesso il suo proprio fine. Se non è che un mezzo in vista di un fine ulteriore, la sua giustificazione morale è di essere il mezzo che deve essere in vista di raggiungere quel fine. È buono in sé perché la sua perfezione è quella di essere il mezzo adeguato al fine per cui è utile.
Come la ragione, nella sua funzione speculativa, dipende da un primo principio, così ne ha uno nella sua funzione pratica, ma ancora una volta si nota chiaramente che, regola dell’azione, questo principio non permette di per sé di determinare alcuna massima particolare di condotta. Conosciamo la sua formula: bisogna volere il bene e fuggire il male. Ma questo non è un imperativo, è la constatazione di un fatto. Appartiene all’essenza della volontà di volere ciò che è buono e di fuggire ciò che è cattivo. Per natura, la volontà è volontà del bene, poiché il bene è ciò che la volontà desidera. Soltanto, come dal fatto di sapere che l’essere è e che è necessario, non apprendiamo che esso sia, così il fatto di sapere che la volontà vuole il bene non ci dice che cosa sia buono e degno di essere voluto.
C’è dunque una invenzione morale. La ragione pratica ha la funzione di immaginare ciò che conviene fare perché l’uomo possa volere e ottenere tutto il bene possibile, sia a titolo personale, sia come membro del corpo sociale all’interno del quale soltanto è possibile la sua perfezione personale. Questa perfezione consiste nel pieno sviluppo delle possibilità della sua natura come essere vivente dotato di ragione. C’è una storia dell’invenzione morale così come ce n’è una dell’invenzione scientifica. In entrambi i casi l’operatrice è la ragione, ma nella morale essa esercita una funzione essenzialmente esplorativa. Lavorando su una realtà data, come la scienza, il moralista si domanda, partendo da ciò che è, che cosa la realtà debba diventare per realizzare pienamente l’essenza dell’essere umano che la trasforma. Le grandi tappe di questa storia, almeno nella civiltà occidentale, si evidenziano facilmente: l’uomo si è lentamente distinto dal bruto, ha preso coscienza della sua natura essenzialmente «politica» e della trascendenza del bene comune, che è quello del gruppo, sul suo bene particolare; in seguito ha imparato a discernere, all’interno del bene comune, la zona riservata in cui la persona a sua volta trascende il bene comune del gruppo e si pone come fine ultimo della sua attività propria. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che tanto costituisce i simboli della fede morale degli uomini, all’epoca in cui è stata promulgata ha segnato ormai visibilmente il cammino percorso dall’uomo in cerca del bene morale. Non è vero affermare che alla questione: Cosa si deve fare? Non ci sia risposta, ma è proprio vero, come la parola lascia intendere, che la risposta debba essere cercata nella conoscenza preliminare di ciò che l’uomo è e fa. I costumi sono dati da ogni società particolare, ognuno sa dunque cosa deve fare, ma il moralista si domanda inoltre se i fini dell’azione non possano essere raggiunti più facilmente, con più sicurezza e più completamente grazie a calcolate modificazioni? La risposta alle questioni di questo tipo non si trova al termine di qualche deduzione astratta a partire dalla nozione di bene in generale. La virtù della prudenza ha la funzione di determinare ogni volta ciò che è bene fare perché l’azione particolare dell’uomo sia conforme alla sua natura e, se possibile, lo avvicini alla perfezione della sua essenza. Non è dunque né sufficiente né necessario che la massima dell’azione sia universalizzabile. Essa lo è perfino raramente e molti mali sono dovuti all’invadenza di quelli che, più zelanti che prudenti, vogliono universalizzare una regola di azione buona per certe circostanze particolari. L’invenzione morale non è quella della realtà, ma si sviluppa all’interno della realtà, Il werde was du bist ne esprime bene la natura e l’oggetto sul piano della morale personale; su quelli della morale sociale e politica, la stessa regola ingiunge all’uomo di fare tutto il possibile per aiutare gli altri uomini, per mezzo di istituzioni appropriate, a diventare sempre più completamente ciò che sono.
L’uomo conosce e vuole conoscere le cose quali sono. Egli agisce, e il fine dei suoi atti è la sua propria perfezione. Ma inoltre egli produce, e la perfezione delle sue opere è il fine di ciò che l’uomo chiama la sua attività creatrice. Questo si può esercitare in vista dell’utile, che è un fine secondario in rapporto all’uomo, o in vista del bello, che è un fine assoluto, essendo un trascendentale convertibile con l’essere. Tutto l’ordine della fattività dipende dunque da principi che gli sono propri, e quello della fattività del bello, o calopoietico, dipende dal principio assolutamente primo. Il bello è l’essere come bene proprio dell’apprensione sensibile in un essere intelligente.
Il buon uso del principio consiste, in ogni ordine, nel misurare l’operazione alla regola dell’essere. Volerlo conoscere tale qual’è, è semplicemente volerlo conoscere, e non c’è altra regola della conoscenza, o, che è lo stesso, della verità. Volere il bene è volere che l’uomo agisca secondo la perfezione della natura umana, che non è che l’essere umano, sia per manifestarla sia per conquistarla. Volere il bello è voler produrre degli oggetti la cui apprensione piaccia da se stessa e per se stessa, perché il fine di un dipinto è di essere visto, quello della musica è di essere ascoltata e quello della poesia di essere letta o intesa. I cattivi usi del principio sono innumerevoli. Il più frequente è, poiché nessuna operazione propriamente umana è possibile senza di esso, che le controlli tutte in quanto tutte suppongono la conoscenza, volendone fare altrettante modalità della speculazione. Da qui i problemi insolubili contro i quali urta la riflessione filosofica sui fondamenti ultimi dei giudizi morali e dei giudizi estetici. Se ne vogliono fare dei giudizi universali e necessari come quelli della ragione teorica; ora questo è impossibile, poiché questi ultimi sono posteriori ai loro oggetti, che presuppongono e che regolano, mentre quelli della morale e dell’arte precedono i loro oggetti. Certamente, anche questi comportano un elemento obiettivo, e questo elemento è di grande importanza. La ragion pratica misura la bontà degli atti ai rapporti che essi intrattengono con l’essenza dell’uomo; la ragione operatrice misura quella dei suoi ai loro rapporti con le opere che si propone di produrre e alle loro condizioni di possibilità. Nulla si fa senza sapere, cioè senza scienza, ma la scienza stessa non fa null’altro che conoscere e chiarire la strada per i discepoli dell’azione.
Tratto da «COSTANTI FILOSOFICHE DELL’ESSERE»
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