di Étienne Gilson.

Si è molto discusso sulla evoluzione intellettuale di s.Agostino, forse per aver voluto ridurre all’evoluzione di un intelletto quello che fu l’itinerario di un uomo alla ricerca della verità. Lo storico delle idee non è del resto tenuto a prendere posizione su questo problema di psicologia individuale, ma è suo dovere definire il significato che lo stesso s.Agostino attribuiva a una storia che, sotto forme diverse, la sua dottrina non ha mai cessato di commentare. 

Riassunta in forma astratta, possiamo dire che l’esperienza di s.Agostino si riconduce alla scoperta dell’umiltà. L’errore dell’intelligenze è legato alla corruzione del cuore a causa dell’orgoglio, l’uomo trova la verità beatificante soltanto piegando la propria intelligenza alla fede e la sua volontà alla grazia, mediante l’umiltà: «Primum autem peccatum, hoc est primum voluntarium defectum, esse gaudere ad propriam potestatem»(Epistole); «Ea est autem (scil. via ad obtinendam veritatem) prima humilitas, secunda humilitas, tertia humilitas»(Epistole).

Catecumeno fin dall’infanzia, e d’altronde non battezzato, s.Agostino rimase nell’ignoranza di dogmi essenziali del cristianesimo. Persino dopo l’adesione formale alla fede, egli si sbaglierà ancora sul significato dell’incarnazione e professerà l’eresia di Fotino senza saperlo. A questa ignoranza religiosa, occorre aggiungere come fattore determinante della sua storia, il naufragio precoce della sua moralità. In tale oscurità e disordine permangono due barlumi: mai smise di credere che comunque Cristo fosse la sola via che conducesse l’uomo alla beatitudine; mai fu proposto al giovane Agostino qualche nobile esempio che non lo infiammasse del desiderio di imitarlo. Questi due tratti essenziali del suo carattere entrarono in gioco quando lesse l’Hortensius, l’opera oggi smarrita di Cicerone. Poiché c’è una Sapienza, bene sommo, egli Agostino doveva possederla; ma poiché non poteva trovarla altrove se non in Cristo, la lettura di cicerone lo orientò verso lo studio delle Sacre Scritture. Che cosa vi avrebbe trovato?

Questo primo contatto di un professore di retorica con la Bibbia fu un disastro. Nulla di scritto peggio, né che meno rispondesse all’ideale evocato da Cicerone; niente nemmeno di più ridicolo, per un lettore come Agostino, che, interpretandola in senso materiale, si rappresenta Dio come un uomo simile a noi, che passeggia nel giardino dell’Eden e conversa con Adamo, come usano fare gli uomini tra loro. Fu nel momento più acuto di questa delusione che si imbatté nei manichei. Per quanto sorprendente ci sembri, la seduzione esercitata su di lui da questa setta conferma la testimonianza di Agostino e prova come egli cercasse veramente la sapienza nel Cristo. I discepoli di Mani avevano di continuo il nome di Cristo sulle labbra e invocavano la testimonianza delle Scritture: il che soddisfaceva in pieno le aspirazioni cristiane di Agostino; inoltre essi promettevano un’interpretazione delle Scritture che fosse soddisfacente per la ragione e facesse appello alla fede soltanto nella precisa misura in cui la ragione sarebbe stata capace di giustificarla: la qual cosa era gradita al giovane lettore dell’Hortensius. Il problema, per lui, era di trovare una sapienza filosofica nelle Scritture, ed è proprio questo che gli promettevano i manichei.

Fatta astrazione dai suoi dettagli, la cosmogonia fantastica elaborata dai manichei si riduceva a un dualismo, fondato a sua volta su un materialismo radicale. Mani insegnava l’esistenza di due principi delle cose, ugualmente eterni e perpetuamente opposti: la Luce e le Tenebre. La Luce è essenzialmente identica a Dio; le Tenebre sono invece il Male, e la storia del mondo non è che la storia della lotta tra questi due principi.

Questo dualismo radicale deve la propria consistenza al materialismo che lo sorregge. Se Dio è luce, è materiale. Indubbiamente i manichei affermavano che la luce è incorporea e, in un certo senso, hanno contribuito a stornare Agostino dall’interpretazione materiale della Bibbia da cui era partito, ma solo per condurlo a un materialismo più sottile e, con ciò stesso, meno facile da eliminare. I discepoli di Mani ridicolizzavano l’interpretazione letterale delle Scritture che riduce Dio a essere soltanto un uomo simile a noi. Il loro Dio, essendo una sostanza luminosa, brillante e infinitamente sottile, si presenta come «incorporeo». In un certo senso lo era; il manicheismo ebbe innanzitutto, agli occhi di Agostino, il merito di eliminare dalla Bibbia questo dio simile al corpo umano e provvisto di membra simili alle nostre, che lo aveva urtato così profondamente. Tuttavia «l’incorporalismo» di Mani non era uno spiritualismo; dal fatto che la luce non è un corpo come il nostro, non ne seguiva che essa non fosse materia e, comunque, è sempre in senso materiale che Agostino stesso l’ha interpretata. Non solo intendeva questa luce in senso materiale, ma materializzava anche tutto ciò che, essendo di natura luminosa, deve essere. Considerato come una parte di Dio. Tale segnatamente era il caso dell’anima e delle rappresentazioni in essa contenute.

In queste condizioni non solo la spiritualità di Dio restava profondamente incomprensibile per Agostino, Ma ogni soluzione metafisica del problema del male gli diveniva per ciò stesso impossibile. Se Dio è materiale, a maggior regione lo sono le Tenebre; la materialità è persino, in qualche modo, la loro definizione; se è materiale, il principio del male è necessariamente reale; è reale, per la stessa ragione, ogni male particolare che partecipa a questo principio, di modo che, da qualsiasi punto di vista lo si consideri, il male appare una realtà positiva la cui consistenza con un dio perfetto diventa difficile da concepire. Liberato dal materialismo, Agostino non avrebbe immaginato che il male fosse un corpo e avrebbe quindi potuto concepirlo come la semplice privazione di un bene; ma il dualismo manicheo, anche se non era possibile dedurlo all’origine, viveva tuttavia del materialismo della setta e della sua cecità nei confronti di ciò che è puramente spirituale.

Tocchiamo qui, con lo stesso Agostino, la radice di tutti gli errori in cui si trovava implicato. Tale radice era più profonda del manicheismo, il quale, in un certo senso, non era che un pollone, e ciò spiega come essa gli sia sopravvissuta per un certo tempo. L’origine dei mali di cui soffriva era una specie di incapacità radicale a concepire una realtà non corporea; ma l’origine di questa stessa incapacità era la sua colpevole fiducia in una ragione viziata da un cuore corrotto. Il manicheismo crollò, nel pensiero di Agostino, in ragione della sua inconsistenza. Si era annunciato come una spiegazione razionale delle Scritture, e un semplice confronto con le dottrine scientifiche ricevute lo faceva apparire come del tutto irragionevole. Il risultato di questo confronto fu quindi il suo abbandono del manicheismo e la sua provvisoria adesione all’accademismo di Cicerone. Agostino vi scorgeva allora soltanto uno scetticismo universale, temperato d’altronde da due elementi che ne restringevano la profondità e la portata. 

