Due epoche in conflitto

di Pietro Redondi.

Galileo eretico? Nuovi documenti aiutano a riconfigurare la vicenda facendo emergere motivazioni tenute diplomaticamente nascoste dagli attori di quei fatti complessi. L’eresia di Galileo non si trovava nel mezzo di una scena di dramma sulla quale si opponevano, l’una di fronte all’altra, due verità: la verità copernicana affermata da Galileo con una fede che sembrava rasentare il dogmatismo scientifico da una parte e dall’altra la verità scritturale affermata dalla Chiesa con una fede che sembrava rasentare il fanatismo irrazionale.

In realtà il problema dell’eresia di Galileo era un intreccio di due inquietudini: l’inquietudine reticente delle svolte della fisica di Galileo e l’inquietudine della speculazione teologica controversistica e polemica del tempo inserite nel contesto politico della Guerra dei Trent’anni.

Il dramma galileiano è focalizzato sulla ribalta di quel teatro delle meraviglie che fu la Roma della prima fase del pontificato Barberini, quando Roma era giovane e aperta perché giovane e aperto era il nuovo papa, che la rinnovava sulle sue riscoperte fondamenta cristiane, e quando Galileo era al culmine della sua parabola di scienziato cattolico ufficiale. L’intreccio dei personaggi del dramma evidenzia un gioco di riflessi che scaturiscono da fonti discrete e da specchi invisibili, il cui scopo è di far apparire reali delle apparenze fittizie, rigorosa e irreprensibile l’opera dell’astuzia e del compromesso, rispondenza ai documenti ufficiali ciò che era calcolo di opportunità religiosa e politica.

Il primo aspetto da considerare era l’approccio alla comprensione della realtà al tempo di Galileo. Quella ragione era conforme alla chiarezza e all’ombra, un procedere manifesto e nascosto dato che è la natura che vuole che ‘nell’ordine dell’universo sia il giorno e la notte’.

In quella Roma gravitavano, nelle accademie e nelle biblioteche, dei «letterati», novatori moralisti e rumorosi, e dei «virtuosi» galileiani, appartati e austeri come nuovi asceti cristiani i cui risultati scientifici furono nulli per la storia della scienza, ma anche miracolosi quando, senza matematica né astronomia, quei cortigiani del nuovo papa giurarono sul libro della natura una nuova alleanza fra la letteratura, la filosofia galileiana, il potere e la fede.

Molti di loro erano mistici, devoti cristiani, più che dei cattolici contro-riformistici. Nell’apertura politica alla Francia guardavano al re Cristiano e alla nuova mistica della scuola teologica francese, al nuovo cardinale teologo del nuovo papato, Bèrulle, dimenticando il cardinale Bellarmino.

Erano cattolici copernicani e galileiani, come il papa che li proteggeva. La loro filosofia era quella del Saggiatore, il grande cavallo di Troia di una svolta culturale romana. Una filosofia cristiana che non poteva e non voleva essere una teologia speculativa come quella dei gesuiti. Essa non poteva e non voleva entrare nell’ambito della religione, perché questa andava oltre la ragione. Entro questi limiti, i puri termini naturali, i diritti della ragione erano salvi e andavano tutelati. E quelli della fede?

Fede tridentina, grande, appassionato risveglio della scolastica. La fede tridentina, essa, penetrava nell’ambito della ragione e della filosofia. Non ne aveva il diritto in astronomia, ma aveva il diritto e il dovere di farlo in fisica e in filosofia, perché un grande dogma tridentino imponeva di salvaguardare alla lettera le parole di Tommaso d’Aquino nelle quali era formulato. Lo spettacolare processo De Dominis era il grande monito rivelatore delle conseguenze di uno scandalo deviazionistico dalla linea tridentina in Curia. L’ostentazione fino al fanatismo di quel processo esorcizzava il sospetto di un simile scandalo.

La voce profonda della scolastica aveva il suo altoparlante nel Collegio romano, con l’ostentazione parossistica della sua fede tridentina: una università-chiesa, una abnegazione razionale totale e moderna, una fedeltà a Trento alla quale era esaltante finalizzare completamente la filosofia e la scienza, rinnovando la ricerca e la cultura di un secolo sulla base dei dogmi tridentini e della loro salvaguardia.

Se i galileiani, ai nostri occhi moderni, sono come un movimento d’opinione legato a un nuovo papa, i gesuiti sono il partito universale del papato, con il compito ingrato ed esposto a tutte le frustrazioni personali e ufficiali di una polizia teologica, spesso segreta, sempre militarmente inquadrata. Sono il partito della fedeltà a Trento e alla ragion di stato della Chiesa della Controriforma, che li stringe indissolubilmente alla fedeltà al re Cattolico, alla necessaria dedizione al blocco asburgico.

