di Romano Guardini.

Che cos’è il tragico? Si può pensare che esso è la mancanza di scampo dal destino, in un mondo chiuso in se stesso, così che l’uomo non possa appellarsi ad altra istanza. Dopo la Rivelazione questa chiusura non esiste più, poiché in Cristo il mondo è divenuto aperto. Cristo è essenzialmente «la via» dal Dio vivente a noi e da noi a Dio. Attraverso Cristo possiamo appellarci dall’immediato corso degli avvenimenti al significato nascosto del governo divino. Anche le cose peggiori sono nell’ambito dove regna la Provvidenza; anche la più oscura caduta è collegata alla risurrezione.

Non scompare così una grandezza suprema dell’esistenza, che è terribile e magnifica?

Non è vero: quello che scompare è la mancanza di scampo e – se misurata sugli insopprimibili diritti della persona – l’assurdità dell’esistenza caratterizzata dalla fede nel destino. Certamente possono così andare perduti anche taluni valori che prosperano solo sul terreno di una simile disperazione; ma ciò non deve nascondere il fatto che è essa stessa una radicale soppressione di valori. E poiché si tratta delle decisioni supreme, l’uomo deve essere vigile e porgere un orecchio acuto: allora vedrà come, di regola, l’esaltazione dei valori tragici sia chiacchiera inconsistente. 

L’atteggiamento cristiano viene sorretto da una serietà che è più profonda ed elevata, anzi essenzialmente di altra natura, da quella dell’immagine tragica del mondo. Che si riferisca alla vita o all’onore, al lavoro o al futuro, o infine a un qualche puro coraggio e contegno, ciò che sostiene il fatalismo è il pathos di ciò che è infinito, di quanto sempre procede, del «Tutto», ovvero, all’opposto, il pathos della tragica finitezza, ma ambedue appartengono alla fallacia di una coscienza non redenta. Il cristiano è freso sobrio e lucido fin nell’intimo, ma non per cogliere le cose quotidiane, bensì la verità. Come Cristo ha dissipato l’incantesimo del «puro sentimento religioso», stabilendo al suo posto la serietà della fede e l’obbedienza al Dio vivente, così è stato rotto l’incanto anche del senso tragico con il suo pathos e la sua disperazione e in suo luogo è subentrata la serietà cristiana con il suo coraggio per la verità e per la sua indistruttibile speranza. È molto più facile gettarsi in un Tutto dionisiaco o tener duro entro una finitezza «esposta», che non sapere che per la volontà buona ogni situazione conduce al bene eterno – certo attraverso una verità che non tollera alcuna ebbrezza, una giustizia che sottopone ogni atto a un giudizio non mistificabile, e un sacrificio che è stato pre-delineato per sempre nelle parole:

«Padre, […] però non come io voglio, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39).

Ma la questione deve essere riproposta ancora una volta su di un piano più profondo. Non esistono nella realtà divina e creata, che la Rivelazione ci mostra, elementi che debbono essere chiamati tragici, tanto che in ragione d’essi tutta l’idea di Dio e l’esistenza da essa caratterizzata ricevono esse stesse un carattere «tragico»?

Come possono esistere, in un mondo creato da Dio, il male e la distruzione che esso provoca? Eppure Dio ha voluto il mondo buono e integro; il suo intento è forse fallito?

La risposta suona: Dio ha voluto che il mondo si attui nella libertà dell’uomo, perciò ha concesso questa libertà e lo spazio della decisione, persino contro se stesso. Ma, fin dall’eternità, Dio ha conosciuto come si sarebbe attuata questa decisione; perché allora ha creato il mondo?

Si potrebbe replicare che con simili domande l’uomo calpesta il terreno dell’assoluto mistero; e perciò esse, e con esse ogni tentativo di risposta, devono essere necessariamente sbagliate. Tuttavia l’uomo deve porsi tali domande, poiché non può esprimersi in modo diverso quel carattere dell’esistenza che più profondamente lo inquieta. Perché dunque Dio ha attuato una creazione, prevedendo che avrebbe percorso questa via?