In primo luogo occorre notare che nel momento stesso in cui dispera di trovare alcuna verità, Agostino non transige sulla nozione stessa di verità. Più ancora riconosce l’esistenza di una scienza certa, la matematica, e proprio perché valorizza grandemente la sua certezza, disprezza tutte le altre conoscenze. Una cosa è lo scettico che non crede alla verità, altra è lo scettico che dubita perché è troppo esigente in materia di certezza. Quel che difetta al giovane Agostino è la possibilità di pervenire all’evidenza della matematica nel campo della metafisica e della fisica; il suo scetticismo è un dogmatismo momentaneamente scoraggiato.

Ed è proprio questo il secondo tratto che caratterizza l’accademismo di Agostino. Oltre questo alto ideale di certezze che gli rimane, scopriamo in lui il movimento stesso che lo porta verso certezze concrete. Sospende il proprio assenso, ma l’incertezza lo tormenta: timens praecipitium et suspendio magis necabar. Lungi quindi dall’essere attestato su di uno scetticismo alla Montaigne, Agostino attraversa il proprio con impazienza, come una tappa tra due dogmatismi e che ha fretta di bruciare.

Mentre si operava questa evoluzione, il materialismo radicale di cui soffriva Agostino non cessava di permanere nel suo pensiero e di esercitarvi il proprio influsso. Era per lui una evidenza tale che non poteva nemmeno sognarsi di metterla in dubbio; essa nondimeno, sotto la pressione di diversi influssi, cominciava a cedere terreno. 

La prima a cedere fu la parte più esteriore del suo materialismo, quella che potremmo definire il suo antropomorfismo biblico. Mentre si trovava a Milano, già rinsavito dal suo manicheismo, ma senza nulla con cui sostituirlo, sente s.Ambrogio commentare allegoricamente il Vangelo. Sotto la lettera e al di là delle immagini materiali, il vescovo di Milano cerca sempre lo spirito: littera occidit, spiritus autem vivificat. A partire da questo momento, gli antropomorfismi rinfacciati ai cattolici dai manichei scompaiono come una illusione; per la prima volta Agostino incontra lo spiritualismo, quello che si erge contro la lettera: progresso iniziale modesto, ma le cui conseguenze presto si moltiplicheranno.

Con questo l’attenzione di Agostino fu dapprima attratta sull’imprudenza che aveva commesso nell’indirizzarsi ai manichei: per conoscere l’insegnamento della Chiesa, si era informato presso i suoi più peggiori nemici. Ma questa stessa posizione venne presto superata. Se l’interpretazione delle scritture che la Chiesa propone è superiore a quella dei suoi nemici, perché non prendere in esame le credenziali di autorità che essa stessa si arroga? Diffidare dei nemici della Scrittura invita a credere ai suoi amici; si può procedere ad accordare loro una piena fiducia?

Ci si trova tanto più invitati con forza in quanto una prima esperienza è tutta favorevole alla Chiesa. L’ostacolo che distoglieva Agostino era che la Chiesa impone la fede come condizione dell’intelligenza; ora i manichei, che premettono la ragione alla fede, hanno appena dato prova di sé. Quello che propongono sotto la copertura della ragione, è una congerie di assurdità, e quando se ne richiede loro la prova, essi vi rinviano all’autorità dei loro dottori. Il metodo manicheo approda quindi alla fede nell’assurdo, di modo che mai, né all’inizio né alla fine della ricerca, si approda alla ragione. Dei due sistemi, quello che propone la Chiesa rimane il migliore: essa ci propone in primo luogo la fede, ma è almeno per darci in seguito la ragione.

A questa constatazione se ne aggiunge un’altra: l’atto di credere, ben lungi dall’essere irragionevole, è perfettamente normale. Ne facciamo continuo uso nella vita: non c’è uomo che non creda molte cose senza averle viste, sulla fede di testimoni di cui si fida. Cosa c’è quindi di assurdo nel credere a tanti testimoni che attestano la verità del contenuto delle Scritture? Di più, come non vedere che questa autorità di fatto, esercitata dalla Scritture, esige essa stessa di essere spiegata? In fondo, quale fosse la sua idea di Dio e la portata del suo scetticismo, Agostino non aveva mai perduto la fede nell’esistenza di un Dio provvidente; come perciò non sospettare una finalità dell’autorità? Come non pensare che Dio abbia voluto questa autorità delle Scritture e della Chiesa che le interpreta, per offrire a tutti gli uomini, in un linguaggio umile e alla loro portata, la dottrina della salvezza? Ma non è soltanto all’ignorante e al semplice che l’autorità della fede può giovare; essa giova anche al sapiente che, non restando sempre al livello della propria sapienza, è felice di ritrovare, nei momenti di stanchezza, l’appoggio dell’autorità. In tal modo è quindi possibile credere prima di comprendere, perché vi sono ragioni positive per credere. L’autorità precede la ragione nel cattolicesimo, ma esistono ragioni per accettare la sua autorità e persino, in un certo senso, non si crederebbe mai nulla se non si avesse dapprima compreso che occorre crederlo. Da qui a compiere l’ultimo passo e piegare la sua ragione davanti alla fede non vi era che poca distanza: Agostino alla fine la supera e aderisce alla dottrina della salvezza contenuta nelle Scritture, garantita dall’autorità della Chiesa e fondata su Cristo, figlio di Dio.

Sostenere, come si è preteso di fare, che Agostino non era ancora cristiano, significa andare contro tutti i testi e, col pretesto di spirito critico, affossare lo stesso metodo storico; immaginare che fin da quel momento la sua conversione sia stata perfetta e compiuta, significherebbe misconoscere il carattere che lo stesso Agostino ha sempre attribuito alla sua conversione. Per lui essa non consisté mai in un atto istantaneo; fu un movimento continuo che, iniziatosi con la lettura dell’Hortensius si prolunga con la scoperta del significato spirituale delle Scritture e raggiunge l’atto di fede nella Chiesa di Cristo, al quale siamo pervenuti. Agostino possiede dunque la fede, è nella Chiesa, ma la sua fede è ancora informe, gravata di ignoranze e gli resta di coglierne distintamente il contenuto.

