di Louis Lavelle

1 – Polifonia della coscienza

Il dramma della coscienza è che, per formarsi, deve spezzare l’unità dell’io.

In un secondo momento si esaurisce per riconquistarla, ma non potrebbe riuscirsi senza annullarsi.

La coscienza, un dialogo con gli altri e con il mondo, comincia dunque con l’essere un dialogo con se stessa. Per vedere ci servono due occhi, per sentire due orecchie, come se non potessimo percepire qualcosa che attraverso una combinazione di due immagini simili e tuttavia distinte. Ancora: né la vista, né l’udito vengono mai adoperate da sole, ma in riferimento l’una con l’altra oppure con qualche altro senso che risvegliano e che le completa. Così si forma una sorta di polifonia in cui tutte le voci dell’anima rispondono a tutte le voci della natura.

C’è di più: la percezione non è mai sola; suscita sempre un’idea, un ricordo, un’emozione, un’intenzione che, a loro volta, si ripercuotono su di essa e instillano in noi nuovi dialoghi tra presente e passato, tra passato e futuro, tra universo e spirito, tra ciò che sentiamo e ciò che vogliamo. Infine la coscienza crea sempre uno spazio tra ciò che siamo e ciò che abbiamo, tra ciò che abbiamo e ciò che desideriamo: cerca sempre di colmare questo spazio senza mai riuscirci. Quando interrogo la mia sincerità, il suo oggetto è troppo mobile perché mi possa mai soddisfare; troppo complesso perché essa possa esprimerlo senza alterarlo e mutilarlo.

La difficoltà di essere sinceri è la difficoltà di essere presenti a ciò che si dice, a ciò che si fa, con la totalità di se stessi, che sempre si divide e di cui non si mostrano che certi aspetti, dei quali nessuno è vero. Ma la coscienza più onesta, nel momento in cui opta per una certa direzione, non dimentica affatto gli altri: non li respinge nel nulla e, pur senza consumarsi in sterili rimpianti per loro, vorrebbe ancora introdurne, nella direzione stessa che sceglie, l’essenza positiva e il sapore originale.

La logica e la morale ci hanno abituati a pensare e ad agire per alternative, come se bisognasse sempre dire o sì o no, e non esistesse mai una terza possibilità. Ma questo metodo non conviene che ad anime un po’ rigide e che non sanno che la terza possibilità non è tra il sì e il no, ma consiste in un sì più elevato che compone sempre l’uno con l’altro il sì e il no dell’alternativa.

2 – Cinismo

Ciascuno di noi è per se stesso oggetto di scandalo quando pensa, in questo cinico paragone che mette in atto tra ciò che è e ciò che mostra, che non c’è uomo al mondo a cui oserebbe svelare tutti i sentimenti che attraversano la sua coscienza come un fuggevole bagliore. Gli sembra perfino che non potrebbe riguardarli troppo da vicino senza arrossire.

Il fatto è che in ogni uomo c’è tutto l’uomo, con i suoi aspetti migliori e peggiori. Ma la vera sincerità non è considerare come cose reali, e già definitivamente nostre, tutti questi oscuri impulsi, queste incerte velleità e indecise tentazioni che sono abbozzate in ciascuno di noi, prima ancora che ci siamo induriti in esse e data a loro qualche consistenza; si tratta di attraversarle per discendere fino in fondo di noi stessi, per cercarvi ciò che vogliamo essere. Ed esiste un’apparente sincerità, che scopre con terrore ciò che crediamo di essere e che è solo ciò che potremmo divenire se la nostra vigilanza venisse a interrompersi all’improvviso. 

Il fatto è che la coscienza ha in sé l’ambiguità delle possibilità: è il principio di ogni scoraggiamento e di ogni scacco se si cerca in essa una realtà preformata e non i potere stesso che la forma. Essere sinceri non significa dunque accontentarsi di esprimere tutti i propri sentimenti nascenti e dare loro corpo con la parola, prima ancora di aver compiuto l’atto interiore che solo può renderli nostri. È importante giudicarci solo sul consenso che accordiamo loro. Così la sincerità prende spesso l’apparenza di una conversione in cui, riconoscendo che la nostra vita è cattiva, cominciamo già a indicare che è buona. Ciò spiega il perché, come abbiamo detto, chi fa una confessione che lo cambia supera la vergogna della confessione. Se la luce con la quale avviluppiamo il nostro passato, purificandolo, lo riconcilia con noi, è perché essa obbliga l’azione stessa che abbiamo compiuto a evocare una potenza di cui vogliamo fare ormai un uso migliore.