Anzi, la domanda si fa ancora più penetrante. Non è vero che Dio, troneggiante in olimpica imperturbabilità, abbandono sotto di sé il mondo, con la sua ingiustizia e la sua sventura, ma lo prende sul serio in un modo che tocca Lui stesso. Il progressivo svelarsi di questa divina serietà rappresenta il corso della Rivelazione. Leggiamo che Dio ha creato il mondo secondo il suo pensiero e l’uomo secondo la sua immagine. Ciò non significa solo che il mondo come fattura è giusto; ma anche che il Creatore gli ha affidato forme e significati intelligibili fondati sulla propria essenza (Gv 1, 1-3), impegnando così in esso quasi il suo onore. Nel corso del racconto della creazione Egli stesso ripete continuamente che ciò è «buono» ed alla fine «molto buono» (Gn 1) e si fa così garante del suo valore. Poi l’uomo abusa della sua libertà contro Colui che gliel’ha data; e Dio non abbandona la creazione, ma inizia in essa l’opera della Redenzione. Si incammina verso di essa, si mette accanto a essa, agisce su di essa e con essa. Tutto ciò culmina nell’incarnazione. Essa non significa soltanto che Dio compare nello spazio del mondo, gli rivolge la parola, agisce in esso, ma che Egli stabilisce con la creatura un’unione di cui non si può pensare una più stretta. Il Figlio, assumendo nell’unità della sua esistenza la natura umana, accoglie la creatura nella vita divina. Certo questa natura umana è di assoluta purezza; ma il Figlio eterno si presenta come Redentore, e l’intera esistenza di Cristo è costruita sulla categoria del «per noi». Il peccato diviene suo proprio, non certo come azione compiuta da Lui, ma come colpa che Egli accetta, rappresentandoci vicariamente.

Come può essere tutto questo? Non contraddice a tutto ciò che si chiama «Dio»? Non è egli l’assoluto, la perfezione dell’essere e della potenza, del valore e del significato, dell’azione e della beatitudine? Non doveva anche la sua opera essere perfetta? Come può il mondo da Lui creato seguire una simile via? Come può Egli, dopo ciò che è avvenuto, impegnarsi nel mondo in modo simile? Che Dio è questo che si comporta così? Non è un proiettarsi dell’uomo nel divino? Dell’uomo che a suo rischio intraprende un’opera, e l’opera gli fallisce, ma egli, per fedeltà e per necessità o per disperazione, tien fermo e cerca di salvare il salvabile? Una tale idea di Dio non deve essere rifiutata a partire da tutti i presupposti purificati?