In questo periodo due ostacoli lo separano ancora da una fede che non sia più: «informis et praeter doctrinae normam fluitans»: dapprima il suo materialismo persistente, con il problema del male che egli trasforma in un enigma insolubile, successivamente la corruzione dei suoi costumi. Agostino non è soltanto alla ricerca di una teoria, ma anche di una prassi. La Sapienza che egli cerca è una regola di vita; aderirvi significa praticarla. Ora, quello che colpisce, è il fatto che la vita di cristiani come s.Antonio eremita o s.Ambrogio traduce in atti una sapienza evidente: distacco dai beni di questo mondo, continenza, castità, libertà dell’anima nei confronti del corpo, nulla vi manca di ciò che manifesta una perfetta padronanza di sé. Con ciò Agostino si trova di fronte a un dilemma da cui non sa come liberarsi. Secondo la propria esperienza personale, la continenza è impossibile; secondo l’esperienza dei santi di cui legge la storia o che ha sotto gli occhi, la continenza è possibile. Agostino non è quindi soltanto un credente che non conosce esattamente il contenuto della propria fede, è altresì un uomo che aspira alla vita cristiana senza poterla realizzare. La sua liberazione definitiva si compirà in due tappe: il neo-platonismo e s.Paolo.

Il suo incontro col neo-platonismo avvenne tramite l’incontro con un uomo tronfio di uno spaventoso orgoglio, che pone nelle sue mani una traduzione latina di libri di Plotino, e forse anche di Porfirio. L’effetto di questo incontro fu di rivelargli lo spiritualismo filosofico. Agostino trovò dapprima in questi libri la dottrina del Verbo divino, della creazione del mondo nel Verbo e della illuminazione degli uomini a opera di una luce divina di natura puramente spirituale, ma non vi trovò l’incarnazione. Una ulteriore acquisizione decisiva per lui fu la scoperta che Dio, essendo la Verità immateriale e immutabilmente sussistente, è l’Essere, al cui paragone le cose mutevoli non meritano effettivamente il nome di esseri. Di queste ultime non si può affermare né che siano, né che non siano.

Un terzo sprazzo di luce fu per Agostino l’idea che tutto quanto è, è buono, proprio in quanto è. Allorché si obietta che gli esseri non sono buoni, perché si corrompono, si dimentica che per potersi corrompere, occorre proprio che siano buoni. Il male è la soppressione dell’essere, di modo che, al limite, la soppressione totale del bene, realizzando il male assoluto, equivarrebbe, per definizione, alla soppressione totale dell’essere. Sarebbe quindi il nulla. In altre parole, il male non è che l’assenza e la carenza di qualcosa; lungi dall’essere un essere, il male è nulla.

Si impone perciò un’ultima conclusione che libera definitivamente Agostino dalla sua angoscia metafisica. Giacché il male è niente, Dio non può esserne l’autore. Tutto ciò che è, in quanto è, è buono. Quel che è vero degli esseri materiali lo è degli esseri spirituali; quel che è vero delle loro sostanze è vero dei loro atti, persino dei loro atti cattivi, come i peccati, poiché implicano un certo bene nella misura in cui implicano dell’essere. Dal momento in cui afferra questa evidenza, Agostino trova finalmente un po’ di tregua, la sua smania si placa, la sua anima si desta alla conoscenza di Dio, vede in Lui una infinita sostanza spirituale e, per la prima volta, raggiunge una visione che non sia carnale, ma spirituale.

Questa, in definitiva, fu la scoperta che gli portò il neo-platonismo. Non se ne può esagerare l’importanza, purché tuttavia non si riduca ad essa la sua conversione. Essa fu per lui una purificazione e spiritualizzazione del proprio cristianesimo. Fatto così accorto da Plotino, Agostino rientrò in se stesso e, con l’aiuto di Dio, scoprì la natura spirituale, immateriale di quella Luce immutabile di cui parla s.Giovanni. A dirla breve, Plotino lo rese capace di concepire la spiritualità del Dio cristiano e l’irrealtà del male. Che tale illuminazione sia stata per lui indissolubilmente filosofica e religiosa, è incontestabile: Agostino aveva appena scoperto la natura puramente spirituale del Dio cristiano al quale aderiva già con la fede. Siamo quindi in presenza di una illuminazione filosofica integrata con una esperienza religiosa e che non può essere separata senza falsare arbitrariamente la testimonianza dello stesso Agostino.

Quale che sia il racconto di questo avvenimento che si voglia prendere in considerazione, quello Contra Academicos o quello delle Confessioni, constatiamo che il suo effetto, sorprendente ai nostri occhi, fu di condurre Agostino alla lettura di s.Paolo. La ragione nascosta di questa connessione, in apparenza strana, è che Agostino si trova ormai di fronte a due evidenze: l’ammirevole vita di Cristo, alla quale crede in forza alle Scritture, e quella dei santi che lo hanno imitato; l’evidenza manifesta della filosofia di Plotino, che ha appena scoperto. Ora, il Bene e il Vero non possono contraddirsi; occorreva quindi che la dottrina cristiana fosse essenzialmente d’accordo con quella di Plotino e proprio per verificare questa ipotesi, egli si impossessò, tremando, delle epistole di s.Paolo. Un’ultima e definitiva illuminazione lo attendeva: la dottrina del peccato e della redenzione mediante la Grazia di Gesù Cristo.

Del prologo del Vangelo di Giovanni Agostino aveva trovato tutto in Plotino, tranne l’essenziale, vale a dire che il Verbo si è fatto carne ed ha abitato tra noi. La lettura dei neo-platonici, quindi, può sì farci conoscere la verità, ma non ci offre alcun mezzo per raggiungerla. Incarnandosi, il Verbo è venuto a dare agli uomini qualcosa di più e di meglio che dei precetti: un esempio capace di ricondurre le anime a se stesse e di portarle a Dio. Quel che Agostino constata, leggendo s.Paolo, non è solo la concordanza del Bene e del Vero, che sperava di scoprire; constata soprattutto che che tutta la verità filosofica è stata già rivelata agli uomini da dio e proposta da un’autorità divina che dispensava le loro deboli menti dallo sfibrarsi in lunghe ricerche. Constata inoltre la ragione profonda della propria impotenza morale. Il cristianesimo di s.Paolo è infatti la possibilità di far passare il platonismo dallo spirito al cuore e dalla teoria alla pratica. Dire, con Plotino, che lo spirito è distinto dalla carne, non è affatto liberare lo spirito dalla carne. Agostino quindi può sì seguire Plotino nelle sue ascensioni metafisiche verso l’intelligibile: ricadrà nondimeno sotto il peso delle proprie abitudini carnali, fino a quando s.Paolo non gli avrà rivelato la legge del peccato e la necessità della grazia che da essa ci libera. È solo dopo quest’ultima scoperta che il voto della filosofia gli appare in tutta la sua grandezza; ma è a partire da questo momento che la filosofia doveva per sempre significare Sapienza, e Sapienza doveva sempre implicare la vita della grazia, l’accoglimento di ciò che Dio dà agli umili che l’accettano e rifiuta ai superbi che pretendono di darselo.

