di Romano Guardini.
Ciò che il momento della grazia significa nel senso terreno diviene certo chiaro nel miglior modo nell’ambito giuridico-politico. «Stato» è il modo in cui un popolo diviene capace di sussistere come tale, operando nella storia. Senza statualità, in qualsiasi senso intesa, esso si priva della forma e della capacità dell’azione. Lo Stato poggia su due elementi: l’ordine determinato dal diritto e il potere degli uomini e delle cose. Quando l’ordine è legale, esso vige, ma il potere lo deve realizzare. Il potere è reale in modo immediato, ma l’ordine deve giustificarlo.
L’ordine dello Stato è il diritto vigente, la legge. Non appena la legge entra in vigore, deve essere applicata. Chi rappresenta l’autorità, il capo dello Stato, re o presidente, a seconda della costituzione, o qualunque cosa possa essere la configurazione di diritto pubblico della carica, è responsabile dell’applicazione della legge. Ma egli ha anche la possibilità di un particolare modo di agire; direttamente, per la pienezza dei suoi poteri, egli può fare qualcosa che non è previsto dalle leggi: accordare un privilegio, sospendere un effetto giuridico, ad esempio una punizione che di per sé dovrebbe essere inflitta. Questo è l’atto di grazia, il quale concede qualcosa che non può essere preteso né per diritto, né strappato con la forza da chi lo riceve. Esso procede dalla libera iniziativa di chi detiene l’autorità e crea al di sopra dell’ordine del diritto un regno dell’eccezionale, che risponde all’imprevedibilità della vita. Questo atto di grazia supera la legge e in alcuni casi addirittura la abolisce, ma è esso stesso previsto dalla legge e ne forma in ultima analisi la garanzia. In esso si rivela infatti che la legge non appartiene all’ordine secondo cui funziona la natura, ma è riferita all’esistenza personale e alla sua libertà. Come atto di clemenza, può provenire solo dall’iniziativa dell’autorità suprema, e può essere accettato solo dalla libertà del suddito. Un animale non può «ricevere una grazia», così come nessun potere naturale è in grado di accordarla.
In forma attenuata, l’atto di clemenza appare in tutti i rapporti di autorità: dai genitori verso i figli, dai superiori verso gli inferiori, ecc. Anche questi rapporti sono regolati da una «legge», ovvero da un ordine che proviene dal senso dei rapporti stessi; ma essi contengono insieme uno spazio di libera iniziativa, che consente a chi detiene l’autorità di rendere giustizia alla vita, la quale non si esaurisce totalmente in nessun ordinamento.
Il fenomeno acquista un nuovo carattere nei rapporti di subordinazione, che non si basano sul diritto, ma sull’essere, non sulla carica o la competenza, ma sull’immediata pienezza di forza e di significato dell’essere: come nel rapporto fra il forte e il debole e fra il ricco e il povero, fra chi è superiore per vitalità, spirito o carattere e chi è inferiore. Anche qui troviamo la misericordia, la magnanimità, l’atto del donare e del salvare. La situazione qui invero è più complicata poiché, mancando l’elemento del diritto, c’è pericolo che chi riceve tali «grazie» si senta minacciato nella sua dignità. Entro l’ordine giuridico ciò non avviene: chi in esso concede la «grazia» è sì il soggetto rivestito dell’autorità, cioè una determinata persona, ma in quanto soggetto rivestito appunto di questa autorità. Il diritto di concedere la grazia è l’altro lato, eccezionale, della stessa competenza, il cui lato primo e ordinario è rappresentato dall’osservanza della norma giuridica. Viene così abolito ciò che è eccessivamente personale e viene rispettata la dignità di colui che riceve la grazia. Ma nei casi testé accennati la cosa è diversa. Qui non si tratta di un ordine di diritto, ma di un puro rapporto di superiorità di potere, che rappresenta un problema per la persona dell’inferiore. Se egli deve riconoscere al suo superiore il diritto di essere «grazioso», questi a sua volta deve eliminare dalla propria condotta il proprio io e non volere essere altro che l’amministratore della meravigliosa possibilità di trasformare il potere in grazia, con il che forse è espressa una definizione della autentica superiorità.
