di Mario Silvestri.
All’epoca della seconda guerra punica, la Sicilia sembrava suscettibile di venire trascinata molto presto nel braccio di ferro tra le due super-potenze. Era stato l’arrivo di Annibale nella Gallia Cisalpina a spostare altrove il baricentro delle operazioni. Durante la prima guerra punica la maggior parte della Sicilia era stata teatro di aspri combattimenti. Se li era risparmiati, riconoscendo subito la superiorità romana, il piccolo regno di Siracusa. Il che aveva permesso di curare se stessa, anziché consumarsi in lotte fratricide o contro i cartaginesi, onere quest’ultimo che si erano addossati i romani.
Il re di Siracusa Gerone, dettosi II perché voleva allacciare le sue umili origini con quelle dell’omonimo eroe di due secoli prima, era nato nel 307 e aveva vissuto la sua giovinezza nella prima età ellenistica. Sorprendente fu quindi la sua perspicacia nell’intuire che i nuovi venuti, gli sconosciuti romani, avrebbero recitato in Sicilia una parte di primo piano. Il suo potere egli l’aveva esercitato con benevolenza e giustizia. Esente da sfarzo e da pompe, che avrebbero rievocato i fantasmi di tiranni famigerati come Dioniso il Vecchio e Agatocle, egli e la consorte non volevano distinguersi dalla gente comune nelle vesti e nelle abitudini. Sullo stesso atteggiamento era allineato il figlio Gelone, che nel 232 aveva sposato Nereide, figlia del figlio di Pirro, dalla quale nel 231 aveva avuto un primo maschio, che fu chiamato Geronimo, e altri seguirono, maschi e femmine.
Di Gerone, oltre che parente, era amico Archimede, il più grande fisico-matematico dell’antichità, siracusano anche lui, mai allontanatosi dalla Sicilia se non per un soggiorno di studio ad Alessandria, dove conobbe Eratostene, cui dedicò un prezioso trattatello sul Metodo, a noi fortunosamente pervenuto. Archimede è il fondatore dimenticato (salvo che dai matematici) dell’analisi infinitesimale e integrale, da lui portata a concretezza con il metodo di esaustione, già proposto da Eudosso di Cnido e noto anche ad Euclide. Di Archimede basti ricordare l’invenzione della coclea (pompa a vite per il sollevamento dei liquidi), la determinazione del valore di “pi greco” con una precisione superiore a 1/30.000. E ancora il “principio di Archimede”, le proprietà della leva, la determinazione dell’area della superficie del cilindro, del cono e della sfera, nonché il loro volume, e in più la lunghezza dell’arco di parabola e la superficie del tronco di paraboloide di rotazione, la spirale di Archimede e una lista di altre cose che sarebbe troppo lungo elencare. Si occupò anche di ottica: la sua opera Catoptrica è andata sfortunatamente perduta, ma sappiamo che in essa citava il fenomeno di rifrazione della luce. La disponibilità di tale libro consentirebbe probabilmente di trasformare in certezza il mistero dei famosi “specchi ustori”, altrimenti destinati al magazzino delle leggende. Archimede impressionò Gerone con la dimostrazione sperimentale delle sue deduzioni meccaniche: mediante un dispositivo a tripla puleggia demoltiplicatrice, con il solo sforzo della sua mano, riuscì a varare una nave con 400 t. di portata, al completo di carico e dell’equipaggio. Colpito, Gerone fece pressione su Archimede affinché, sulla base della sua scienza, si dedicasse alla costruzione di macchine da guerra, atte a meglio difendere Siracusa nell’eventualità di un assedio. Cosa che Archimede attuò egregiamente, come ci attestano gli storici, ma di cui non lasciò traccia nelle opere rimasteci né, presumibilmente, in quelle perdute. Tale autolimitazione era lamentata anche dagli antichi, che deplorarono il fatto che Archimede, fedele alla tradizione della cultura classica, considerasse cosa volgare dedicarsi alla costruzione di macchine, e nei suoi scritti abbia immortalato le conquiste astratte della sua mente prodigiosa, ma non quelle concrete della sua tecnologia.