Così il giovane Agostino non aveva fatto altro che ricominciare per suo conto l’esperienza già tentata da Giustino, Minucio Felice e Lattanzio ed era pervenuto allo stesso risultato: la soluzione dei problemi che la ragione si pone può esserle fornita solo da una dottrina che non fa appello alla ragione. Né il dualismo materialista di Mani, né l’accademismo di Cicerone sono risposte soddisfacenti; lo stesso spiritualismo di Plotino non costituisce una risposta completa; la risposta esatta e totale possono fornircela soltanto s.Giovanni e s.Paolo. La differenza che distingue Agostino dai suoi predecessori non si trova né nel problema che egli pone, né nella soluzione che ne dà, ma nella intensità con cui ha vissuto tale problema e nella profondità con la quale ne ha elaborato la soluzione. La radice del male di cui soffrono gli uomini è quella del male di cui lui stesso ha tanto sofferto: l’orgoglio. La volontà di trovare la verità filosofica con la sola ragione è, applicata all’ordine della conoscenza, questa volontà di fare a meno di Dio che dirige in tutto e per tutto l’attività dell’uomo. Lo scacco doloroso di una ragione che capitola di fronte alla fede e di una volontà che si offre alla grazia, è la lezione stessa con cui Dio ci richiama al sentimento della nostra dipendenza: volens ostendere mihi, quam resistas superbis, humilibus autem das gratiam.

Il ricordo di questa esperienza decisiva non doveva mai più abbandonare Agostino e le analisi del suo pensiero da noi proposte attestano la presenza costante di due elementi essenziali di tale esperienza: Plotino, la Bibbia. A Plotino Agostino deve quasi tutto il materiale e tutta la tecnica della propria filosofia. Alla Bibbia deve le concezioni cristiane fondamentali che l’hanno obbligato a trasformare dall’interno le tesi plotiniane da lui. Mutuate e costruire in tal modo una nuova dottrina, che costituisce uno dei primi contributi, e dei più originali, di cui il cristianesimo abbia arricchito la storia della filosofia. La questione non è di sapere se fosse proprio questo che si proponeva di fare Agostino; possiamo soltanto constatare che egli ha fatto per Plotino quello che s.Tommaso d’Aquino doveva fare più tardi per Aristotele: sottoporre a una revisione razionale, alla luce della fede, una grande interpretazione filosofica dell’universo. Ogni qual volta il fatto si è prodotto, si è visto apparire una filosofia cristiana. Ciò che vi è di filosoficamente nuovo nella dottrina di Agostino, è nato dal suo sforzo per trasformare in una dottrina creazionista la dottrina emanatista di Plotino. Ecco perché, anche quando utilizza materiali mutuati da Plotino, la dottrina da lui elaborata è diversa dal neo-platonismo. Essa traspone tutti i problemi su un piano estraneo a quello della filosofia greca e inaugura l’era delle grandi filosofie cristiane che da quel momento non cesseranno più di avvicendarsi.

Sforziamoci, ora, di fissare il tratti essenziali della dottrina che formula questa esperienza e di evidenziarne lo spirito. Risulta innanzitutto che essa è diversa da ciò che chiamiamo filosofia nel senso usuale del termine. Nella misura in cui la filosofia si definisce: uno sforzo puramente razionale e teorico per risolvere i problemi più generali posti dall’uomo e dall’universo, la dottrina di Agostino proclama in ogni pagina l’insufficienza della filosofia. Da una parte egli sa, per averlo sperimentato di persona, che l’uomo abbandonato alle proprie risorse, è incapace di pervenire alla certezza piena senza la quale per lui non c’è riposo, né felicità. Dall’altra egli cerca una norma di vita più che la soluzione di un problema; ora, questa norma non sarà efficace che alla condizione di stabilire la pace nella volontà con il dominio dello spirito sui sensi e l’ordine nei pensieri con un sistema di verità definitivamente sottratto alle ricadute del dubbio. È caratteristico dell’agostinismo trovare la soddisfazione di entrambe queste esigenze in un ordine più che umano. Senza il Cristo mediatore che si è fatto carne per liberarci dalla carne, e senza la rivelazione della Scrittura che fissa con una autorità trascendente l’insieme delle verità salutari, l’uomo non può che errare in balìa della propria concupiscenza e fluttuare tra sistemi antagonisti. Non c’è agostinismo senza questo presupposto fondamentale: la vera filosofia presuppone un atto di adesione all’ordine soprannaturale, che libera la volontà dalla carne mediante la grazia e il pensiero dallo scetticismo tramite la rivelazione.

D’altra parte è un fatto costante nella storia della filosofia che le dottrine in cui predomina l’ispirazione di s.Agostino si lascino difficilmente ridurre a esposizioni sintetiche: Pascal e Malebranche rifuggono dal lasciarsi esporre secondo l’ordine lineare che conviene ad esempio alla dottrina di s.Tommaso d’Aquino. Inoltre è giusto dire che nessun agostiniano ha sofferto quanto Agostino stesso della propria innata impotenza a organizzare i propri pensieri secondo un tale ordine. Il male contro cui lotta disperatamente l’agostiniano consiste in questo che, per spiegarsi, gli occorre iniziare da ciò che potrebbe essere anche la fine e che, per definire un punto qualsiasi della propria dottrina, gli occorre assolutamente esporla per intero. Per questo non si sa mai bene se Agostino parla come teologo o come filosofo, se prova l’esistenza di Dio o sviluppa una teoria della conoscenza, se le verità eterne di cui parla sono quelle della scienza o quelle della morale; se quella che espone è una dottrina della sensazione o se sono le conseguenze del peccato originale; tutto si regge e si concatena così bene, che Agostino non può afferrare un anello della catena senza tirare a sé l’intera catena, e lo storico, che tenta a sua volta di esaminarla anello per anello, teme costantemente di farle violenza e, là dove le assegna un limite provvisorio, di spezzarla.