In ciò che abbiamo detto, il momento della grazia, il gratuito, è stato definito come il carattere di quella attività che non può essere né ottenuta a forza, né domandata, ma risulta piuttosto dalla libera iniziativa. Questo carattere riappare nel modo in cui si compie l’opera creatrice e l’azione creativa. Ci troviamo di fronte a una analoga contrapposizione: l’attività creatrice si distingue dal lavoro così come l’atto di grazia si distingue dall’esecuzione del diritto.
Il lavoro proviene da una riflessione e da uno sforzo ed, entro i limiti delle condizioni esteriori e della forza interna, può essere compiuto in ogni momento. La cosa è diversa per ciò che ha carattere di creazione: esso nasce dall’ispirazione e ha bisogno dell’ora propizia. Che l’ispirazione si presenti, che l’idea sfolgori, che nasca la forma, che le condizioni della riuscita si incontrino; che le forze interiori armonizzino il loro gioco nel modo giusto: tutto questo non può essere né calcolato né forzato; avviene «quando vuole», esige l’atteggiamento della non intenzionalità. Con ciò non è detto che le grandi opere e le grandi azioni riescano da sé: esse anzi presuppongono un indefesso lavoro, una grande concentrazione e molta rinuncia. Tutto questo per preparare, garantire, sviluppare il fondamentale processo creativo, cioè l’ispirazione, non per ottenerla a forza. Altrettanto dicasi per il secondo elemento: la riuscita; quella felice disposizione per cui la realtà si fa malleabile a chi vi mette mano e il compimento dell’opera diviene possibile. Anche qui non si può forzare; anzi, il calcolare, l’influenzare, il costringere possono essere addirittura di ostacolo al successo. Poiché impediscono il determinarsi di quello spazio in cui emerge la forma e gli elementi si congiungono in unità e l’opera di strutturazione riesce. Certo esistono mezzi per sorreggere il processo creativo, ausilii di natura spesso assai singolare. Ma essi sono efficaci solo entro limiti ristretti e anche qui non senza pericolo; basti pensare alla parte che le eccitazioni e le ebbrezze anno avuto nella vita dei grandi artisti, o al modo in cui il sonno può essere posto al servizio della creazione e ancora al significato dei segni premonitori, delle costellazioni e in genere della «superstizione» nella vita di personalità creatrici. Il tutto questo si trovano aspetti di una tecnica del creare. Ma, essenzialmente, colui che crea deve essere disposto a preoccuparsi soltanto delle condizioni preliminari, e per il resto pagare il prezzo richiesto.
Donde l’ispirazione venga non si può dire. Il lavoro è un processo che risulta da un giudizio e da una decisione della volontà e si compie in una logica di sforzo e di rendimento suscettibile di essere percepita.esso può essere così totalmente razionalizzato che diviene indifferente chi lo compia, fino ai gradi estremi di spersonalizzazione, in cui il lavoratore non è altro che il sorvegliante della macchina. L’ispirazione scaturisce invece da un punto che non si può determinare. Quando si parla di centro creativo individuale, la cui forma più elevata si chiama genialità, è soltanto un modo di dire. L’uomo avverte questo centro come la cosa più sua. Nella creazione egli ha un sentimento intenso del suo essere se stesso, sentimento che si può esaltare sino alla presunzione, anzi all’hybris. Chi crea è se stesso nel senso più vivo della parola. Dall’altro lato egli sente quella scaturigine come qualcosa che sta al di fuori della sua personalità, al di sopra di essa, o al di sotto, o tale da travalicare verso l’interno della sua concreta consistenza; qualche cosa comunque di sovrano di contro alla sua propria volontà, al punto da abolire l’iniziativa di questa e da contrastare i più forti desideri vitali. Questa sovrana potenza dell’ispirazione, riannodandosi ad antiche immagini, si esprime nella parola «genio». Il suo punto di partenza viene avvertito come se si trovasse vicino al centro della totalità dell’esistenza. Il comportamento del grande creatore, del genio assume a volte un carattere che si può esprimere soltanto come cosmicità. Quando parlano Dante e Shakespeare, sembra che si scuotano le fondamenta del mondo.