E non bisogna stupirsi che l’uomo per il quale proviamo l’interesse più vivo e appassionato sia non colui che è libero da ogni vizio, ma colui che, sempre continuando a sentirne il pungolo, affina per mezzo di esso tutta la sua vita spirituale.

3 – Il commediante di se stesso

È l’uomo più ricco di spirito che più facilmente rischia di diventare il commediante di se stesso. Non si accontenta mai di ciò che trova in sé. Non smette di alterarlo ripensandolo. Il suo vero essere è sempre per lui al di qua o al di là del suo essere presente; non arriva mai a distinguere ciò che immagina da ciò che sente. Trova in se stesso mille personaggi. Concepisce mille possibilità che superano largamente la realtà così come gli è data. Ha bisogno di uno sforzo per volgersi a essa, fissarvi il suo sguardo e stringerla più da vicino, mentre spesso basterebbe un po’ di semplicità e di amore per arrivarci senza averlo voluto.

Il fatto è che, quando guardo me stesso, un altro è là, spettatore al quale mi mostro, ed è sempre simile a uno spettatore estraneo rispetto a cui io non posso che apparire: non sono più un essere, ma una cosa, un’apparenza che compongo.

Il dialogo di Narciso non può sussistere senza una duplicità: essere duplice è la coscienza stessa. E questa distanza tra ciò che sono e ciò che mostro è il prodotto della riflessione e dello sforzo che compio per essere sincero. Così non ho mai l’impressione di riuscirci. E la sincerità è sempre un problema, e nessuno può giudicare né quella altrui né la propria.

4 – Impossibilità di ingannare

Nel rapporto degli uomini tra loro si forma un essere apparente che sempre si sostituisce all’essere reale. Ciò sottintende un’abdicazione da sé e un’umiliazione di sé che non si sottolineano abbastanza perché un’indegno sotterfugio le maschera; ché il nostro essere reale vuole ancora avvantaggiarsi dell’opinione in cui è tenuto il nostro essere apparente.

Ma posso veramente sperare che si prenda l’apparenza che mostro per la realtà che sono? In ogni mia parola, in ogni mio gesto, si osserva sia un segno di amor proprio, che non inganna nessuno anche se si può lasciarlo credere, sia una confessione attesa, spiata, e pertanto quasi inutile, di cui alcuni si impadroniscono per soccorrermi, altri per schiacciarmi.

Dissimulare è più difficile di quanto non si pensi. Il corpo, la voce, lo sguardo, il viso non sono solo testimoni, ma l’essere stesso, e per un osservatore abbastanza accorto tradiscono l’intenzione più segreta. Anche quella di non far trapelare nulla, come accade nella leggenda di quella ragazza nordica che non mentiva mai per la paura che la pietra del suo anello cambiasse colore. Ed è ciò che accade al viso più sicuro e impudente. E se il viso restasse lo stesso, lo sguardo, che è più acuto, ne sarebbe alterato, oppure sarebbe alterata quell’armonia quasi impercettibile che dà all’essere il suo processo più naturale.

Si fa un gran parlare del rifiuto o del pudore di confidarsi. Ma c’è un’uguale incapacità di farlo e di non farlo. Perché la sincerità è ambigua, e si può dire che niente è più difficile che mostrarsi e nascondersi. Spesso non c’è niente di più difficile che mostrare a un altro proprio la cosa che cerco di scoprirgli. La sincerità che posso raggiungere dipende sia da lui che da me. Ed esiste, oltre alla sincerità volontaria, una sincerità possibile che l’amicizia misura e mette alla prova. 