Può darsi che questa mancanza di ordine, di cui soffre l’agostinismo, non sia che la presenza di un ordine diverso da quello che ci aspetteremmo. Al posto dell’ordine sintetico e lineare delle dottrine che seguono la norma dell’intelletto, troviamo il modo di esposizione necessariamente diverso, che conviene a una dottrina il cui centro è nella grazia e nella carità. Si tratta più di amare che di sapere, il compito specifico del filosofo consiste più nel far desiderare che nel far conoscere; ora, per eccitare l’amore, non si dimostra, si mostra, ed è quanto non trascura di fare Agostino: «Gesù Cristo, s.Paolo seguono l’ordine della carità, non dell’intelletto; perché volevano infiammare, non istruire. Così pure Agostino. Questo ordine consiste principalmente nella disgressione su ogni punto, ricondotto al fine ultimo, per mostrarlo sempre» (Pascal). Così, nelle opere di s.Agostino, la disgressione che sembra costantemente rompere l’ordine del discorso, è l’ordine stesso. Con essa, invece di condurci semplicemente a Dio come a un termine, ci riporta a lui costantemente come a un centro dove, per qualsiasi direzione uno si allontani, occorre necessariamente fare ritorno. Parla dei corpi materiali? Le cose sono ritmi, forme, numeri, quindi immagini dei numeri intelligibili e quindi di Dio stesso. Si tratta della conoscenza? La minima percezione implica la memoria, il giudizio vero e Dio che ne è la regola. Della volontà? Ogni movimento del volere è desiderio, ogni desiderio è amore, ogni amore, al di là di ogni bene particolare cui mira, tende verso il Bene dei beni, che è Dio. Della scienza? Ogni scienza è orientata verso la sapienza, che è godimento di Dio mediante l’amore. Della vita sociale? Tutta la storia dell’umanità si riduce a quella della città celeste, i cui cittadini non hanno altri legami che il loro comune amore di Dio. Qualsiasi problema sollevi, Agostino lo tratta dunque come un punto che riferisce a Dio per mostrarcelo sempre. Particolarmente evidente il lui, questo carattere si ritroverà sempre in qualche grado presso i filosofi che risentono del suo influsso: il metodo naturale dell’agostinismo è la disgressione; l’ordine naturale di una dottrina agostiniana è questo irraggiamento attorno a un centro, che è l’ordine stesso della carità.

La carità tuttavia non impone alla dottrina il proprio ordine se non perché la domina e ispira. Dio ne è il centro: ora, secondo l’espressione di Giovanni, che Agostino non si stanca di ripetere, Dio è carità, e chi dice carità dice amore, cioè il peso interno e l’essenza stessa della volontà. Se così è, la volontà diventa necessariamente, in questa dottrina, la facoltà dominante dell’anima umana, poiché distogliendosi dal suo fine divino, essa ne separa l’uomo intero e aderendovi a esso, lo lega. Si è talvolta protestato, e non senza ragione, contro l’epiteto volontarista applicato alla dottrina di s.Agostino. È vero che nessun epiteto ha mai sintetizzato una filosofia, e si può aggiungere che, data la molteplicità di significati che può ricevere, quest’ultimo sarebbe particolarmente inadatto a definire da solo una dottrina. Se si riduce il suo significato a quello di un  primato della volontà, o anche un primato dell’amore, è certo che, anche in questo caso, saranno necessarie delle precisazioni. Applicate a Dio, tali espressioni non hanno alcun senso, poiché Egli è l’Essere, e nell’Essere assoluto, in quanto tale, una perfetta semplicità esclude ogni possibilità di un qualsiasi primato. Applicate all’uomo, esse non possono significare neppure che egli sia per essenza più volontà che intelligenza, per la semplice ragione che, senza l’intelligenza, anche la nozione di volontà diventa contraddittoria e impossibile. Non esiste quindi un primato della volontà o dell’amore, nell’ordine dell’essere, né in dio né nell’uomo, ma si può dire lo stesso nell’ordine dell’agire, di cui la filosofia è la norma? Certo, anche in questo caso Agostino non dimentica il ruolo necessario né l’eminente dignità dell’intelligenza; nessuno lo contesta; tuttavia non resta men vero che il fine della filosofia agostiniana è la sapienza e che, poiché essa confonde questa sapienza con la fruizione beatificante del sommo Bene mediante l’amore, è verso un atto di volontà che l’intera dottrina tende come verso il suo termine. Senza intelligenza non c’è volontà, è vero, ma quale sarà la volontà, tali saranno gli oggetti dell’intelligenza, di modo che, in questo dramma in cui siamo impegnati, è il volere a decidere tutto, poiché da esso dipende la scelta che ci lega a Dio o ce ne separa per sempre. Ecco perché al Deus caritas est di s.Giovanni risponde esattamente la formula di s.Agostino alla ricerca della luce eterna: qui novit veritatem novit eam, et qui novit eam novit aeternitatem: caritas novit eam. Si comprende quindi anche perché, allorquando Agostino vuol far risaltare in alcune linee l’unità innata della sua dottrina, egli la considera più dal punto di vista della carità che della conoscenza. Quali proposizioni, quali testi di qualsivoglia filosofo, quali leggi di qualsiasi società si possono paragonare ai due precetti dai quali, come cristo afferma, dipendono tutta la Legge e tutti i Profeti: «amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima. E con tutta la tua mente?» e «amerai il tuo prossimo come te stesso?» (Mt 22,37, 39). In questi precetti è inclusa la fisica, perché tutte le cause di tutte le nature sono nel Dio creatore. Vi è inclusa la morale, perché la vita diviene buona e onesta solo a condizione di amare ciò che bisogna amare e come bisogna amarlo, cioè Dio e il prossimo. Vi è compresa la logica, poiché non vi è verità e luce dell’anima ragionevole all’infuori di Dio solo. Qui infine si trova la società, cioè la fedeltà e una durevole concordia, suppongono l’amore del bene universale, che è il Dio vero e supremo, e l’amore sincero di tutti gli uomini in lui, allorché essi si amano a causa di Lui, al quale non si può dissimulare con quale cuore lo si ama. A quanto sembra, non si farebbe dunque che formulare il pensiero dello stesso Agostino affermando che una dottrina è agostiniana nella misura in cui tende a organizzarsi più compiutamente attorno alla carità.

Situare la Carità al centro della sua dottrina non significava soltanto per Agostino impegnarsi a far predominare nell’uomo l’amore e la grazia, ma adottare. Implicitamente una certa concezione della natura e dei suoi rapporti con il soprannaturale. Il suo atteggiamento su questo punto è più complesso di quanto appaia a tutta prima. L’agostinismo passa talora per una dottrina che attenua l’autonomia della natura fino a negarle praticamente l’esistenza. Questa non era sicuramente l’intenzione di Agostino. La sua esperienza manichea gli aveva fatto comprendere una volta per tutte che la distinzione reale ed esclusiva di ogni confusione tra Dio e la natura implicava, con il riconoscimento del loro essere distinto, l’attribuzione alle creature di una attività propria. Dio non si sostituisce agli esseri che amministra, ma li assiste invece per permettere loro di compiere da se stessi le proprie operazioni. Nessuno mai sarà più fermo di lui su questo punto, ma la difficoltà inizia quando si tratta di definire la natura di questi esseri e delle operazioni che appartengono loro in proprio. Si può procedere da metafisici, delimitando cioè il contenuto delle essenze e deducendo da tali essenze la natura delle loro operazioni: niente impediva ad Agostino di procedere in questo modo, poiché ammetteva l’esistenza di Idee eterne in Dio e la conformità delle cose alle loro Idee; è possibile perfino affermare che Agostino considera sovente l’universo da questo punto di vista, soprattutto quando non si tratta dell’uomo; quando si tratta dell’uomo, invece, due atri punti di vista prevalgono su quello della metafisica e vediamo Agostino procedere nel contempo e da psicologo e da storico. Con questo spostamento di prospettiva, si introduce nel metodo un notevole cambiamento, poiché invece di definire l’uomo come fa il metafisico, secondo quello che deve essere, lo storico e lo psicologo lo descrivono semplicemente come effettivamente è. Di qui l’idea, famigliare ad Agostino, anche se sorprendente per spiriti abituasti ad altri metodi, di una natura che non sarebbe costituita di essenze inviolabili e dove, in certi limiti, le cose potrebbero continuare a essere, pur cessando di essere quelle che sono. 