Galileiani romani e gesuiti del Collegio romano si sentono portatori di un rinnovamento, gli interpreti dei tempi nuovi, gli aristocratici cattolici del pensiero. C’era un grande afflato carismatico alla radice religiosa e intellettuale della loro volontà rinnovatrice, e pertanto gli uni e gli altri pretendevano di agire all’interno della Chiesa. Ma quella volontà era di segno opposto e lo scontro era inevitabile e si concretizzò attorno al successo romano del Saggiatore.

Delle possibilità erano fiorite, altre si spegnevano. Era come se le une e le altre fossero pesate sulla delicata bilancia del tempo, per accettare o respingere formule tradizionali.

Ma da secoli, e soprattutto nel sec.XVII, la Chiesa non affidava soltanto alla fede la propria sorte. Essa dipendeva dalla capacità di resistenza contro i suoi avversari esterni e da un governo che giocava con altri governi il gioco della politica e della guerra.

La politica e la guerra furono gettate, con il loro enorme peso, sui piatti di quella bilancia, spostandoli.

Una svolta di apertura politica e di successo militare cattolico aveva portato trionfalmente a Roma Galileo, per raccogliere il riconoscimento di «devoto figlio della Chiesa». Una svolta politica di irrigidimento conservatore lo ricondusse a Roma come colpevole compromettente.

Galileo, su ordine del Papa che aveva avocato a sé l’istruttoria segreta del famoso processo del 1633, venne ufficialmente condannato dal Sant’Uffizio perché sospettato di aver creduto alla dottrina copernicana, malgrado ai suoi ripetuti dinieghi formali di fronte all’autorità ecclesiastica (nel 1616 e nel Dialogo). Eresia inquisitoriale, ossia disciplinare, non teologica o dottrinale. In altre parole, con parole moderne ma esatte, Galileo fu ufficialmente condannato nel 1633 per alto tradimento.

Quella condanna ufficiale fu lo scioglimento del dramma, non il dramma. Il processo di Galileo fu un esorcismo liberatorio in funzione della gravissima crisi politica dell’anno precedente, così come fu esorcismo liberatorio in funzione di quella medesima minaccia, in quei medesimi giorni, la solenne messa papale dell’11 dicembre 1632, in Santa Maria dell’Anima (la chiesa del popolo germanico) in ringraziamento per la morte del re del Nord (Gustavo Adolfo), lo «spavento dell’universo», alla battaglia di Lutzen.

Anche il processo di Galileo fu orchestrato con il massimo sforzo propagandistico. Per ordine del papa la condanna per alto tradimento di Galileo fu inviata a tutte le nunziature. Fu resa nota a Vienna, a Madrid, a Praga, a Parigi e a Bruxelles. Fu un affare di stato, non un affare di coscienza. Fu il «proceder manifesto», troppo manifesto per non essere apparente. L’affare Galileo, sotto le apparenze di un affare di stato, era in realtà un grosso affare.

Al «proceder manifesto» della ragione politica corrispondeva inevitabilmente un «proceder nascosto» (ricordiamoci che siamo nel sec.XVII…). Assistiamo così al processo prima del processo, messa in scena da un teatro di ombre e di mimi muti: i segreti silenzi che circondarono la gravissima incriminazione. Essa fece precipitare la situazione o obbligò il papa a controllarla personalmente attraverso la speciale commissione istruttoria segreta, per far sfogare l’affare e i sospetti su una esemplare condanna per alto tradimento. Questo fu un processo voluto e diretto da un dittatore minacciato, sottoposto alla pressione dell’incalzare della più grave crisi del suo potere.

Anche se la condanna di Galileo fu fatta passare ufficialmente dal potere per alto tradimento – non fu né il primo né l’ultimo caso – non siamo disposti a restare impigliati nel gioco contraddittorio dei meccanismi di un apparato scenico ingannevole quale quello di un processo politico!

Galileo copernicano? Certo, almeno quanto bastava per la sua condanna ufficiale. Un «mostro» giudiziario… sì, ma nel significato che aveva la parola nel sec.XVII: un prodigio, anzi un «imperscrutabile oracolo», perché tale era una sentenza ufficiale del Sant’Uffizio.

Non restiamo abbagliati da quell’oracolo, con i nostri occhi moderni disabituati all’ombra! Impariamo dallo sguardo degli uomini del sec.XVII a dissociare le apparenze manifeste dalla realtà nascosta: l’apparenza di un velo di innocenza e di autorità gettato pietosamente sopra uno scandalo in Curia dalla realtà di una condanna.