Inversamente, anche il dissimulare comporta la reciproca complicità di due esseri che sono di fronte, che accettano l’uno e l’altro di accordare più realtà a ciò che mostrano che a ciò. che nascondono, e che rifiutano ambedue di confessare a se stessi di non avere sguardi che per questa realtà che vogliono nascondere, ma che in un modo o nell’altro si vede sempre, così come l’atto che la nasconde. 

Accade che ciascuno inganni se stesso prima di ingannare gli altri. Si lascia convincere dal suo amor proprio prima di cercare di convincere gli altri. Egli è il suo primo testimone, e misura su di sé il successo che potrà ottenere sugli altri. Ma quando fallisce, non di meno continua nella stessa disperata impresa. Perché gli uomini vivono di comune accordo in un mondo di apparenze e di finzione: è in esso che risuonano le parole, benché la verità tutt’intera sia davanti a loro e sia in essa che affondano i loro sguardi. La coscienza di questa stonatura può persino dar loro un segreto godimento.

5 – L’anello di Gige

Com’è possibile, ci si chiederà, non essere sinceri se ciò che sono coincide con ciò che faccio, più ancora con ciò che penso? E se non c’è scarto tra ciò che faccio e ciò che mostro, che scarto potrà esserci tra ciò che mostro e ciò che sono?

Lasciamo da parte quell’insincerità che non è altro che volontà di trarre in inganno: elude l’altro solo se non è abbastanza perspicace, ma non inganna mai se stesso. Non è che un mezzo provvisorio del quale mi servo per ottenere un certo effetto; ma la volontà di produrlo imprime in me un segno dal quale non mi separo più.

Gli uomini sanno bene che non possono nascondere nulla di ciò che sono. E se disponessero dell’anello di Gige, tutti ne pretenderebbero il potere di riuscirci. Nasconde infatti il nostro corpo in modo tale che ci consente di realizzare, nel mondo delle cose visibili, un effetto la cui causa resta invisibile e non appartiene più a questo mondo; e questo senza dubbio è un primo miracolo. Ma il miracolo non sarebbe completo se l’anello, rendendoci invisibili agli altri, non ci rendesse nello stesso tempo perfettamente interiori e perfettamente trasparenti a noi stessi, se del mito di Narciso alla fonte non facesse una realtà.

Fortunatamente l’anello non ci è dato. Costituirebbe la nostra prova suprema. L’angoscia dell’esistenza, il segreto della responsabilità risiedono precisamente nel punto in cui noi mutiamo in un’azione che tutti possono vedere e che traccia nel mondo il suo segno indelebile, una possibilità che prima non esisteva se non per noi soli. Ma dal momento che noi non possediamo l’anello, la maggior parte degli uomini si sfinisce nelle proprie parole, nel proprio silenzio e nelle opere che compie, al fine di produrre un’immagine di se stessi conforme non a ciò che sono, e nemmeno a ciò che vorrebbero essere, ma a ciò che aspirano che si creda siano.

6 – Sim ut sum aut non sim

Il compito più sublime, la difficoltà più ingegnosa, la responsabilità più grave è di essere tutto ciò che si è, di assumerne tutto il peso e le conseguenze. La sincerità mi libera dal giogo dandomi il coraggio. La menzogna mi rende prigioniero.

La caratteristica della coscienza è di obbligarmi di prendere possesso di me stesso. E questa presa di possesso assomiglia a una creazione in quanto consiste nel realizzare un essere possibile, la cui predisposizione mi è per così dire affidata. Ma restare nello stato del possibile non è essere. Potrei anche non essere, non accettare questa esistenza che mi è continuamente offerta. Ma non posso diventare altro da quello che sono. È contraddittorio che possa diventare un altro senza che sia io stesso annullato. La menzogna è il rifiuto da parte dell’io del suo stesso essere.

Essere ciò che si è: senza dubbio non c’è niente di più difficile per l’uomo che ha cominciato a pensare, riflettere, compiere la sottile distinzione fra la sua natura e la sua libertà. Seguirà la sua natura solo nel momento in cui la giudica, se ne lamenta, o talvolta la condanna? Oppure avrà fiducia nel proprio potere di giudicare e nella libertà di agire, come se non avesse più natura? Ma la natura non permette che la si dimentichi: non basta disprezzarla per ridurla al silenzio. È lei a mettere a nostra disposizione tutte le nostre forze; la sincerità le discerne e le mette all’opera.