Qui appare, in tutta la sua asprezza, la Risoluzione che ci impone la Rivelazione. Appena io la giudico secondo i criteri che provengono dal sentimento di una pur retta religiosità, o dal concetto dell’Essere assoluto, devo eliminare tutti questi elementi di cui abbiamo parlato, e arrivo così infine, attraverso svariati gradi intermedi di un cristianesimo razionalizzato e moraleggiante, a un radicale rifiuto. Se non voglio questo, allora devo accettare con piena serietà ciò che si chiama  «Rivelazione». Non posso formulare un giudizio su di essa dall’esterno, da una qualche premessa che tragga la propria origine dal mondo, sia essa sperimentale o razionale, ma devo pormi in essa e di lì formare il mio giudizio sul mondo, che abbraccia anche il mio proprio sperimentare vitale e pensare. Allora non mi è più lecito dire: Dio non può far questo o quest’altro, perché ciò contraddice al concetto della pura divinità, ma devo dire: secondo la Rivelazione, Dio fa questo e in questo mi mostra che Egli è. Una svolta fondamentale del pensiero, dunque, che appartiene a quella «conversione» che Cristo esige e su cui poggia l’esistenza cristiana. Essa comprende il religioso tornare a rivolgersi del cuore dal mondo a Dio, quello morale dal male al bene, ma anche quello dal pensiero profano a quello cristiano. Il pensiero cristiano non dice: questi e quest’altri sono i principi della giustizia e la Rivelazione deve essere accettata o rifiutata nella misura in cui corrisponde o contraddice a essi, bensì: la Rivelazione rappresenta l’inizio, ed è vero ciò che è vero a partire da essa. Nella conversione del mio spirito, devo conoscere Dio come Colui che è, l’assoluto Signore, anche e innanzi tutto, nel suo proprio essere; Egli si rivela nella sovranità di questo dominio e dice: «Così io sono». Vista da questo punto, la dottrina della creazione dice: l’intento di Dio è tale che Egli, che non ha bisogno di alcuna cosa, ma è Signore, assolutamente, ha voluto il mondo finito accanto a Sé, davanti a sé – mancano le categorie per esprimere questo atteggiamento fondamentale della nostra esistenza – e lo ha voluto «da allora per sempre». Il suo intento si esprime nell’aver voluto la realtà della creazione sino al suo vertice della libertà, il che significa che la creatura può agire con un’autentica iniziativa, conformemente alla volontà di Dio, ma anche in contrasto con essa; che Egli ha previsto che questa seconda alternativa si sarebbe attuata, eppure ha voluto ugualmente la libertà. L’intento di Dio è tale che Egli non ha rigettato la creazione ribelle e rovinata, ma l’ha trattenuta, anzi l’ha accolta nella sua vita attraverso l’Incarnazione del Figlio suo, così che da allora in poi – la parola è folle, ma evitarla sarebbe ancor peggio – non esiste più il «Dio per sé solo», ma soltanto colui dalla cui vita trinitaria la seconda Persona, il Logos, è divenuta uomo.

La Rivelazione dice: tali sono i disegni, le intenzioni di Dio: messaggio di tale immensità che il credente generalmente non lo comprende affatto. Ma, se lo comprende, c’è subito il pericolo di una elementare reazione: un simile Dio non può esistere! Un simile Dio contraddice alle categorie dello spirito, ai sentimenti dell’esperienza religiosa, a tutto ciò che l’uomo, da sé, riconosce come conveniente a Dio. È il pericolo dello scandalo. Esso viene superato nell’atto della conversione alla fede che dice: qui parla la Rivelazione. Dio è così come Egli si mostra in essa. Ciò che l’uomo, da sé, chiama «Dio» non è che una rincorsa, una soglia per il gran salto della fede; se esso viene mantenuto e reso definitivo, allora nasce l’inganno del fenomeno religioso, in cui si fa un idolo della natura o di un qualche archetipo di perfezione. A partire dai numi delle religioni della natura, fino all’essere assoluto della filosofia della religione, una tale divinità non esiste. Il Dio che «è», il Dio reale e vivente, è Colui che si mostra nella Rivelazione. È con Lui che ha da fare l’uomo, lo voglia o non lo voglia, per il tempo e per l’eternità.

Ma quale è questo intento e sentimento che si rivela nel fatto che Dio crea il finito, affinché così esso, il non-necessario, l’essenzialmente-superfluo, sia «accanto» a Lui, «davanti» a Lui? Che Egli concede spazio alla libertà, anche contro la sua propria volontà, quella volontà che pure Egli deve volere, poiché Egli è la santità? Che egli realizza il mondo, pur sapendo che esso si incamminerà per questa strada? Che, dopo la caduta del mondo, Egli lo segue, diviene uomo, e nel mistero della sostituzione vicaria espiatrice, accoglie nella sua esistenza il suo essere gravato dalla colpa? Questo sentimento è l’amore.