La tranquillità con cui Archimede potè dedicarsi ai suoi studi mette in luce i vantaggi che l’alleanza con Roma, pur con la conseguente riduzione di sovranità, aveva assicurato a Siracusa. Certo le illusioni di un nuovo predominio siracusano nel Mediterraneo centrale, come ai tempi di Dioniso e di Agatocle, andavano relegate nel mondo dei sogni. Ma una sua prudente politica estera Gerone la gestiva. Quando, nel 226, Rodi fu squassata da un disastroso terremoto che abbatté anche una delle meraviglie del mondo, il famoso colosso, Gerone, non ultimo in una gara che vide la solidarietà di tutto il mondo ellenistico, elargì in beni e denaro la somma di 100 talenti, che non sfigurava rispetto ai 300 di Tolomeo Filometore, faraone d’Egitto. Con quest’ultimo Stato Gerone manteneva relazioni particolarmente amichevoli, poiché era l’unica grande monarchia ellenistica che, timorosa di Roma, ne coltivasse l’amicizia. E anche le batterie di complicate artiglierie meccaniche e l’arsenale di congegni che aveva fatto costruire sotto la progettazione e la guida di Archimede, per potenziare l’efficienza difensiva della città, dimostrano che Gerone vedeva lontano e voleva prepararsi ad ogni evenienza.
Nella primavera del 217, prima che Annibale si preparasse ad attraversare l’Appennino settentrinale, i consoli Flaminio e Servilio chiesero a Gerone una dimostrazione di solidarietà ed egli si affrettò a fornire 500 mercenari cretesi e 1000 peltasti. I cretesi combatterono al Trasimeno con molta minore determinazione degli italici, perché furono tutti catturati da Annibale che li pose in libertà. Anziché ripresentarsi ai comandi romani, essi riguadagnarono di soppiatto la Sicilia – confondendosi con i greci locali – o si arruolarono con Annibale.
All’inizio del 216, mentre in Roma divampava la competizione fra i temporeggiatori e i fautori della battaglia “decisiva”, Gerone inviò 30.000 q.li di cereali, e in aggiunta una statua aurea della Vittoria, pesante 80 kg.: egli pregava il senato di non disdegnare i doni che erano segno di solidarietà verso l’alleato, che egli sapeva doppiamente forte, nel momento del pericolo. Aggiungeva anche 1000 sagittari e frombolieri. Disse di conoscere la riluttanza romana a servirsi di truppe mercenarie (e ne avevano ben donde, visto il comportamento dei cretesi), ma spiegava che questi specialisti potevano essere utili contro analoghi avversari balearici e mauri. Il senato si profuse in ringraziamenti e alle 50 quinqueremi lasciate in Sicilia agli ordini del proprtore Otacilio Crasso ne aggiunse 25 con il compito, se necessario, di devastare la costa africana. Alla prova dei fatti il rinforzo bastò appena. Nei giorni di Canne, mentre anche dalla Sardegna piovevano notizie sfavorevoli, Otacilio informò il senato che una flotta punica stava compiendo incursioni contro le coste siracusane e, mentre lui si accingeva a correre in aiuto a Gerone, una seconda formazione nemica, acquattata presso le Egadi, si preparava ad attaccare Marsala e la costa della provincia romana: per tenere la Sicilia occorrevano altri rinforzi. La decisione senatoriale di spedire in Sicilia Claudio Marcello con un’altra flotta fu contemporanea alla rotta di Canne. Marcello fu dirottato su Canosa e al comando dei rinforzi per la Sicilia venne sostituito dal pretore Publio Furio Filo. Appena giunto sul posto, questi compì un’incursione sulla costa africana, nel corso della quale venne gravemente ferito, tornando a Marsala in fin di vita. Intanto i soldati lamentavano di non ricevere da tempo né lo stipendio né viveri a sufficienza. E stavolta l’aiuto di Gerone, nonché accettato con condiscendenza, fu implorato. E il nonagenario sovrano fornì il necessario contante e vitto bastevole per sei mesi.