Una punizione ufficiale, severa, anche se alleviata da privilegi eccezionali, ma una punizione indiretta, perché Galileo è stato proclamato dal papa, nel 1624, suo devoto figlio, e una colpa troppo grave del figlio, un sospetto, ricadrebbe troppo gravemente sulla responsabilità del padre.

Nel sec.XVII, con una complessità di calcolo politico e una fenomenologia psicologica che oggi ci sfuggono, la ragion di stato e la ragion di fede facevano costantemente ricorso a punizioni dissimulate, mascherate, per evitare scandalo e suscitare la consolazione del popolo di Dio. Quest’arte della dissimulazione, arte della prudenza, prima virtù politica e religiosa del potere, non lasciava prove, quasi mai.

Dall’altro lato di quella crudele messa in scena – la spettacolare abiura di Galileo – nasceva, nell’ombra del calcolo e dell’interesse, prezioso come un fiore notturno, il segreto.

Lungo la traccia di cose che si fanno ma non si dicono, di problemi che non si devono pronunciare perché basta parlarne per essere complice. Ai tempi di Galileo, il segreto ha un grande alleato: il sospetto. E insieme questi due sono una presenza universale che anima la vita e il pensiero di quegli uomini.

Un sospetto e un segreto fu la denuncia del Saggiatore, rimasta in sospeso e poi richiamata da una logica inevitabile. Era un sospetto che non si poteva evocare senza suscitare, ai tempi del processo De Dominis, l’immagine di tradimenti, torbidi, eresie.

Era l’eresia nominalista e atomista contro il dogma eucaristico. Essa era all’ordine del giorno al momento del Saggiatore e fu costantemente aggiornata per cinquant’anni come formidabile macchina da guerra e arma strategica di dissuasione nelle mani dei gesuiti contro l’architettura della nuova filosofia e della nuova fisica.

Orazio Grassi, che fu il suo moderno riscopritore e perfezionatore, era un grande architetto e l’autorità scientifica e morale del Collegio romano. Egli sapeva bene che il dogma eucaristico era la pietra di paragone fra eresia e ortodossia, perché lo avevano insegnato i grandi protagonisti della tradizione tridentina.

Il padre Grassi, alta personalità ufficiale della Compagnia di Gesù, portava anch’egli nel cuore il riflesso di quella grande volontà di impedire lo sbriciolarsi di nuovo della teologia cattolica, una nuova rovina della Chiesa.

Galileo eretico? L’accusa fu subito insabbiata; venne divulgata ufficialmente  e fu una forma di possibile pressione la minaccia di denunciarne lo scandalo quando il Dialogo ripropose ancora l’atomismo del Saggiatore.

Galileo, per quanto si può sapere ed è logico pensare, non si pronunciò mai sul problema eucaristico. Per principio, la fisica e la filosofia nuove non entravano nella sfera della fede. Era la fede, però, che non poteva evitare di entrare nella fisica e nella filosofia. Tradotti nel linguaggio atomista e nominalista di Galileo, i fenomeni sensibili dell’eucarestia non si conciliavano più con la transustanziazione eucaristica. Pertanto, in quanto inconciliabili con un dogma, erano dottrine false, ma anche pericolose, anche senza evocare direttamente il punto dottrinale in questione: «proposizione falsa, ripugnante alla fede cattolica in quanto inconciliabile con essa» aveva specificato in tal caso il De haeresi (1616), attendibile trattato di eresiologia criminale compilato sotto la direzione del cardinale Bellarmino.

Solo che adesso, in piena crisi politica del papato coinvolto suo malgrado nell’affare, non era certo possibile trascinare l’accusa di tolleranza compiacente fino a quel sospetto gravissimo di eresia. Non si poteva, per ragion di stato e di fede, evocare e colpire pubblicamente un così compromettente sospetto. Bisognava renderlo inoffensivo. Sconfessare severamente Galileo, ovviamente. Ma anche togliere di mezzo denunzianti e testimoni, prove viventi di quel sospetto. Così fu fatto.

La condanna di Galileo non fu un fatto personale. Essa è stata un evento storico in quanto unica. Ma essa fu anche un evento filosofico in quanto ha di esemplare per la storia della rivoluzione scientifica del sec.XVII.

Rivoluzione scientifica: rivoluzione di idee. Un’emozionante rivoluzione di idee in fisica, perché questa disciplina nuova, che non ha alle spalle alcuna tradizione matematica classica, vuol superare la metafisica filosofica tradizionale. Essa pretende adesso di avere l’enorme privilegio di camminare con le sole gambe dell’esperienza razionale e della matematica e di andare lontano, dappertutto, nei cieli e nelle strutture invisibili della materia terrestre.

È una rivoluzione più grande di quella che si compie nel cielo degli astronomi. Essa fa discendere sulla terra il cielo delle idee, sconvolgendo la conoscenza comune e quella filosofica. L’astronomia è sempre classica, sempre matematica. Ma la materia cambia, passa dal continuo al discontinuo, dal visibile all’invisibile.