Essere sinceri significa scendere in fondo a noi stessi per scoprirvi i doni che ci appartengono, ma che non sono nulla se non per l’uso che ne facciamo. Significa rifiutare di lasciarli in disuso. Significa impedire che giacciano sepolti in fondo a noi stessi nelle tenebre delle possibilità. Significa fare in modo che si manifestino alla luce del giorno e accrescano agli occhi di tutti la ricchezza del mondo, che siano come una rivelazione che non smette di arricchirlo. La sincerità è l’atto attraverso il quale ciascuno a un tempo si conosce e si compie. È l’atto mediante il quale ciascuno rende testimonianza di se stesso e accetta di contribuire, a seconda delle proprie forze, all’opera della creazione.

7 – Scoprire ciò che sono

Nei riguardi altrui la sincerità è uno sforzo per annullare qualsiasi differenza tra il nostro essere reale e il nostro essere manifesto; ma la vera sincerità è quella che riguarda se stessi: consiste non tanto nel mostrare ciò che si è, ma nello scoprirlo. Esige che al di là di tutti i piani superficiali della coscienza, in cui non facciamo che provare degli stati, penetriamo sino a quella misteriosa regione in cui scaturiscono quei desideri profondi e leciti che danno a tutta la nostra vita il suo punto di collegamento con l’assoluto. Infatti lo sguardo che volgiamo verso noi stessi produce in noi gli effetti migliori o peggiori a seconda dell’oggetto verso il quale si dirige e l’intenzione che lo guida. O non considera che i nostri stati, verso i quali mostra sempre un’eccessiva compiacenza, o risale fino alla loro origine, e ci libera dalla loro schiavitù.

La caratteristica della sincerità è di obbligarmi di essere me stesso, cioè a diventare io stesso ciò che sono. È una ricerca della mia propria essenza, che cominci ad alterarsi nel momento in cui attribuisco all’esterno i motivi del mio agire. Infatti tale essenza non è mai un oggetto che contemplo ma un’opera che realizzo, la messa in gioco di alcune potenze che sono in me e che appassiscono se smetto di esercitarle.

La sincerità è dunque un atto indivisibile di entrata in sé e di uscita da sé, una ricerca che è già una scoperta, un impegno che è già un superamento, un’aspettativa che è già un appello, un’apertura che è già un atto di fede nei confronti di una rivelazione sempre latente e sempre prossima a sorgere. È il legame tra ciò che sono e ciò che voglio essere.

Si può dire che è una virtù del cuore e non dell’intelligenza. “Dove è il vostro cuore, lì è il vostro vero tesoro”. Basta ciò a spiegare perché la sincerità comporta sempre una ricchezza infinitamente maggiore di quella delle più brillanti menzogne.

8 – Trapassare il cuore con una spada

Bisogna trapassare il cuore con una spada, dice Luca, per scoprirne i più profondi pensieri. Ma solo l’innocenza vi riesce. Si sbaglia quando si dice che non vede il male: lacera tutti i veli dell’amor proprio, mette a nudo tutto il nostro essere. E così è per la virtù che, come dice Platone, conosce il vizio e la virtù, mentre il vizio non conosce che il vizio.

La sincerità consiste in una certa serena audacia con la quale si osa entrare nell’esistenza, così come si è. Ma un duplice timore la trattiene quasi sempre: quello del potere stesso di cui si dispone e dell’opinione alla quale ci si espone. È il passaggio dal mondo segreto al mondo manifestato che dà luogo alla nostra perplessità. 

Ma non occorre occuparsi troppo delle apparenze. Se interiormente sono ciò che debbo essere, lo sarò anche esteriormente. Ciò richiede, è vero, una spoliazione di cui non sempre ne sono capace. Non sempre ricevo abbastanza luce. Non sempre sono abbastanza presente a me stesso. Non sempre sono pronto a parlare, agire. Spesso è necessario che sappia attendere. E la sincerità richiede molto riserbo e molto silenzio. 