Sul principio del 215 la dinastia siracusana fu colpita da un lutto gravissimo: la morte subitanea dell’erede al trono, il cinquantenne Gelone, cosicché la corona sarebbe passata a Geronimo, il maggiore dei suoi figli, che però non aveva neppure 16 anni. La causa della morte di Gelone rimase avvolta nel mistero e nel sospetto. Dopo anni di fedele coreggenza, Gelone aveva cominciato a virare di atteggiamento, in seguito alla disfatta subita a Canne da Roma: si circondava di complici e addestrava segretamente reparti militari. Sì che il sospetto che il padre fosse l’ispiratore dell’improvvisa morte del figlio, cioè del suo assassinio, inzaccherò una dinastia già felice, che parve avviata improvvisamente lungo la via del precipizio. In verità, che Gerone II si sia macchiato di un così orribile delitto – lui che durante il suo regno non aveva firmato una sola condanna a morte – è da escludere sul piano della razionalità politica: perché automaticamente, morto Gelone, diventava erede al trono Geronimo, che Gerone sapeva ragazzo viziato e vizioso, tanto che i suoi ultimi mesi di vita si trasformarono in un incubo al pensiero della diletta Siracusa nelle mani del suo inetto successore. Lasciando invece le responsabilità dello Stato nelle mani di Gelone, filo-romano che fosse stato o anti-romano che fosse diventato, Gerone ne conosceva per lo meno la rettitudine e l’esperienza.
Per l’anno 215 al governo della Sicilia era stato destinato Il neo-eletto pretore Appio Claudio Pulcro, che ricevette anche lo spiacevole incarico di sostituire le legioni di stanza in Sicilia da due anni con quelle cannensi, che una vampata di severità senatoriale aveva deciso non dovessero stare in patria finché sul sul suolo italico vi fosse Annibale. Al comando della flotta fu messo Otacilio Crasso, che della Sicilia era stato governatore e pro-governatore. Alla paga dei soldati si provvide con inasprimenti fiscali irregolari sulla pelle dei siciliani, poiché la somma generosamente prestata da Gerone l’anno precedente venne dirottata per stipendiare soldati e marinai del fronte che si stava aprendo contro la Macedonia di Filippo V. E tuttavia nella primavera di quell’anno, che per Roma fu il più difficile, Gerone fece ancora un regalo: 20.000 q.li di cereali. Poi esalò l’ultimo respiro a 92 anni. Negli ultimi mesi di vita Gerone era stato tormentato dall’angoscia per le future sorti della sua Siracusa. Del nipote Geronimo conosceva i molti vizi e l’assenza di freni inibitori: sì che aveva pensato di restituire Siracusa al regime democratico, e che i cittadini stessi si governassero come meglio credevano. Ma da ciò lo distolsero le figlie Demarata ed Eraclea, consorti rispettivamente dei consiglieri Andronodoro e Zoippo, mosse da nascoste ambizioni. Andronodoro e Zoippo erano i più importanti fra i nientemeno che 15 tutori, quasi un piccolo parlamento, ai quali Gerone aveva affidato Geronimo: personaggi di opinioni diverse e avverse, e tanto numerosi che Gerone sperava si sarebbero neutralizzati a vicenda, mantenendo però lo status quo, cioè la fedeltà indiscussa verso Roma, che Gerone aveva raccomandato fin sul letto di morte. La salma di Gerone fu accompagnata da un’imponente manifestazione di folla, tutti tristi e piangenti: i siracusani non avevano mai amato i tiranni, anche perché ne avevano subiti troppi, ma Gerone era stato di gran lunga il migliore. Tuttavia, cessato il pubblico lutto, Andronodoro mise in atto un colpo basso: dichiarò che, a suo parere, Geronimo era grande abbastanza per regnare, si dimise da tutore costringendo i suoi colleghi a fare altrettanto. Con ciò, istigato dalla moglie Demarata, egli sperava di concentrare su di sé solo il potere, che Gerone aveva sminuzzato in quindicesimi.