Ma subito dobbiamo nuovamente distinguere, affinché l’idea santa resti incontaminata: non quell’atteggiamento personale sentimentale, morale, che a volte porta questo nome e che è semplicemente qualcosa di libero da ogni limitazione e abbandono alla totale pienezza del suo significato, ma quel sentimento, quell’orientamento di Dio, che si manifesta nella Rivelazione – e che appare all’uomo, quando, sorretto dalla fede, egli, credendo, lo riproduce.

Dopo tutto questo, a che punto siamo con la nostra domanda? Una tale condotta di Dio non è tragica? Non siamo formalmente spinti a parlare di un «destino» di Dio, e precisamente di un destino tragico? Non affiora alla luce qui ciò che è in assoluto e in senso propio destino, e di cui il destino terreno non rappresenta che un’eco confusa?

In sé sembra un controsenso parlare di un destino in rapporto a Dio. Egli è il Signore, semplicemente, perciò non esiste nulla che Gli si possa opporre e dal quale Gli possa venire alcunché sotto specie di destino. Egli è Signore anche di se stesso, perciò non esiste in Lui alcun impulso derivante dalla sua essenza che Egli sia costretto a seguire. Dio è assolutamente libero. Ma ci viene rivelato che Egli ama, veracemente e realmente ama. Quando un uomo sta di fronte a un altro in modo obiettivo, pur con tutto l’interesse, le vicende di quest’ultimo non lo toccano nell’intimo. Tra lui e l’altro sta, come un muro di sicurezza, l’esclusione personale: lui, non io; io, non lui. Ma appena egli comincia ad amare l’altro, il muro cade. Egli si apre, e quello che colpisce l’altro colpisce anche lui. L’amore fa che le vicende dell’amato diventino destino per l’amante. Attraverso l’amore il destino consegue l’accesso all’ambito della persona. Ma proprio questo è avvenuto per Dio. La Rivelazione ci dice che sin dall’inizio Egli si è posto di fronte alla creatura in atto di amore; e questo amore è perdurato anche quando l’uomo si è sollevato contro Dio; anzi, così appare, esso è divenuto ancor più grande, è scaturito da una profondità ancor più intima. Ed è difficile esprimersi diversamente che dicendo: la creazione è divenuta «destino» per Dio. Ciò diventa addirittura palpabile in Cristo, che è l’epifania del Dio invisibile. Non una teoria di valori e motivi assoluti, ma lo sguardo che cerca di vedere come Cristo agisce e come si atteggia la sua vita, ci conduce nell’intimo del sentimento, delle intenzioni divine; ma quell’atteggiamento e quelle vicende non hanno forse il carattere del destino più tragico?

La nostra meditazione sembra aggirarsi in un circolo; abbiamo infatti cercato di mostrare che in Cristo non si può mostrare destino alcuno, poiché tutto ciò che Gli accade, avviene in un perfetto accordo fra Lui e il Padre. Questo rimane esatto; ma ora il nostro interrogativo è penetrato nella profondità dello stesso intendimento di Dio. Non è questo «destino»? E l’immagine di una incomprensibile inanità, quale ci viene incontro dalla vita di Cristo, non è la manifestazione, la cristallizzazione suprema di un atteggiamento fondamentale in Dio stesso? Con tutta la reverenza e la prudenza richiesta da una simile questione, sembra che effettivamente si debba dire: in un senso proprio a Lui solo, Dio incontra realmente il «destino» nel mondo. Ed Egli è tale che può sperimentarlo. Ed il fatto di questo poter sperimentare è gloria somma. Coincide col fatto che Egli ama. Anzi, che Egli è amante. Ancora di più, che Egli è «l’amore». Ora rivelano il loro ultimo senso le parole come quelle nella Prima lettera di Giovanni:

«Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» e «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4, 8-16).

Veramente un amore

«Che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 19).

…….

Tratto da: Romano Guardini «LIBERTÀ, GRAZIA, DESTINO» 1948

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