La sola considerazione del giudizio altrui paralizza tutti i nostri movimenti: ci rende vergognosi anche di ciò che costituisce la nostra superiorità, se viene contestata o non riconosciuta. Ma, nella solitudine, bisogna agire come se si fosse visti dal mondo intero, e, quando si è visti dal mondo intero, bisogna agire come se si fosse soli. Anzi: la vanità stessa, se fosse abbastanza grande, non potrebbe più accontentarsi dell’apparenza, che quasi sempre basta ad alimentarla: dovrebbe annientare se stessa nell’infinità della propria esigenza, e non trovare altra soddisfazione che quella che soltanto una perfetta sincerità potrebbe darle. Una vanità ancora debole e povera può accettare che l’apparenza vada al di là dell’essere; ma insito in lei il superarsi senza posa e di mutarsi nel suo contrario, vale a dire di rifiutare che l’essere possa mai essere diverso dall’apparenza.

Ci sono due tipi di uomini: quelli che non danno ascolto che all’amor proprio e non pensano altro che all’immagine che danno di sé, e quelli che non sospettano che una tale immagine esista, né che possa differire da ciò che sono.

9 – Al di là di me stesso

La sincerità obbliga a tacere tutto ciò che in me non appartiene che in me, ma a scoprire tutto ciò che in me assomiglia a una rivelazione della quale sono l’interprete. Di modo che non può parlare che delle cose che sono in me, ma sempre come se fossero mie. Esprime contemporaneamente ciò che abbiamo di più interiore e di più estraneo a noi stessi, la verità di cui portiamo il peso.

Voi dite:”Sono sincero”, e credete di salvare il valore di ciò che dite o fate. Ma cosa m’importa della vostra sincerità se è sincerità da niente, se non mi confida di voi che i movimenti del vostro amor proprio e le tristi testimonianze della vostra debolezza e miseria? Questa sincerità la proponete sia come scusa, sia come vanto. “Ecco ciò che sono, non vi inganno su di me. E questo essere che vi mostro ha come voi il suo posto nel mondo, e lo rischiara lo stesso sole con la stessa luce”.

Ora questa sincerità a cui aspirate non è, molto spesso, che una falsa sincerità che non interessa né voi né alcuno: non ha alcuna eco in me se mi mostra soltanto un fatto sul quale né voi né io abbiamo alcuna presa. La sincerità che mi aspetto, la sola di cui abbia bisogno, che mi renda attento, per voi e per me, a un destino che è personale e pertanto comune, è quella per cui vedo il vostro essere non tanto descrivere se stesso come una cosa, quanto cercare se stesso, affermarsi, impegnarsi,  tentare di penetrare fino a quell’essenza stessa del reale nella quale siamo radicati entrambi, per riconoscervi i segni stessi di ciò che gli viene chiesto, di un compito che deve attuare e al quale comincia a porre mano.

10 – Verità e sincerità

Si crede comunemente che non ci sia nulla al mondo di più facile che essere sinceri, e basti per riuscirvi non alterare, per quanto impercettibilmente, la realtà tale e quale ci è data. Mentire, simulare significa intervenire, far agire la propria volontà, sostituire all’essere un’immagine con la quale non coincide più. Essere sinceri non significa accontentarsi di lasciare le cose come sono? Ma il problema è più difficile. Dal momento in cui comincio a parlare e ad agire, in cui il mio sguardo si apre alla luce, accresco il reale e lo modifico. Ma questa modificazione è la creazione stessa dello spettacolo senza il quale il reale non sarebbe nulla per me. È quando guardo il mondo che esso nasce davanti a me, come uno spettacolo reso ondulato dalla prospettiva e dagli infiniti giochi di ombra e di luce. Tuttavia nessuno ammette che il reale sia creato da me nell’atto stesso in cui lo colgo; possiede certi aspetti che mi s’impongono mio malgrado e sui quali chiamo a testimoniare gli altri uomini. Giungo così a distinguere la verità dall’errore.