Per ciò che riguarda la riuscita, l’istanza che sin dall’inizio la guida non si trova nel singolo creatore stesso, ma nella totalità della vita. Si tratta del gioco scambievole di infiniti fattori che né la volontà consapevole, né la più potente e sicura volontà inconsapevole è in grado di organizzare. Qui parliamo di situazione feconda, di ora propizia, di congiuntura storica, ecc. quanto tale istanza sia complicata ed esigente diviene chiaro se si pensi ad esempio al numero sterminato di condizioni, a volte di natura estremamente singolare, che si dovettero incontrare per rendere possibile il nascere della Divina Commedia o dei drammi di Shakespeare.
Il momento del favore obbiettivo acquista un particolare carattere, il carattere cioè della fortuna, nelle grandi gesta. Qui si incontrano stranamente i momenti del potere e della incalcolabilità, della sicurezza e del costante pericolo. La storia mostra quanto forte ne sia sempre stato il sentimento nelle personalità creatrici. Il fenomeno sfocia a sua volta nell’ambito del destino.
Si potrebbe ancora accennare al fatto che ispirazione e riuscita, illuminazione interiore e ora propizia, non procedono necessariamente assieme. È anzi cosa eccezionale che questo avvenga e che l’insieme delle condizioni individuali e generali si ponga a disposizione dell’opera e della volontà di azione. Le cose possono seguire una via diversa e si ha allora la tragicità del creatore e dell’eroe sfortunati.
In tali fenomeni si mostra il carattere di grazia della creazione. Sarebbe assai semplicistico dire che in realtà tutto è determinato e procede in una successione ininterrotta; l’impressione del gratuito sarebbe allora una illusione – anche se in qualche modo giustificata e significativa. In un mondo che si muova soltanto secondo causalità meccaniche non esiste creazione, come non esiste libertà, esiste piuttosto la successione obbligata di determinati processi. Ma la condizione di tale mondo è falsa e nel più profondo indegna. I meccanismi formano l’impalcatura del mondo, il sistema delle funzioni che lo garantiscono; ma il mondo contiene anche un altro elemento, quello appunto da cui sorge l’autentica creazione.
Lo stesso carattere si ritrova nei rapporti reciproci fra gli uomini. Ogni genuino rapporto io-tu rappresenta in primo luogo la somma di ciò che è l’uno e di ciò che è l’altro; ma poi qualcosa di più grande, che non può essere prodotto da uno solo dei fattori, né può risultare dalla giustapposizione di ambedue, ma emerge piuttosto dal loro rapporto come un tutto originario, come forma significativa: l’amicizia, la comunità di lavoro, l’amore o, più esattamente, questa amicizia, questa comunità di lavoro, questo amore. Perché ciò avvenga è necessario qualcosa di particolare, precisamente l’incontro. Ma esso non può essere forzato.