Per comprendere la ragione di questo fatto, occorre ricordarsi che Agostino doveva riconciliare due prospettive distinte dell’universo: la cosmologia platonica con il mondo immobile delle essenze che la domina, e quella giudeo-cristiana con la storia del mondo e dell’uomo che essa contiene. Agostino passa costantemente da una prospettiva all’altra, piuttosto col sentimento della loro profonda unità che in virtù di una dottrina elaborata esplicitamente per unificarle. Quando si chiede che cos’è l’uomo in generale, Agostino propone definizioni astratte come ogni metafisico può proporne; quando si chiede che cos’è l’uomo concreto così come si offre nell’esperienza psicologica, e in primo luogo lui stesso, Agostino scende dal piano delle idee eterne su quello della storia. È allora che sviluppa quella cosmologia storica, le cui prospettive lo riconducono sempre a definire come Dio si è comunicato alla natura e all’uomo attraverso la creazione; come, poiché l’ordine costituito da questa comunicazione è stato distrutto dal peccato, un’altra natura è succeduta alla prima; a quali condizioni, infine, l’ordine primitivo potrebbe essere restaurato. Nel corso di questa immensa indagine, ricominciata e approfondita senza sosta, la natura che Agostino ha sotto gli occhi e che ha espressamente di mira non è altro che il residuo storico dell’ordine divino corrotto dal peccato. Mentre la natura investigata da s.Tommaso d’Aquino è un’essenza metafisicamente indistruttibile, la cui intrinseca necessità resiste anche alla corruzione del peccato originale, per non lasciarle che le grazie di cui la spoglia e i poteri che sminuisce o perverte, Agostino descrive sotto il termine di natura lo stato di fatto determinato dal peccato e ciò che, in tale stato, autorizza la speranza che l’uomo ne possa uscire. Che, in ultima analisi, questi due atteggiamenti non siano dogmaticamente contraddittori, è per noi assolutamente fuori di dubbio: s.Agostino non esclude s.Tommaso d’Aquino in questo centro di ogni filosofia cristiana, piuttosto lo prepara e lo postula; ma che il piano delle due esposizioni sia il medesimo non si può, a nostro avviso, sostenere. S.Agostino riduce la storia del mondo a quella del peccato e della grazia, perché pensa il dramma cosmico in funzione del dramma che si è svolto nella sua anima; nella descrizione che ci fornisce della natura e dell’uomo, si lascia sempre guidare da una esperienza personale decisiva, quella della propria conversione. 

Ridotto alla sua nuda essenza, che non è di nessuna razza e di nessun tempo, Agostino è l’uomo nella sua volontà di bastare a se stesso e nella sua impotenza di fare a meno di Dio. Se è vero che la sua filosofia è una metafisica dell’esperienza interiore, occorre aggiungere che l’esperienza interiore, di cui la sua metafisica costituisce la formula, si riduce precisamente a quella di tale ambizione e del suo fallimento. Questa è la dottrina e, fondamentalmente, null’altro; ma poiché le forze oscure donde si origina il dramma che essa narra sono implicate in ogni cuore umano, è l’orgoglio e la miseria di ognuno di noi che essa confessa. Di qui la sua individualità e la sua universalità singolari. Metafisica della sua personale conversione, la dottrina di Agostino resta per eccellenza la metafisica della conversione. Si comprende perciò per quale motivo lo psicologo della vita interiore non poteva rafforzare in lui le profonde tendenze del teologo della storia. Ciò di cui aveva un’esperienza vissuta era la radicale insufficienza della natura, ed è proprio da qui che si origina in lui la costante preoccupazione di restringere ai loro limiti di fatto l’ampiezza delle essenze e l’efficacia delle loro operazioni. Esiste quindi un equivoco latente fra gli storici quando disputano se si deve o meno classificare Agostino tra i filosofi qui rebus naturalibus proprias subtrahunt actiones; in linea di massima, egli non ne sottrae loro alcuna, ma, di fatto, restringe considerevolmente la sfera delle azioni che riconosce essere loro possibili. Attento soprattutto a ciò che in realtà manca alla natura per completare il desiderio del divino che Dio stesso ha posto in essa, Agostino non la confonde affatto col soprannaturale, ma sottolinea soprattutto le insufficienze, congenite o acquisite, la cui chiara coscienza soltanto può renderci il senso della nostra impotenza e ravvivare in noi il bisogno salvifico di Dio. Da qui ne viene che tra due soluzioni ugualmente possibili di uno stesso problema, una dottrina agostiniana propenderà spontaneamente verso quella che concede meno alla natura e più a Dio.

Questo è, a nostro avviso, lo spirito dell’agostinismo e l’ispirazione comune che riunisce in una stessa famiglia, dottrine come quelle di s.Anselmo, s.Bonaventura o Malebranche, nonostante le divergenze o anche le opposizioni interne che sarebbe facile rilevare in esse. Contro l’agostinismo così inteso non hanno cessato di fare blocco secolari opposizioni, dando anche testimonianza, a modo loro, della sua unità e originalità. L’obiezione fondamentale che gli viene mossa è di essere in contraddizione con la nozione di filosofia, persino cristiana. Chi dice filosofia dice ricerca puramente razionale, fondata cioè su principi che dipendono dalla sola ragione; come lo abbiamo descritto, invece, l’agostinismo esige che la ragione prenda il proprio punto di partenza nella rivelazione. Nella misura in cui esprime le tendenze profonde della dottrina, il celebre Credo ut intelligam manifesterebbe questa confusione fondamentale, poiché dà per metodo filosofico quello che è il metodo per eccellenza della teologia. È quest’ultima scienza infatti che parte normalmente dai dati della rivelazione per esplorarne il contenuto con l’ausilio della ragione; con ciò stesso, essa accetta coscientemente di situarsi su un piano diverso da quello del filosofo e di non confondere il suo con il proprio lavoro; al contrario, viziata com’è da questa confusione iniziale dei generi, la dottrina di Agostino si è dequalificata una volta per tutte come filosofia; in una parola, la nozione stessa di filosofia agostiniana implicherebbe contraddizione.

