di Pietro Redondi.
Il rifiuto della sottomissione dogmatica al principio di autorità in campo filosofico, la rivendicazione di un linguaggio nuovo, i diritti della ricerca e di una libera discussione intellettuale contro la prevaricazione della cultura istituzionale: ecco i contenuti che facevano del Saggiatore il manifesto della filosofia nuova a Roma. Il libro fu un caso letterario perché, più ancora che i gesuiti, più ancora che il pensiero scolastico, esso sembrava contestare un’intera tradizione intellettuale.
Il telescopio era stato lo strumento per guardare tutto l’universo. Il Saggiatore era il manuale che insegnava a leggere l’universo come un libro.
Quando Il Saggiatore uscì, le comete erano ormai passate di moda e ben pochi avevano ancora interesse di sapere chi avesse ragione in quella difficile e confusa questione astronomica.
C’era una nuova e ben più appassionante controversia fra Galileo e Sarsi, molto più interessante e accessibile, dal punto di vista intellettuale, del moto cometario. Il nuovo eccitante tema di dibattito era la fisica dei fenomeni percettibili dai sensi.
Nelle accademie letterarie non si faceva altro che ripetere che si doveva leggere il libro della natura attraverso i sensi. Mai i sensi furono tanto protagonisti quanto nella Roma di Urbano VIII. Il tema dei sensi era congeniale ai letterati: i madrigali di Monteverdi, i versi di Marino, i colori di Poussin e di Le Lorrain aprivano al mondo tutti i sensi. La percezione sensoriale del calore, degli odori, dei colori, del tatto era un problema che dava accesso immediato a un dibattito di fisica.
Sarsi, nella Libra, aveva portato il discorso sulla fisica del calore, per dimostrare, contro Galileo, che se anche le comete non erano esalazioni incendiarie dell’attrito del loro movimento contro le sfere celesti, la spiegazione aristotelica era esatta.
Per screditare il suo avversario, Galileo, come era solito fare, portava il suo attacco sul fianco della fisica e della filosofia.
La natura – dicevano i professori aristotelici di filosofia – ha parlato per bocca di Aristotele. Qual era la grammatica di questo linguaggio? Per uno studioso aristotelico, la fisica, scienza della natura, era lo studio dei cambiamenti e dei moti delle cose materiali. Il mondo terrestre è fatto di materia. I dati dei sensi sono i primi che possono conoscere e i più attendibili per penetrare la realtà del mondo di fronte a noi.
La realtà presenta ai sensi differenze infinite di colore, calore, odore, fluidità, durezza, ma tutte le cose hanno però almeno in comune fra loro delle qualità, o forme fondamentali: le cose sono calde o fredde, secche o umide, per esempio. Per la scienza aristotelica ci sono quattro elementi fondamentali: terra, aria, fuoco e acqua, che si compongono di una medesima materia e possono convertirsi reciprocamente secondo lo scambio di quelle qualità.
La natura, per un aristotelico, era scritta in termini di qualità sensibili. Tutte queste qualità, il calore, la durezza, il colore o l’odore, erano inerenti a una sostanza, erano qualità reali, o forme sostanziali. Solo un miracolo avrebbe potuto far sussistere una qualità separata dalla propria sostanza.
Anche quando gli elementi si combinano per formare sostanze più complesse, le qualità che li accompagnano si combinano esse pure per formare le qualità dei composti risultanti.
La materia era concepita come un modo di essere e la grammatica del linguaggio scientifico che la descriveva era una complessa combinazione di nomi di qualità reali.
Le regole di questa grammatica erano quelle della logica di Aristotele: un linguaggio di soli nomi legati a variabili concettuali. Pronunciare una dimostrazione scientifica nel linguaggio aristotelico consisteva nel ricercare una proposizione con un soggetto associato a un predicato. Poiché il mondo era scritto in caratteri qualitativi, ognuno di questi segni era riconducibile a un concetto qualitativo. Così, un corpo in veloce movimento si riscaldava perché, muovendosi, riceveva dall’aria, calda e umida, la qualità di essere caldo.
Già di per sé questa grammatica delle forme sostanziali e delle qualità reali era molto complessa. Nel sec.XVII si vennero ad aggiungere anche una serie di qualità occulte, come l’attrazione magnetica, la viscosità, l’affinità chimica, che le ricerche di alchimia e di fisica avevano introdotto nel linguaggio scientifico.
La materia, letta attraverso questa grammatica di nomi, o logica di nomi, non era mai qualcosa a sé stante rispetto alle sue proprietà. Essa era costantemente un modo di essere: essere calda o fredda, essere odorosa o essere colorata. A loro volta, anche il calore, gli odori e i colori risultavano dei modi reali di essere.