Il singolo non può procurarsi l’altra persona, che gli appartenga e con lui costituisca il rapporto che realizza quella forma significativa. Non può far sì di incontrare la persona giusta. Fino a un certo punto la può cercare, ma non è sicuro che l’intenzione aumenti la probabilità dell’incontro. L’intenzionalità ha una sua ragione di essere quando si tratta di raggiungere degli scopi; e anche qui non completamente, perché anche in questo caso il successo presuppone una scioltezza non prevenuta che conceda libertà all’inconscio. Quando si tratta di realizzare un senso spirituale, l’intenzione è addirittura dannosa, perché costringe e arresta. Ciò che qui conduce al successo è l’atteggiamento della non intenzionalità e della disponibilità. Qui agisce la potenza dell’appello dell’essere, che è qualcosa di totalmente diverso dal calcolo e dal piano. Visto da quest’ultimo punto, l’autentico incontro rappresenta sempre un «caso». Un treno è in ritardo e non incontro la persona – ho fatto un errore e proprio per questo vengo in contatto con quella persona. Ma questo «caso» ha un carattere particolare, perché appena esso si è determinato, e quel rapporto è sorto, nasce il sentimento che «non poteva essere diversamente», noi «dovevamo» incontrarci, eravamo destinati l’uno all’altro; sino alle intuizioni metafisiche, quali le esprime Aristofane nel Simposio platonico, quando parla delle eterne unità integre umane, che sulla terra sono divise nei sessi e devono ricercarsi reciprocamente (193 c-d). Anche qui v’è grazia. Si determina qualcosa che non può essere né preteso, né calcolato, né forzato e tuttavia contiene una irrefutabile evidenza di significato. È necessario a una o a parecchie persone per compiere il significato della loro vita, eppure dipende dall’azione di una «istanza», sulla quale essi non possono assolutamente nulla. E dove questa istanza sia nessuno può dirlo. Sentiamo una specie di convergenza delle linee degli accadimenti che accennano a un punto di partenza che non possiamo afferrare. Giungiamo così di nuovo al complesso di significati del destino. Ma diviene evidente che quel «punto» o «istanza» non può trovarsi né nella singola esistenza né in un ambito più vasto, ma deve appartenere all’esistenza nella sua totalità e che la risposta per sua natura dipende dal fatto che noi accettiamo o meno in questa esistenza una direzione unitaria e fornita di senso.
Affine alla gratuità dell’incontro è quella della combinazione felice che libera e aiuta: quando, attraverso un avvenimento che non si poteva né calcolare, né produrre a forza, una angustia opprimente è stata eliminata, una situazione senza via d’uscita è stata risolta o in qualche altro modo è stata aiutata e promossa la vita. L’impressione del gratuito sorge dal fatto che le cause di tale avvenimento sono al di fuori della vista e del potere del singolo, pur esercitando una azione benefica nell’ambito della sua vita. Perciò questa azione è anche al di sopra della possibilità di valutazione. Ha un significato esistenziale che trascende la pura azione fisica o psichica. Non consiste solo nelle concrete modificazioni e nel miglioramento delle condizioni della vita, ma anzitutto nel fatto che essa rafforza la fiducia nella bontà benevola dell’esistenza e rinvigorisce la volontà di vivere.
Si deve inoltre accennare a qualche cosa che era già contenuta negli aspetti della gratuità precedentemente descritti. Il fatto che quegli avvenimenti e quelle situazioni non si possano interpretare né per mezzo del diritto né per mezzo della forza del singolo, rimanda a un’altra sovranità assoluta, che sta al di sopra dell’esistenza empirica nella sua totalità, la sovranità divina. Questo richiamo viene accolto dall’organo della sensibilità religiosa e forma ciò che è essenziale nel fenomeno di ciò che è grazia. Del resto anch’esso fa passare al fenomeno del destino.
Ciò che chiamiamo l’ora propizia è un altro aspetto del gratuito. Con ciò non intendiamo alcun avvenimento, ma una condizione, quella in cui la vita si sente ricca, piena, calma e libera. Si sa che tutto ora va bene. Nulla rimane da desiderare. L’esistenza è perfetta. Nulla di precisamente determinabile si è mutato né nelle cose, né nel nostro essere, ma è subentrato un equilibrio. Le tensioni su cui si regge la vita non sono abolite – nascerebbero solo allora noia e fastidio – ma sono entrate in una condizione che è pregna di significato e insieme come sospesa e promette qualcosa di definitivo.
Essa trova un simbolo nella luce pomeridiana di un giorno completamente sereno. Quando le cose appaiono signore della loro più intima essenza e insieme trasparenti a qualcosa di definitivo e di vero. Qualcosa di indicibile diviene presente e dà felicità. Le poesie di Hölderlin parlano di questa condizione in un modo bello e puro. Qualcosa di simile – ma in un grado più pericoloso – Nietzsche collega con la calma del caldo meriggio. Da un punto di vista psicologico questa è euforia. Sul piano normale essa indica una culminazione e insieme una interiore pacificazione della vita: un momento, dunque, in cui questa vita diviene consapevole delle sue possibilità e delle sue speranze, per poi cadere nella farragine della vita quotidiana. Ma l’euforia può anche esaltarsi e divenire pericolosa. Condizioni altamente euforiche sono connesse con la malattia e dovrebbe essere senz’altro fuori di dubbio che le descrizioni di euforia cosmica che si leggono in Zarathustra, ma anche in taluni passi degli Inni di Hölderlin, accennano alla rovina incipiente.