Per quanto grande possa essere l’autorità di questi oppositori, potrebbe essere che certe confusioni siano implicate nelle obiezioni da essi sollevate. Anzitutto Agostino non può essere confuso indiscriminatamente con i fautori di una philosophia ancilla theologiae proprio perché, non avendo mai immaginato una filosofia a parte e una teologia a parte, non ha potuto, almeno in questo senso, concepire il progetto di fare dell’una l’ancella dell’altra. Che la filosofia dei greci sia al servizio della sapienza cristiana è del tutto naturale, proprio perché la filosofia greca non è la vera filosofia; ma nella misura in cui, criticandosi, correggendosi ed epurandosi, essa si inserisce più perfettamente nella dottrina salvifica, cessa di esistere a parte e come disciplina distinta per fondersi nell’unità della sapienza cristiana. Ma allora, si dirà, è proprio vero che la filosofia, come tale, non gode di alcuna autonomia nell’agostinismo e che, letteralmente, non esiste!

La conseguenza è infatti necessaria, se si parte da una certa concezione della filosofia come essenza separata, e se si cerca poi quale collocazione una simile filosofia possa trovare nella dottrina di s.Agostino. essa infatti non ne troverebbe alcuna. Quel che conviene cercare non è dove si colloca la filosofia nell’agostinismo, poiché essa è dovunque e in nessun posto. Essa si rifiuta di separarsi dalla rivelazione, e la certezza che ha di collegarvisi le garantisce che essa è la vera filosofia. Eppure ci si sbaglia allorché si immagina che Agostino fondi la verità delle proprie conclusioni filosofiche sul fatto che sarebbero dedotte dalla rivelazione; in realtà, né lui né in alcun agostiniano abbiamo mai incontrato una sola idea la cui verità filosofica fosse dimostrata facendo appello alla fede. Nella dottrina agostiniana rettamente intesa la fede mostra, non dimostra. Una cosa è quindi partire da un dato rivelato, come fa il teologo, per definirlo e dedurne razionalmente il contenuto, altra cosa partire da questo stesso dato rivelato, come fa l’agostiniano quando fa filosofia, per vedere se, e in quale misura, il suo contenuto coincide con quello della ragione. Per il teologo che argomenta, e s.Agostino non si è astenuto dal farlo, la rivelazione fornisce le premesse della prova; per il filosofo cristiano che medita, ciò che s.Agostino voleva talvolta essere, la rivelazione ne propone semplicemente l’oggetto. Quello che caratterizza il metodo agostiniano come tale, è il rifiuto di accecare sistematicamente la ragione chiudendo gli occhi a ciò che la fede mostra, donde l’ideale correlativo di una filosofia cristiana che sia vera filosofia in quanto cristiana perché, pur lasciando a ogni conoscenza il proprio ordine, il filosofo cristiano considera la rivelazione come una fonte di luce per la sua ragione.

Un secondo carattere in forza del quale lo spirito della filosofia agostiniana si distingue in modo specifico da ogni altro, è il rifiuto costante di astrarre la speculazione dall’azione. Non che si possa parlare di un primato qualunque dell’azione nell’agostinismo; al contrario, abbiamo visto come s.Agostino subordini espressamente l’azione alla contemplazione. Quel che è vero è in primo luogo che, poiché l’uomo nella sua totalità deve partecipare alla beatitudine, è tutto l’uomo che deve perseguirne la ricerca. Tutto l’agostinismo è una ascensione verso Dio e felici sono coloro che si elevano verso Lui con la parola e con i pensieri, ma beati coloro la cui vita e i cui atti stessi cantano il Cantico delle Ascensioni: beati ergo qui factis et moribus cantant canticum graduum. Ora la caratteristica dell’agostinismo su questo punto è proprio il fatto che esso rifiuta il titolo di vera filosofia a ogni dottrina che, mostrandoci quel che bisogna fare, non ce ne conferisce la forza. Solo la sapienza cristiana merita perciò il nome di filosofia, perché essa sola permette alle visioni della contemplazione di tradursi concretamente in azioni. Ecco perché, per quanto numerose siano le fonti plotiniane o platoniche dell’agostinismo, rimarrà sempre per s.Agostino una differenza fondamentale e una distanza insuperabile fra la sua dottrina e quella dei filosofi greci a cui si ispira. Plotino vede la verità e la desidera; Porfirio sa che il compito del filosofo è la liberazione dell’anima e vi tende con tutte le forze, ma né l’uno né l’altro conoscono l’unica via che conduce al fine: Gesù Cristo, modello e fonte dell’umiltà. Questa scienza impotente merita la qualifica di filosofia? S.Agostino lo nega, poiché è contraddittorio qualificare come sapienza sistemi incapaci di far ottenere quello che la sapienza ha precisamente per oggetto di conferirci. Teso totalmente verso il possesso della beatitudine, l’agostinismo riconosce come vera filosofia soltanto quella che, non paga di mostrarci il fine, conferisce anche i mezzi per pervenirvi.

Se tali sono davvero i caratteri che ne definiscono lo spirito, possiamo affermare che là dove fanno difetto, non esiste più vero agostinismo. Eppure, se ci si attiene al punto di vista del metafisico qual è il nostro, non si può equamente limitare l’influsso agostiniano alle dottrine che ne subiscono o ne perpetuano lo spirito. È un fatto costante nella storia della filosofia: i grandi pensatori mettono in circolazione metodi e tesi di cui vien fatto poi un uso contrario alle intenzioni dei loro autori. La dottrina di s.Agostino non è sfuggita a questa legge. Benché l’insieme delle tesi filosofiche che costituiscono la sua dottrina dipenda rigorosamente dallo spirito che le ispira, esse potevano nondimeno distaccarsene per entrare a titolo di parti componenti in dottrine di spirito diverso; conviene quindi definire le idee principali che, anche quando non si pongono più al servizio della sua intuizione religiosa iniziale, attestano ancora, lì dove si trovano, l’influsso di s.Agostino.

Preoccupato soprattutto di far sentire alla creatura i limiti della sua efficacia per farle operare più sicuramente il moto di conversione che la volgerà a Dio, l’agostinismo trae la propria eredità in primo luogo dalla critica platonica del sensibile che corrisponde, nell’ordine filosofico, alla condanna della carne nell’ordine religioso. Per meglio stabilire questo primato dello spirito sulla materia, s.Agostino fa del resto appello a tutto ciò che, nella tradizione filosofica, poteva essere invocato a favore di una trascendenza radicale dell’anima nei confronti del corpo. Tesi metafisica certamente, ma il moralismo agostiniano postula, poiché tutta la dottrina tende verso il sommo Bene e poiché, trovandosi questi al termine della linea dei più grandi beni, è per noi vitale sapere che i beni più grandi sono dell’ordine dello spirito. Di qui deriva tutta una serie di tesi strettamente concatenate, che di rado si dissoceranno nel corso della storia, ma il cui necessario legame in nessun’altra parte apparirà con maggiore evidenza che nelle dottrine di Descartes e di Malebranche.