Non è difficile vedere che questo linguaggio di qualità reali era un gioco di acrobazia concettuale che restava però sempre collegato all’esperienza sensibile. Il vantaggio consisteva nella possibilità di evitare di ricorrere a immaginarie strutture invisibili per spiegare i fenomeni e le proprietà dei corpi. Del resto, l’idea di Democrito che esistessero degli elementi invisibili di materia era assurda, per un aristotelico, perché i corpi, come il tempo, lo spazio e il moto erano forme della continuità potenzialmente suscettibili di una divisione all’infinito.
Ugualmente assurdo era pretendere di studiare i mutamenti naturali con un metodo quantitativo poiché, se la matematica poteva servire a descrivere astrattamente alcuni dati dell’esperienza, come nella geometria o nella armonia musicale, non riusciva però a cogliere le cause dei fenomeni osservabili.
Come Campanella, come Cesi, anche Galileo adottava, contro la grammatica di Aristotele, lo slogan del libro della natura aperto davanti ai nostri occhi.
Tutti potevano vedere attorno a sé le pagine di questo libro affascinante. Ma qual era la cifra per poterlo leggere? L’originalità del Saggiatore consisteva nella proposta di decifrazione dei segni di quel libro che, riuniti insieme, formavano i suoi vocaboli.
Secondo il Saggiatore per decifrare quei segni bisogna vedere in essi delle figure geometriche: «triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere».
Decifrare il libro della natura, scoprire la sua cifra segreta, decodificare le apparenze illusorie per conoscere le misteriose leggi che lo governano. Ecco un’altra grande suggestione intellettuale: evocatrice, di grande presa, immediata per i lettori.
Siamo nel secolo XVII: il secolo d’oro della cabala, dell’esegesi, dei più sofisticati sistemi di cifra per occultare sotto forme irreprensibili i più delicati messaggi diplomatici. Tutti interpretano, decifrano, anagrammano, combinano. È un grand siècle per la combinatoria e la linguistica: il mondo è popolato da un insieme di invisibili segni. La verità non è mai un’apparenza, ma un raffinato gioco di segni che la dissimulano, o permettono di decrittarla.
Il filosofo della natura diventa così il detentore della medesima arte del moralista e del politico. Anch’egli è un segretario, il segretario della natura, Nature’s secretary, come dirà una satira di J.Donne, anch’egli può descrivere la natura solo se è in grado di decifrarne i suoi segni apparenti.
La cifra proposta dal Saggiatore non era difficile come le formule degli alchimisti: bastava conoscere la geometria euclidea. Ogni intellettuale virtuoso, ogni letterato novatore vedeva aprirsi davanti a sé la filosofia della natura e la sentiva come propria.
I segni esteriori della natura, però, a parte rari casi, non si rivelavano alla vista come figure geometriche. Era necessario continuare la lettura del Saggiatore fino al paragrafo 41, dove si incomincia a parlare di fisica del calore per comprendere come si doveva usare la cifra proposta nella famosa pagina sul libro della natura.
La questione del calore era stata avanzata da Galileo fin dalla fase iniziale della polemica sulle comete. Aristotele aveva infatti supposto che una cometa fosse una esalazione accesa dal suo moto, come una stella cadente. Il Padre Grassi aveva cambiato ipotesi sulla natura delle comete, ma manteneva l’esegesi tradizionale della dottrina aristotelica del «moto» causa di calore, come attrito, corredandola con una massa di esempi e di citazioni letterarie e leggendarie, tutte per lui egualmente probanti.
Galileo si propone un’esegesi diversa della proposizione aristotelica per cui «il moto è causa di calore».
Per la verità, egli doveva probabilmente conoscere le idee in materia di Telesio ma, trattandosi di un autore all’Indice, non aveva torto di evitare di citarlo. In ogni caso, per Galileo, il calore è prodotto quando lo sfregamento è così forte fra due corpi da staccare qualche particella di materia. La produzione di calore era così associata all’emissione di parti molto sottili di sostanza.
L’ipotesi era puramente teorica, Galileo non disponeva di alcuna osservazione sulla perdita di massa di un corpo riscaldato per attrito. Per illustrare la sua idea si era servito, nel Discorso di Mario Guiducci,di argomenti osservativi improvvisati, che la Libra non aveva difficoltà a scalzare. L’autore della Libra poteva accontentarsi di confutarli sul piano sperimentale, ma non fu così. Sarsi mobilitava infatti contro i fragili esempi osservativi galileiani l’argomento dell’autorità che andava riconosciuta agli autori classici.
Era l’argomento forte della cultura ufficiale e i suoi fulmini non erano riservati soltanto ai dibattiti scientifici ma venivano scagliati regolarmente contro i novatori in poesia, nella musica, nel teatro. Il metodo di dibattito che faceva scuola, per far appello al principio di autorità degli autori era, ovviamente, lo stile argomentativo delle grandi controversie teologiche che fanno da sfondo a tutta la cultura del secolo XVII.