Credere per vedere, proclamano gli autori del Saggiatore e del Monde: diffidiamo delle apparenze sensibili, indaghiamo prima le nostre possibilità di avere una conoscenza oggettiva e poi vedremo che sotto i fenomeni sensibili si celano strutture corpuscolari, oggettivamente comprensibili dalla ragione.

Vedere per credere, replicano gli scienziati e filosofi gesuiti: vediamo il miracolo della permanenza delle apparenze sensibili eucaristiche anche dopo che la sostanza del pane e del vino è totalmente mutata.

Perché quel miracolo non offenda la ragione dell’uomo bisogna difendere la distinzione della quantità dalla sostanza e mantenere l’idea che i fenomeni esistono realmente, che essi sono qualità indipendenti da noi.

Qui siamo nel cuore della fede della Controriforma e, insieme, della rivoluzione scientifica.

La questione copernicana, rispetto a queste, è un incidente di percorso, un malinteso. Qui non si tratta di qualche passaggio della Sacra Scrittura interpretato con strumenti esegetici arcaici anche rispetto alle possibilità del tempo, ma si tratta di un dogma nuovo, rigoroso, uno degli articoli capitali del cattolicesimo. Si tratta del grande problema teologico di un secolo, il grande nodo della fede e della controversia.

Ma che cosa ha a che fare la teologia eucaristica con la fisica e la matematica di Galileo o di Descartes?

Già, come spiegare l’aspra passione, per noi incomprensibile, con cui tanti uomini di cultura: scienziati, teologi, filosofi (impersonati spesso dalle medesime persone) diedero il meglio delle loro preoccupazioni intellettuali e anche la loro vita, per argomenti che oggi ci sembrano così scolastici?

Come spiegare a quegli uomini cattolici del sec.XVII che noi oggi non capiamo le loro passioni speculative e che preferiamo guardare altrove, perché esse ci imbarazzano, in quanto noi siamo discendenti di Galileo e, dopo tanto tempo, siamo diventati tutti, cattolici e laici, dei moderni bigotti scientifici?

Noi sorridiamo disinteressati, ma nel sec.XVII squadre di teologi e di intellettuali lottarono sui vari fronti di quel dogma. Per molti di loro quella formula tridentina era più di un principio di autorità, era un principio di identità, una ragione di essere.

Trento proclama con certezza filosofica la presenza reale di Cristo nell’ostia: è l’immenso privilegio di sapere e di comprendere che Dio viene sulla terra, in virtù di una formula sacramentale, e che Egli è visibile agli uomini, reincarnato come Cristo sotto le specie eucaristiche. Vedere per credere.

La formula del dogma riassumeva un’alleanza secolare fra la fede e la ragione. Galileo sembrava voler sfidare quel patto razionale sancito da una teologia speculativa. Un «machiavello»? Un argomento ad hoc, frutto di una scadente ideologia, puramente tattico, un’obiezione occasionale, insomma? Era un grande problema teoretico.

Lo sforzo per uscire dal passato era arduo anche per degli uomini di nuova cultura scientifica. Era un problema di fondo, un problema filosofico e di mentalità radicata da secoli nelle coscienze e nelle idee, non un argomento di circostanza. È da questo punto di vista, da questo sfondo, che la condanna di Galileo va considerata. Non siamo miopi, non guardiamola a partire dal 1616 (la messa all’indice di Copernico), ma guardiamola da lontano, molto lontano.

Un’onda profonda si solleva contro Galileo dal patrimonio della cultura medievale fino alla storia delle idee filosofiche e scientifiche. Essa arriva fino a Galileo e continua la sua azione per tutto il secolo. È la storia della teologia eucaristica speculativa, della saldatura in quel punto di enorme attrazione, dell’ilemorfismo e della religione cattolica.

A che pro – ci si chiederà a questo punto – rivangare una controversia che fu un dialogo fra sordi, senza alcun effetto benefico ma solo ritardante sulla storia della scienza moderna? Certo, le teorie della fisica, a differenza della teologia, non trassero risultati da quella lotta secolare, solo ostacoli. Ma un effetto ci fu e quella storia ce lo farà apprezzare. Fu l’effetto di farci conquistare l’autonomia della ricerca e della ragione di cui oggi beneficiamo. E sarà possibile apprezzare che essa non ci è stata fatta discendere sulla terra dal cielo delle idee di Platone ma è stata duramente conquistata, nel sec.XVII, come ogni altra libertà umana. Un bene comune, da salvaguardare. 

Essa oggi è di tutti.

condensato tratto da “GALILEO ERETICO”

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