Filosofare è imparare a morire

di Michael de Montaigne.

“Farò sempre a tempo a sentire il male senza allungarlo col male della paura”.

Cicerone dice che filosofare non è altro che prepararsi a morire. Ogni saggezza, del resto, conviene su questo punto: non temere la morte. È anche vero che l’obiettivo della ragione consiste nel farci vivere nel miglior modo possibile. Siamo tutti d’accordo che il piacere è il nostro scopo, sebbene lo si persegua in maniera diversa, e nessuno presterebbe fede a colui che ponesse come fine dolore e sofferenza. 

Il dissenso di alcuni filosofi si riduce a una pura questione di parole. Essi infatti pongono come scopo ultimo la virtù. Ma cosa c’è dietro la virtù se non il piacere? Mi piace ripetere alla loro orecchie questa parola che sembrano avere tanto in antipatia. Se è vero che la virtù ci dà la soddisfazione suprema, si addice ad essa più che a ogni altra cosa la parola “piacere”. Ed è sbagliato affermare che il cammino verso di essa sia fatto di sacrifici e rinunce. In realtà, come per ogni altro piacere, le tappe stesse che ci portano verso la sua realizzazione ci risultano piacevoli.

Ora, uno dei principali effetti della virtù è quello di trasmetterci il disprezzo della morte, consentendoci in questo modo di mantenere il gusto della vita e di ogni sorta di piacere. 

La morte è inevitabile. Ma se essa ci fa paura, diventa un continuo tormento, e non c’è modo di consolarsi. Non esiste luogo dove non la si possa incontrare, per quanto ci si guardi intorno con circospezione come in un paese inospitale. Prendete il condannato che si avvia all’esecuzione di primo mattino lungo un bel viale alberato: pensate che possa goderne della vista avendo davanti la fine del suo viaggio? Allo stesso modo, noi procediamo verso la morte. Ma se ci spaventa, possiamo avanzare senza cader preda dell’agitazione ad ogni passo?

Non c’è uomo, per quanto decrepito sia, da non pensare di avere ancora una ventina d’anni davanti. Laddove basterebbe guardare l’esperienza, per rendersi conto che ognuno di noi vive da tempo per favore straordinario. E non esistono, come dice Orazio, precauzioni a sufficienza per i pericoli che a tutte le ore ci minacciano. La morte ha infiniti modi per sorprenderci.

Non farò menzione di tutte le malattie infettive. Ma chi avrebbe immaginato che il Duca di Bretagna potesse morire nella ressa che si creò all’arrivo di papa Clemente? O che un nostro re morisse nella giostra? Il figlio di Carlo il Grosso perì urtato da un cinghiale. A Eschilo, minacciato dalla caduta di una casa non servì mettersi fuori: lo uccise il guscio di una tartaruga sfuggito agli artigli di un’aquila. Anacreonte morì soffocato da un acino d’uva. Un imperatore per un graffio di un pettine. Emilio Lepido inciampando mentre usciva di casa e Aufidio mentre entrava nella sala del consiglio. Tra le gambe delle donne morirono il pretore Cornelio Gallo, Tigellino, Ludovico Gonzaga e, esempi meno edificanti, il filosofo platonico Speusippo e papa Giovanni XXII. Il giudice Bebio accorda all’imputato una proroga di otto giorni, ma intanto per lui non ci sono più proroghe: il suo tempo è scaduto. Caio Giulio sta curando gli occhi a un paziente e la morte viene a chiudere i suoi. Tutti esempi che ci dicono che a ogni istante possa portarci con sé e di come i pericoli poco o niente ci avvicinano ad essa.

Che importa, mi direte, come arriva, basta non curarsene. Sono dello stesso avviso. E mi adopero infatti per trascorrere il mio tempo nel migliore dei modi. Ogni piacere che è alla mia portata lo afferro, per quanto poco esemplare possa essere. E questo va bene. Il fatto è che quando la morte si avvicina, a noi o ai nostri cari, cediamo al tormento e alla disperazione. La noncuranza dunque non è sufficiente. Se fosse un nemico che vi insegue suggerirei di fuggire a gambe levate, ma dal momento che la morte cattura ugualmente il coraggioso e il vigliacco, nemmeno questa soluzione può esserci d’aiuto. Occorre allora provvedere diversamente. Per cominciare, togliamole il grande vantaggio che ha su di noi: l’estraneità. Pratichiamola, rendiamola familiare. A ogni piccolo incidente, ripetiamoci: va bene, anche se questa fosse la fine. Pur senza fare come gli antichi egizi (che nel corso dei loro festini facevano portare uno scheletro, mentre un uomo avvertiva i convitati: bevi e godi perché domani sarai così), ricordiamoci della nostra condizione anche durante la gioia della festa. È incerto dove la morte ci attende? Ebbene, attendiamola noi ovunque. Chi è pronto a morire si è liberato di ogni servitù e di ogni timore. Nessuno può costringerlo a fare qualcosa: è un uomo libero. Così rispose Paolo Emilio a quel misero re di Macedonia che, suo prigioniero, gli inviava la supplica di non portarlo in trionfo:” che ne faccia richiesta a sé stesso”.