Investito della dignità regia, Geronimo cominciò a impazzare, cingendo il diadema come se fosse il faraone d’Egitto e vestendo il manto purpureo, mentre si faceva attorniare da una guardia del corpo e sfilava per i viali su una quadriga tirata da cavalli bianchi: tutto l’orpello scenico di cui si era ammantato il feroce Dioniso. Queste manifestazioni, tanto lontane dalla mentalità di Gerone e Gelone, irritarono la popolazione. Ma gli intimi di Geronimo ne subirono ben di peggio, perché il giovinastro, un Eliogabalo ante litteram, mentre gradiva turpi piaceri, palesò presto tendenze omicide, compreso l’omicidio per rapina, al fine di impadronirsi dei beni delle persone più facoltose. Gli ex tutori, a eccezione di Andronodoro e Zoippo e di un tal Trassone, in parte si salvarono con la fuga, in parte si suicidarono.
Nell’atmosfera angosciosa così creatasi, era naturale che si cospirasse. E il caporione Teodoto ne fece parola con un compagno di sollazzi di Geronimo che sperava di attirare in seno alla congiura. Ma egli corse subito da Geronimo a denunciarlo, cosicché Teodoto si trovò agguantato dagli uomini di Andronodoro e messo sotto adeguati ferri. Finché poté, Teodoto resistette, pur sottoposto ai tormenti delle più raffinate macchine da tortura inventate dalla fantasia greca, poi confessò. E confessò il falso. Per allontanare i sospetti dai veri congiurati, affermò che il capo della trama era Trasone, complici una sfilza di accoliti, che invece erano tutti innocenti. Durante l’inchiesta i cospiratori non si mossero, tanto erano certi della forza d’animo e della scaltrezza di Teodoto. Gli innocenti da lui nominati, fra i quali il principale imputato Trasone, furono sottoposti a tortura e trucidati. Con Trasone scomparì l’unico consigliere filo-romano che di tanto in tanto Geronimo ascoltava. E poiché anche Zoippo non era allineato su una politica decisamente anti-romana, Andronodoro provvide a mandarlo in missione in Egitto, Accompagnando tutti i fratelli maschi di Geronimo, così da evitare la presenza di pretendenti al trono. Zoippo fece quanto richiestogli, ma ad Alessandria chiese asilo politico, lasciando a Siracusa la consorte Eraclea, figlia di Gerone, con due figliolette. Andronodoro ebbe così via libera per convincere Geronimo ad abbracciare la carta cartaginese e inviare un’ambasieria ad Annibale.
I due emissari siracusani, Policleto di Cirene e Filodemo di Argo, furono accolti dal comandante cartaginese con il massimo calore. L’alleanza con Siracusa era una fortuna inaspettata, dopo aver concluso il bellezza quella con Filippo V di Macedonia. Sembrava che il mondo greco pendesse tutto dalla sua parte. L’impero cartaginese, la simmachia ellenica, la Sicilia greca, contro quel mozzicone d’Italia che era la Confederazione romana! Ai due ambasciatori Annibale fece balenare prospettive grandiose e li rispedì a Siracusa con un suo omonimo della miglior società, chiamato Annibale il Trierarca, e con due ufficiali di stato maggiore che aveva avuto la preveggenza di portarsi dietro nella spedizione contro l’Italia: i fratelli Ippocrate ed Epicide. Costoro erano di discendenza greca, perchè il nonno Arcesilao, accusato 90 anni prima di aver partecipato all’assassinio del figlio di Agatocle, si era rifugiato a Cartagine come profugo politico. Geronimo, sulla scorta delle relazioni fattigli dai suoi seguaci e dai messi di Annibale, decise immediatamente di stringere con Cartagine un patto di alleanza e sollecitò Annibale il Trierarca a veleggiare quanto prima per Cartagine con gli emissari di Geronimo per perfezionare l’accordo.
Si era ormai allo scadere del 215.
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da Mario Silvestri “La vittoria disperata” La seconda guerra punica e la nascita dell’impero di Roma.