Ma la sincerità non è la verità. Così l’arte del pittore traduce con maggiore o minore sincerità la visione personale che ha dell’universo. E di quest’ultima soltanto si può dire che sia vera. Tuttavia nessuno accetterà che essere sincero significhi riprodurre, così com’è, la mia personale visione delle cose, mentre essere veri significherebbe riprodurre, in questa stessa visione, le cose tali quali sono. Infatti è nella qualità di questa visione che risiede la mia sincerità. È lo sforzo stesso che faccio per renderla sempre più delicata, penetrante e profonda.

La verità richiede una luce che avvolga tutto ciò che è, che mi illumini a condizione che apra gli occhi. Si può ben dire che la sincerità è nulla più che il semplice assenso alla luce, a condizione però di aggiungere che la verità di cui qui si tratta è la verità stessa di ciò che sono, e che non mi basta contemplarla, ma si tratta innanzi tutto di crearla.

Si considera quasi sempre la verità come coincidenza di pensiero e realtà. Ma come sarebbe possibile tale coincidenza nel momento in cui il reale è altro da me? Al contrario, se la sincerità è la coincidenza di noi con noi stessi, ci si domanderà come è possibile non possederla. Ma l’amor proprio vi riesce. La caratteristica della sincerità è di vincerlo. E si può dire che, in opposizione alla verità che cerca di conformare l’atto della mia coscienza allo spettacolo delle cose, la sincerità cerca di conformare all’atto della mia coscienza lo spettacolo che mostro. 

Sembra dunque che essa sola possa superare quella dualità di soggetto e oggetto di cui i filosofi hanno fatto la legge suprema di ogni conoscenza. Se Narciso si è perso è perché ha voluto introdurla nel suo cuore. Ha creduto di poter vedere se stesso e di godere di sé prima di agire e formarsi. Non ha avuto il coraggio di quell’incomparabile impresa nella quale l’azione precede l’essere e lo determina, di quel procedimento creatore di cui i matematici già ci offrono un modello nella conoscenza pura, e di cui la sincerità interiore ci offre una drammatica applicazione.

11 – La sincerità agente

Essere sinceri significa mostrarsi, ma formandosi. Non si tratta di parlare bensì di agire. Si tende sempre a dare alla parola sincerità un senso meno pieno e forte: consiste allora nel parlare di sé ricorrendo alla verità. Ma come parlare in maniera veritiera di un essere che non è mai compiuto, e al quale ogni parola, ogni azione aggiunge qualcosa di ciò che è? Come parlare di sé con sincerità senza un fremito, senza un rossore che altera sia la verità sia se stessi?

Ma la sincerità deve raggiungere, al di là di ogni parola, un’intimità invisibile che le parole rischiano sempre di tradire. Non ne delineano che l’ombra. La sincerità non compare se non quando l’intimità comincia a incarnarsi, vale a dire negli atti che determinano il nostro stesso essere e ne impegnano la sorte.

Il fatto è che la sincerità non consiste nel riprodurre in un ritratto somigliante una realtà preesistente. È essa stessa creatrice. È una virtù dell’azione e non solo dell’espressione. Il nostro io non è nulla più che un fascio di virtualità: sta a noi il realizzarle. È in una realizzazione che risiede la vera sincerità. E si comprende molto bene che si possa mancarla, sia per pigrizia sia per timore, sia perché si trova più facile o più utile cedere all’opinione e rinunciare a se stessi, seguendo la china in cui ci trascina l’ambiente.

La sincerità non distingue l’atto mediante il quale ci si trova dall’atto con il quale ci si forma. È al tempo stesso l’attenzione che risveglia le nostre forze e il coraggio che dà loro un corpo, senza il quale esse non sarebbero nulla. La forza è il richiamo che è in noi; il coraggio la risposta che gli diamo. La sincerità non si accontenta, come si pensa, di scrutare con spietata lucidità le più nascoste intenzioni: obbliga l’essere segreto a varcare le proprie frontiere, a prendere posto nel mondo e ad apparire per ciò che è.  

12 – Il ritorno alla sorgente

Dal momento in cui comincio ad agire, la mia vita è chiusa in una situazione: porta il peso del proprio passato. Mille forze cominciano a trascinarla: è un movimento nel quale mi trovo preso e di cui non so se lo subisco o lo creo. Ma la sincerità ricusa tutte queste sollecitazioni che mi incalzano, mi obbliga ad arrivare fino al cuore di me stesso. È sempre un ritorno alla sorgente. Fa di me un essere che nasce perpetuamente.