Bisogna sempre essere pronti a partire. Non conviene, dice Orazio, far troppi progetti in una vita così breve. Per quanto mi riguarda, posso sloggiare in qualsiasi momento, senza rimpiangere nulla. Mi vado slegando dalle cose. Non faccio programmi a lunga scadenza, e comunque non così importanti da disperarmi se non dovessi vederli realizzati. Siamo fatti per agire, e così voglio che la morte mi trovi piantando i miei cavoli e incurante di essa. Ne discuto abitualmente come d’ogni altra cosa e niente mi incuriosisce di più di come gli uomini l’abbiano affrontata. Sapere quali siano state le loro parole, le loro espressioni e i loro atteggiamenti. Se facessi dei libri, avrei trovato utile preparare una lunga raccolta dei vari tipi di morte. Chi insegna all’uomo morire, gli insegna a vivere.

Ma si dirà che ogni ragionamento vacilla nel momento fatale. E tuttavia prepararsi è sempre vantaggioso. Se non altro ci consente di arrivare a quel giorno senza troppa apprensione. Inoltre, viene anche la Natura a darci coraggio. Se la morte è immediata, non c’è motivo di preoccuparsi. Se invece ci si avvicina lentamente, man mano che si sprofonda nella malattia e si perde il gusto della vita, essa appare meno spaventosa. Non ucciderà che metà o un quarto di uomo. Fatico più ad accettarla quando sono in perfetta salute che quando sono a letto ammalato. Ciò mi fa ben sperare. Allontanandomi dall’una e avvicinandomi all’altra, mi risulterà più facile lo scambio. In tante occasioni ho sperimentato l’affermazione di Cesare, secondo cui le cose ci sembrano sovente più grandi da lontano che da vicino. Ho provato per la malattia più orrore di quanto poi ne abbia effettivamente avuto da malato. Lo stesso spero mi accada con la morte.

Avanzando negli anni, insieme a certe qualità, la natura ci toglie la sensazione che ne abbiamo. Cosa rimane a un vecchio del vigore della giovinezza? A un anziano soldato malandato che gli chiedeva il permesso di morire, Cesare rispose scherzosamente:” Pensi forse di esser vivo?”. Noi procediamo come in un dolce pendio, e senza possibilità di renderci conto del nostro cambiamento, e di grado in grado, poco a poco, trapassiamo in condizioni miserabili e ci abituiamo ad esse. Non sentiamo nessuna scossa in noi quando la giovinezza muore, che in verità è una morte ben più dolorosa di una vita ormai ridotta al lumicino che si spegne. È meno duro il salto dal malessere al non essere, di quanto lo sia da uno stato di salute giovanile a uno di triste vecchiaia. Per quale motivo, allora, temere di perdere una cosa la quale una volta perduta non può essere rimpianta? Sembra piuttosto curioso prendersi pena per il momento che segna la liberazione da tutte le pene.

Disperarsi perché tra cento anni non ci saremo è la stessa cosa di disperarsi perché non c’eravamo cento anni prima di nascere. Fin dal primo giorno di vita ci si mette in marcia verso la morte e tutta la vita vissuta è sottratta alla vita. Siamo morenti durante tutta la nostra esistenza. E se di essa abbiamo tratto buon profitto, ritiriamoci, dice Lucrezio, come convitati sazi del banchetto. Se avete vissuto un giorno, avete vissuto tutto. Un giorno è uguale a tutti gli altri. Vedrete di nuovo il sole, la luna e le stelle, come li hanno visti i vostri antenati e come li vedranno i vostri discendenti. 

Fate posto agli altri, come altri l’anno fatto a voi. La morte non vi riguarda né vivo né morto: vivo, perché ci siete; morto, perché non ci siete più. Nessuno muore prima del tempo. il tempo che lasciamo non era più nostro di quello precedente la nostra nascita, e non ci riguarda ugualmente. L’utilità del vivere non si misura con la lunghezza, ma con l’uso che se ne è fatto. Se ne sono visti tanti che con la morte hanno posto fine a grandi sofferenze; ma qualcuno che si sia trovato male, l’avete mai visto? Perché dunque temere l’ultimo giorno? Esso no aggiunge alla morte più di quanto non abbiano fatto i precedenti: tutti i giorni corrono verso la fine, l’ultimo vi arriva. 

Chirone rifiutò l’immortalità dopo aver udito le parole del Dio del tempo e della durata, Saturno, suo padre. “Immaginate, disse Saturno, quanto una vita eterna sarebbe più penosa e meno sopportabile di quella che vi ho data. Se non aveste la morte, mi maledireste senza tregua per avervene privato. Apposta vi ho mischiato un po’ d’amarezza, per impedirvi di gettarvi tra le sue braccia con troppo entusiasmo. Per evitare che fuggiste dalla vita o che troppo vi attaccaste a essa, le ho fatte in modo, vita e morte, che entrambe abbiano un sapore a metà tra l’aspro e il dolce. E ho insegnato a Talete, il primo dei vostri saggi, che è indifferente vivere e morire.” Ecco perché a colui che gli domandava perché non morisse, Talete giustamente rispose:”perché è indifferente.”

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