Anche questa condizione di euforia può essere ottenuta a forza. Non deve essere scambiata con il tranquillo equilibrio che proviene da una sana condotta di vita o da un dominio di sé esercitato a lungo. Questo equilibrio sta alla vera «ora propizia» come la programmazione sta all’incontro, il lavoro alla creazione, l’esecuzione del diritto all’atto di grazia. Si può, fino a un certo grado, volontariamente favorire il determinarsi dell’euforia, così come si può favorire l’eccitamento creatore. Tutti i popoli e tutti i tempi conoscono i mezzi per ottenere questo; di natura materiale, nelle bevande alcoliche o in droghe dichiarate che danno ebbrezza ed estasi; di natura psicologica, nelle tecniche suggestionanti dell’abbandonarsi o dell’esaltarsi e potenziarsi. Ma i risultati sono inautentici e i metodi pericolosi. Essi pregiudicano ciò che guida la vita e ne risponde: il carattere, le forze dell’onestà, dell’ordine, dell’onore e della fedeltà. La vera «ora propizia» può venire solo da sé, come grazia e come dono.
Naturalmente alla domanda donde essa provenga è già difficile rispondere, come è difficile rispondere alla domanda sull’ordine dei fatti gratuiti a cui abbiamo accennato. Si presentano concetti, come quello del centro vitale o della misura interiore; non a caso Nietzsche, che così bene conosceva la euforia e il suo opposto, ha parlato con accenti pieni di mistero di «medietà e di misura». La parola invero non chiarisce nulla, ma indica una direzione al sentimento.
A questa descrizione di ciò che ha il carattere della grazia si collega la particolare sensazione che si desta talora davanti a un perfetto spettacolo naturale o, per dir meglio, a quel quadro naturale la cui misura sia un rapporto armonico con il nostro particolare sentimento della vita e non lo oltrepassi né in immensità, né in elevatezza, né in profondità. Esso non nasce davanti a una montagna gigantesca, o davanti al mare burrascoso, ma piuttosto davanti a un albero particolarmente bello, come nella poesia di E. Mörike sul «Bel faggio», o davanti a un nobile animale, come lo hanno rappresentato i quadri giovanili di caprioli dipinti di Franz Marc. Il gratuito consiste qui nel semplice fatto che simili forme esistano. L’esistenza non è favorevole al nascere di ciò che è perfetto; qui esso ha «avuto fortuna». Per il nostro sentimento ciò non significa soltanto che vediamo qualcosa di bello e di raro, ma anche che l’esistenza lacerata ha raggiunto in quel punto un accordo; un momento di pace nella lotta continua; nel tedio della vita quotidiana una promessa di possibilità beatificanti.
Lo stesso carattere hanno alcune opere d’arte. Anche qui non le più possenti o le più elevate, o quelle più dense di profondo significato, ma quelle che hanno raggiunto la pura levità. Non l’hanno i quadri di Matthias Grünewald o le sculture di Michelangelo, ma lo rivela Mörike, quando parla della lampada appesa nella stanza abbandonata e alla fine dice che il senso della felicità che qui scintilla è «il bello» «beato in se stesso». Taluni vasi greci hanno la nobiltà di ciò che è particolarmente riuscito ed elargito, e anche taluni dipinti di Raffaello e talune composizioni di Mozart. Questa nobiltà presuppone una forza certamente, ma, sgorgando nel profondo, essa si è purificata nella limpida leggiadria, nella luminosa soavità. Del resto anche la parola greca chàris indica originalmente appunto questa leggiadria in sé sciolta (lo stesso dicasi per l’italiano grazia e per il francese grâce).