Ci libera da ogni preoccupazione per l’opinione o per l’effetto. Ci riconduce all’origine di noi stessi e ci disvela ai nostri stessi occhi così come siamo usciti dalle mani del creatore, nel primo zampillo di vita, prima che le apparenze esteriori ci seducano e prima che inventiamo qualsiasi artificio.

Ci mostra tali quali siamo, e non in un ritratto che sarebbe ancora esterno a noi stessi. Non ha bisogno né di assicurazioni né di giuramenti. È quella perfetta chiarezza dello sguardo che non lascia spazio a nessuna ombra tra voi e me, né all’ombra di un ricordo, né di un desiderio; è quella perfetta dirittura del volere che non lascia spazio tra noi a nessun pretesto, a nessun sotterfugio, a nessun secondo fine.

È infine una perfetta nobiltà interiore. Perché l’uomo sincero chiede di vivere sotto un cielo libero. È il solo ad avere abbastanza fierezza per non celare nulla di se stesso, per non aspettarsi nient’altro che verità, per non accontentarsi di apparire, per stabilirsi tanto strettamente nell’essere al punto che per lui non si distingue più dall’apparire.

13 – Sotto lo sguardo di Dio

La sincerità è l’atto grazie al quale pongo me stesso sotto lo sguardo di Dio. Altrimenti non esiste affatto la sincerità. Poiché solo per Dio non esiste alcuna apparenza, alcuno spettacolo. Egli stesso è la presenza pura di tutto ciò che è. Quando mi giro verso di Lui non c’è più niente che conti in me all’infuori di ciò che sono. 

Perché Dio non è soltanto l’occhio sempre aperto a cui non posso nascondere nulla di ciò che so di me stesso, ma è quella luce che squarcia tutte le tenebre e che mi rivela tale quale sono, senza che sapessi di esserlo. Questo amor proprio che mi nascondeva a me stesso è un vestito che cade all’istante: mi avvolge un altro amore che rende trasparente la mia stessa anima.

Per tutto il tempo che la vita è in noi conserviamo ancora la speranza di cambiare ciò che siamo, oppure di nasconderlo. Ma dal momento in cui la nostra vita è minacciata o prossima alla fine conta solo ciò che siamo. Non si è perfettamente sinceri che di fronte alla morte, perché la morte è irrevocabile e dà alla nostra esistenza, cui pone termine, il carattere stesso dell’assoluto. È ciò che esprimiamo immaginando un giudice al quale nulla sfugge e che, all’indomani della nostra morte, scorge la verità della nostra anima fin dentro i suoi più remoti nascondigli. E cosa significa questo sguardo se non l’impossibilità di non aggiungere nulla a ciò che abbiamo fatto, di evadere da noi stessi in un nuovo futuro, di distinguere ancora dal nostro essere reale il nostro essere manifestato e, nel momento stesso in cui la volontà diviene impotente, l’impossibilità di abbracciare in un atto di pura contemplazione quest’essere ora compiuto, e che fino a quel momento non era che un abbozzo sempre sottoposto a qualche ritocco?

Non è abbastanza sincero evocare Dio come testimone: bisogna anche invocarlo come modello. Perché la sincerità non è soltanto vedere se stessi nella sua luce, ma realizzarsi conformemente alla sua volontà. Cosa sono io, se non ciò che egli mi chiede di essere? Ma ben presto mi si rivela una distanza infinita tra ciò che faccio e  questa potenza che è in me, e che anelo esercitare: eppure non cesso di fallire, e nella misura stessa in cui fallisco non sono più per me e per gli altri che un’apparenza, che un soffio dissipa e la morte annullerà.

Questo è il vero senso che bisogna dare alle parole “Chi si vergogna di me in questo mondo, io mi vergognerò di lui di fronte al Padre mio. Chi mi riconosce in questo mondo, io lo riconoscerò davanti al Padre mio. Sono venuto al mondo con lo scopo di testimoniare la verità”.  

da “L’errore di Narciso”

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