Poiché, infatti, l’anima trascende radicalmente il corpo, gli è necessariamente impermeabile. È questo quanto abbiamo proposto di chiamare il principio di interiorità del pensiero, poiché il fatto che nulla penetra al di fuori dell’anima agostiniana, impone da solo tutta una serie di conseguenze. In primo luogo, poiché tutto viene all’anima dal di dentro, niente può esserle conferito anteriormente a essa; l’anima quindi è il primo oggetto di se stessa. Nel contempo, poiché nulla allora separa il soggetto pensante dall’oggetto pensato, l’anima agostiniana trova nell’atto con cui si coglie immediatamente una certezza invincibile, garanzia della possibilità di una certezza in generale; un primo carattere dell’agostinismo metafisico è dunque questo: l’evidenza con cui l’anima coglie se stessa è la prima di tutte le evidenze e il criterio della verità.

Quando si prende alla lettera una conseguenza del genere, essa ne genera subito altre due. Poiché nulla penetra nell’anima dal di fuori e nulla si interpone tra il pensiero e il pensiero, occorre necessariamente che anche la sensazione le venga dal di dentro; Descartes si esprimerà perciò da autentico agostiniano quando affermerà che in un certo senso tutte le nostre conoscenze e le stesse sensazioni, sono innate. D’altra parte non si può ammettere questa tesi senza sostenere, nel contempo, che ogni sensazione attesta molto più immediatamente l’esistenza dell’anima che la produce, che l’esistenza del corpo, in occasione della quale essa la produce. Donde questo secondo carattere di ogni agostinismo metafisico: l’anima vi è più nota del corpo.

Non è tutto; se tutto viene all’anima dal di dentro, occorre necessariamente che le idee delle realtà non corporee diverse da essa le siano conferite allo stesso modo. Ora, tra queste idee, ve ne sono un certo numero che non si spiegano facilmente se ne cerchiamo l’origine esclusivamente nell’anima, e ve n0è una, in particolare, di cui non possiamo trovare la ragione sufficiente né nelle cose né nel pensiero stesso che la concepisce: è quella di Dio, che si confonde nella fattispecie con quella della Verità. Una filosofia del genere si obbliga quindi in anticipo a non attingere Dio se non passando dal di dentro, ma lungi dal trovare in questo obbligo una qualsiasi coercizione, vi vede invece un invito a seguire la via più breve e più semplice. Perché l’anima, la cui natura è spirituale come quella di Dio stesso, dovrebbe cercare di raggiungerlo passando per i corpi, la cui materialità separa da lui? Propinquior certe nobis est qui fecit, quam illa quae facta sunt; in ogni metafisica agostiniana, la via che conduce a Dio passa necessariamente attraverso il pensiero, perché Dio ci è più noto del corpo.

Così definito nel suo spirito e nelle sue tesi principali, l’agostinismo ha già percorso un cammino di quindici secoli e nulla autorizza a prevederne la fine. Leggendo le opere dove questa dottrina viene espressa è assai difficile, per non dire impossibile, non avvertirne la possente vitalità. D’altro canto è un fatto che gli esperti che la praticano rimpiangono spesso il carattere incompiuto della maggior parte delle tesi principali che la costituiscono. Con un po’ di pratica ulteriore, questi filosofi arriverebbero forse a rendersi conto di trovarsi di fronte a un carattere specifico della dottrina, essendole questa incompiutezza non meno essenziale del metodo disgressivo che le viene rimproverato. Quello che cerchiamo spontaneamente in questi scritti è un sistema, cioè un sistema di verità bell’e fatte, concatenate in un ordine che ci aiuti a capirle e a ricordarle; quello che ci forniscono è un metodo, vale a dire l’ordine che conviene seguire in una lunga serie di sforzi che è nostro compito compiere. Finché si tratta questo metodo come un sistema, esso appare lacunoso e insufficiente per molti versi; non un’idea che vi sia definita con un rigore metafisico compiuto, nessun termine tecnico che conservi da un capo all’altro un significato costante, per ogni dove suggestioni, abbozzi, tentativi ripresi incessantemente e presto abbandonati per essere ripresi nel momento in cui si poteva credere che il loro stesso autore non vi pensasse più. Se si tenta invece di applicare questo metodo al problema del destino umano , di cui cerca la soluzione, tutto allora cambia aspetto, tutto si fa chiaro; le lacune dell’opera divengono altrettanti campi riservati al libero gioco della nostra ascesi interiore; comprendiamo, infine, che spetta a noi soltanto colmarle.

Per poco che vi si rifletta, nulla è in più perfetta armonia di questo atteggiamento con le condizioni fondamentali assegnate da s.Agostino a ogni insegnamento filosofico e a ogni ricerca. A nostro avviso egli tace troppo presto, ma lo fa per lasciarci la parola, poiché ha dimostrato che nulla passa da uno spirito in un altro spirito. Non si impara mai nulla. Ciascuno vede la verità comune a tutti solo in quanto diventa la verità del proprio pensiero. Perché il difensore di una simile dottrina dovrebbe preoccuparsi di ordinare e sviluppare le proprie tesi, come se la loro spiegazione e i commenti estensibili all’indefinito cui si accompagnano potessero supplire allo sforzo personale di coloro che le leggono? Tutto quello che può fare è porli sulla via della ricerca, mostrare loro quale atteggiamento devono adottare per scoprire, nella luce divina, le verità che nessuno può vedere né a loro vantaggio né al loro posto. Ma c’è di più. Se è vero che non mi è possibile vedere la verità se non col mio pensiero, lo è ancora assai di più che nessuno può godere in vece mia della mia beatitudine. Ora, in che consiste la sapienza – di cui la filosofia è lo studio – se non propriamente nel possedere la beatitudine? Credere che si possa conferire la felicità insegnandola, significa credere che si possa dare la ricchezza descrivendo l’arte di acquisirla; parimenti e per la stessa ragione, la filosofia non è la scienza di ciò che bisogna fare, quanto piuttosto il potere, e nessuno lo consegue se non chiedendolo con l’umiltà, ricevendolo dalla grazia ed esercitandolo con lo sforzo costantemente rinnovato di una volontà resa libera da questa grazia. Soltanto a queste condizioni, andando oltre una sterile scienza del bene per entrare nel suo godimento e possesso, l’uomo attinge l’atto della beatitudine.

Ma è anche perché, proprio quando raggiungendo il suo termine si rende pienamente consapevole del compito intrapreso, ogni induzione allo studio di s.Agostino si avverte inutile, perché far comprendere Agostino significa non aver fatto nulla e farlo imitare non dipende dall’uomo.

Tratto da:

E. GILSON «INTRODUZIONE ALLO STUDIO DI S.AGOSTINO» Conclusione.

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