Infine si potrebbe ancora accennare che ci sono persone la cui esistenza stessa viene avvertita come donata per grazia. Anche in esse questo carattere non coincide con quello della grandezza poiché essa, creatrice o dominatrice, o di qualsiasi tipo, abolisce il rapporto fra noi e se stessa. Questo senso di grazia sta piuttosto in qualcosa che è proporzionato a noi, qualcosa che ci distende e ci allieta con la felicità di un dono. Nella natura di queste persone, nel loro modo di parlare o di accostarsi alle cose, l’esistenza diviene lieve. Esse stanno a testimoniare che in questo mondo di confusione e di violenza esiste purezza e nobiltà – pensiamo ad esempio al concetto goethiano dell’anima bella… L’impressione può elevarsi fino a quella dell’ultraterreno. Davanti a una simile persona nasce allora il sentimento che essa venga da qualche luogo e porti con sé l’annunzio che buone sono le intenzioni che si hanno verso di noi, e con la sua stessa essenza garantisce questo messaggio contro la contraddizione della realtà quotidiana. Novalis sembra essere stato un uomo simile. Ma anche qui si richiede misura, poiché appena quell’impressione si accentua, cessa l’impressione di grazia e in suo luogo avanza qualcosa che desta riverenza, anzi timore sacro. Di questa natura era forse Hölderlin.
Quanto è stato detto si richiama al fatto che esiste nell’esistenza in sé un elemento che porta il carattere del gratuito. Tale concetto si fa più chiaro se poniamo la domanda: in quale mondo non potrebbe esistere qualcosa di simile?
La risposta suona: in un mondo che fosse così costruito, come lo immagina la scienza naturale meccanicistica. Se tutto potesse essere risolto nelle necessità matematiche, biologiche, psicologiche, fenomeni come quelli accennati non potrebbero sussistere. Tutto avrebbe il carattere di un processo necessario e continuativo e potrebbe, seppure in modi complicati, essere previsto e calcolato. Sarebbe un mondo senza grazia. Non ci sarebbe posto in esso per il favore di un dono, per il fiorire di una cosa nuova, per la riuscita, che rende felici, di una cosa perfetta, per il libero aprirsi del cuore. E dove il sentimento di tali aspetti gratuiti si determinasse, esso sarebbe una illusione, dovuta a difetto di critica e incapacità di giudizio, o una costitutiva, di cui necessita la natura per mantenere l’individuo capace di vivere e di volere la vita. Colui che fosse divenuto consapevole, potrebbe penetrare con lo sguardo l’insieme di questa situazione, ma proprio per questo sarebbe al limite della possibilità di vivere. Ci sono anche atmosfere umane che appesantiscono e addirittura soffocano ciò che ha carattere di grazia. Con «atmosfera» si intende il complesso formato da esempi considerati validi, da gerarchie di valoro riconosciute, da forme di vita sussistenti, simpatie e antipatie volontarie, attese, timori; complesso che si appoggia sul predominio di determinati tipi umani. Determinate atmosfere incoraggiano l’elemento gratuito dell’esistenza. Pensiamo, da un punto di vista sociale, a quella dei gruppi appassionati per l’arte; da un punto di vista storico, a quella dei grandi periodi creativi. Ciò che è nativo e produttivo viene qui accolto come un valore; l’atteggiamento generale vi si famigliarizza, ed esso è approvato, confermato, incoraggiato. Altre atmosfere lo svalorizzano, lo scoraggiano, lo indeboliscono: l’atmosfera puritana-fanatica, quella autoritaria-burocratica, quella fredda-calcolatrice e, nella forma più disperata, quella della violenza razionalizzata, della inumanità meccanizzata, quale è venuta alla luce nell’epoca post-moderna. Libertà, magnanimità, slancio del cuore, humor, originalità della ispirazione e rischio fiducioso, tutto viene accolto come estraneo, sgradevole, disturbante, anzi pericoloso. È all’opera una paura segreta, che si sente messa in pericolo dal gratuito e cerca di soffocarlo.