Il principio dell’autorità degli autori era così indiscutibile agli occhi dell’autore della Libra da fargli dimenticare una pur minima cautela critica nella citazione indifferenziata delle sue fonti in appoggio delle sue idee in fisica. Ma ciò che per lui era un argomento forte, più autorevole delle sue stesse argomentazioni empiriche, era invece, agli occhi di Galileo, il fianco debole dell’avversario, quello più vulnerabile alle armi della polemica intellettuale e dell’ironia letteraria.
Galileo a questo punto dovette pensare a Machiavelli che aveva insegnato che i nemici o si vezzeggiano o si spengono. Decise di spegnere il suo avversario, scaricando dal Saggiatore l’arma più infallibile e distruttiva per l’onorabilità scientifica della più illustre istituzione culturale della Compagnia di Gesù: l’arma del ridicolo puntata sulla devozione verso il principio dell’autorità della tradizione.
Ora, per i gesuiti, questo principio era qualcosa di più sacro di una criticabile citazione: era un valore di carattere religioso e un caposaldo della lotta contro l’eresia. Il modello di autorità era quello della tradizione della Chiesa docente.
Quando Galileo criticava il ricorso all’autorità di una massa di autori osservando che in filosofia non giovava molto allineare una serie di autori, come un cavallo da tiro dietro all’altro, ma si doveva «correre» liberi e soli come i cavalli «barberi» del carnevale, una battuta folgorante come questa, nel 1624, non poteva richiamare lo stesso sarcasmo rivolto dai teologi luterani contro l’appello all’autorità riguardo ai più controversi e delicati dogmi cattolici.
Eliminare il principio di devoto ossequio verso gli autori del passato significava avere via libera per proporre criticamente vecchie o nuove ipotesi sotto una luce interamente diversa.
C’erano dei capitoli del libro della natura che l’esperienza macroscopica rilevava in forme qualitative illusorie e fuorvianti. La loro decifrazione, secondo Galileo, doveva essere di carattere razionale. Pertanto il linguaggio della natura andava studiato in base a nozioni universali di una nuova grammatica. I segni della natura, per essere interpretati con certezza di dimostrazione, devono essere riconosciuti dalla certezza di una dimostrazione matematizzabile.
……….
Galileo proponeva un nuovo linguaggio in fisica. Non si trattava affatto di neologismi, ma di nuove definizioni e regole.
Suggeriva, in primo luogo, un nuovo modo per definire, in generale, gli oggetti fisici. La fisica infatti studia la materia. La materia è definita da proprietà materiali universalmente conoscibili. Oggetti fisici sono dunque fenomeni puramente individuali come le sensazioni dirette delle cose, sensazioni che in nessun modo erano suscettibili di misura. Oggetti fisici sono proprietà matematiche e meccaniche indicate da parole come figura, numero, distanza, moto, urto e così via.
Quando queste proprietà non sono direttamente osservabili, il fisico deve cercarle sotto le apparenze macroscopiche che le nascondono. Immaginazione speculativa? No, «certe dimostrazioni».
Il Saggiatore, in definitiva, proponeva di sostituire la fisica aristotelica traducendo le sue proposizioni predicative vertenti sull’esperienza delle qualità in un linguaggio nuovo: «il fuoco è caldo» in «il fuoco trasmette la sensazione del calore».
La traduzione non era da poco perché si passava da un linguaggio ricalcato sul senso comune di tutti i giorni a un linguaggio più elaborato e analitico, più ricco e rigoroso.
C’erano infatti qui due livelli di vocaboli: i «nomi», ossia le parole come caldo, rosso, dolce, che hanno valore per la sensazione individuale, ma non per la conoscenza scientifica. C’erano poi le proprietà materiali, parole come figura, moti e così via, che erano universalmente e matematicamente conoscibili. Restava però das spiegare, con proposizioni dotate di queste parole e di questo contenuto materiale, che cosa trasmetteva una sensazione di calore.
………….
È difficile per noi, oggi, rappresentarci appieno lo sforzo e la novità di quelle pagine: dovremmo dimenticare Locke, che pronunciò idee più o meno analoghe solo mezzo secolo dopo il Saggiatore, ritornare al realismo del senso comune. Non solo, ma dovremmo aggiungere a esso una solida tradizione di cultura scolastica, di sapere teologico e filosofico e riuscire a sottometterci alla grande autorevolezza e autorità che quella tradizione rappresentava.
Se ci è difficile, se non impossibile, afferrare da noi stessi la novità di quelle affermazioni, ci è altrettanto difficile, ma forse meno precluso, renderci conto delle reazioni che la lettura del Saggiatore doveva provocare sui lettori del suo tempo.
Era il rifiuto della filosofia. E questa era inestricabilmente connessa alla religione e alla mentalità. Era, anche, la rivalutazione di idee marginali, condannate e respinte.
Tratto da «GALILEO ERETICO» di Pietro Redondi