Il mondo reale non contiene però solo processi concatenati, ma anche nuovi inizi e ciò che ne deriva; non soltanto ciò che è razionale e indagabile, ma anche ciò che è imprevedibile e creativo. Questi elementi non turbano il mondo, ma concorrono a costituirlo. Essi fondano la sua potenzialità, la possibilità del «nuovo» – e quest’ultimo non significa solo ciò che si produce per la prima volta, ma è un carattere dell’essere, in quanto appartiene a ogni gesto che provenga autenticamente dall’intimo.
Lo stesso elemento ricompare nuovamente nel mondo delle azioni e dei destini umani. Si esprime in ciò che si chiama combinazione: nel concorrere degli avvenimenti a formare l’esistenza personale, nel loro offrirsi a donarsi – certamente anche nel loro chiudersi e rifiutarsi, nell’impietosa inesorabilità.
Nel mondo dei valoro è un fatto che determinati valori – quelli della nobiltà e della elevatezza – possono in assoluto realizzarsi solo quando non siano intenzionalmente voluti. Non giova, nei confronti di essi, far programmi, né adoperarsi, devono essere offerti e accettati. L’esistenza è poco propizia a questi valori; quando essi risplendono, ciò non avviene nella forma di un «funzionamento» redditizio, ma nella forma di un «nonostante tutto», di un «superamento». Ciò che qui è vittorioso non è né la riflessione né lo sforza, ma una grazia, che certo solo con difficoltà viene concessa. La Beatrice dantesca è espressione perfetta del fatto che i valoro più alti appaiono solo nella forma di una gratuita facilità. Il suo sorriso è la forza che senza fatica attua gli effetti più potenti.
La presenza di questo elemento nell’esistenza si esprime in sentimenti che non potrebbero diversamente venire spiegati; ad esempio nello stupore e nel ringraziamento. Nello stupore, non nel semplice non-capire-ancora; nel ringraziamento, non nel semplice sentirsi appagati. In sensazioni dunque che non confermano soltanto un successo, ma corrispondono a un carattere dell’esistenza: al fatto che questa esistenza non è comprensibile ovviamente. Tutto ciò che è razionalmente e meccanicamente necessario si capisce da sé, per quanto possente possa essere; perciò ogni semplice lavoro dell’intelletto, ogni prestazione tecnica e industriale, subito dopo la sua realizzazione, è già «vecchia» e diviene indifferente e non c’è nessun abuso più stolto delle parole che parlare di «meraviglie della tecnica». Tecnica e prestazioni funzionali dell’intelletto sono esattamente il contrario della meraviglia e non producono né vero stupore, né reale ringraziamento. Un analogo orientamento lo troviamo anche nel sentimento della felicità. Ancora una volta: non del bisogno appagato, né del benessere, ma della vera felicità, che è consapevole di essere un dono, al di sopra dei diritti e delle possibilità.
Tutto ciò sta in stretto rapporto con la libertà. Da un punto di vista ontologico si è tentati di dire che qui si tratta della libertà dell’essere. In queste manifestazioni si scioglie il suo travaglio, si allenta la sua chiusura. Hölderlin ha una meravigliosa espressione: l’esistenza «fiorisce». Una esistenza puramente meccanica sarebbe incatenata in se stessa. Anche considerando la condotta dell’uomo, si deve riconoscere che egli deve avere il senso e la volontà della libertà per poter cogliere questi momenti. I suoi occhio si devono aprire, il suo cuore si deve sciogliere; deve ritrarre gioia da quello che da sé si sviluppa. Così fa chi ha l’animo grande e concede libertà all’essere, e chi ha il senso dell’umorismo, il quale riconosce un senso anche nelle cose strane e spiacevoli.
Le favole sono un tentativo di dare una rappresentazione pura di questo aspetto. In esse la vita appare tale che il gratuito e il «grazioso» trionfa, e per questo appaiono naturali ai bambini, il cui mondo così è costruito. Ma in un senso più profondo esse sono vere anche per l’adulto, perché lo fanno certo di un elemento che facilmente egli dimentica. «L’invecchiare», il cattivo invecchiare, differente da quello buono, che è saggezza e vicinanza all’eternità, significa che il senso del gratuito diminuisce, che l’animo si fossilizza. Per questo le favole sono una medicina, purché beninteso l’animo sia ancora capace di accoglierle.
Molto accentuato è il momento del gratuito nella vita religiosa, presa nuovamente la parola anzitutto in senso generale. Si può persino dire che esso è fondamentale per l’essenza dell’elemento religioso. Il numinoso o divino può farsi valere nel modo più intenso e grave di conseguenze, ma sta sempre sta al di là. Il suo regno è inaccessibile al movimento che scorre fra le cose mondane e viene raggiunto solo «nel trascendere». Ha anche una propria iniziativa, che non può mai essere afferrata, sollecitata, né certo costretta, ma deve schiudersi da sé. Il divino diviene operante quando e come «vuole». Ciò che esso dà o fa è concessione di una grazia per degnazione che non si può forzare, così come il rifiuto, la collera, l’operare la rovina proviene dalla inaccessibile radice dello sfavore, dell’assenza di grazia. L’esperienza religiosa avverte questo in modo immediato. Aspetti fondamentali dell’atto religioso o della commozione profonda religiosa, quali stupore, sbigottimento, paura, domanda, beatitudine, ringraziamento, testimoniano che tutto questo non può essere attratto da nessuna capacità di cui l’uomo disponga, ma discende piuttosto da una libertà che si riserba a se stessa: ciò significa che esso porta il carattere della grazia. Ci sono anche sentimenti religiosi che espressamente si riferiscono al momento della grazia come tale, così la coscienza di non aver merito alcuno e l’atteggiamento dell’umiltà; il sentimento dell’essere stato prescelto; l’invocazione del perdono e dell’espiazione della colpa e in genere ogni supplica che si compia in forma religiosamente pura.
Il razionalismo, e le forme che ne derivano di una politica del benessere e di una educazione sociale, rinnovano continuamente il tentativo di eliminare l’elemento religioso assieme alla gratuità del suo atteggiamento, per costruire l’esistenza solo sulle evidenze della ragione, della psicologia e dell’ordine sociale; accolgono semmai quell’elemento come una celebrazione festiva, controllata nella misura e nell’efficacia, a sostegno dei fattori concreti. In primo luogo bisogna osservare che, attraverso un tale inserimento nella razionalità e nella tecnica, l’essenza stessa della religiosità viene distrutta, poiché essa può esistere solo col carattere della gratuità. Per quanto riguarda il tentativo di eliminarla affatto, si tratta di sapere se l’elemento religioso è un fenomeno originario, che appartiene all’essenza dell’esistenza, o qualcosa di secondario, che può essere reso superfluo oppure ristrutturato. L’esperienza degli uomini fino a oggi conferma il primo significato, e concorda in ciò con l’analisi teoretica non prevenuta. Se è così, anche la religiosità non può essere eliminata; e quei tentativi non possono condurre ad altro che a eliminare ciò che è spiritualmente essenziale; all’ammalarsi della psiche nel singolo e nella collettività. La storia degli anni successivi alla prima guerra mondiale e alla seconda ha offerto in questo senso ammaestramenti impressionanti e quella dei tempi a venire li proseguirà, per chiunque possa e voglia comprendere la lezione.
Il ciò che è religioso si trova però anche un momento che sembra contraddire quanto si è appena detto. Appena una religione si addentra nella vita di un popolo e forma una tradizione, si determinano orientamenti di vita che obbligano chi vi appartiene. Questo obbligo produce in colui che lo accoglie la coscienza di un diritto davanti all’alta istanza religiosa che ha imposto la legge o nel cui nome la legge è stata imposta. Si pone quindi un vincolo all’iniziativa del nume e viene così pregiudicata la gratuità della sua munificenza.
All’idea di una tale rivendicazione di diritto si accosta per molti aspetti quella di un potere che può essere esercitato sul nume. La magia ne rappresenta la forma più evidente. Essa poggia sul presupposto che le essenze e le potenze divine appartengono alla identica realtà universale cui appartiene il credente e sono a lui congiunte entro una comune legge di comportamento. Se l’uomo conosce questa legge, può costringere il nume. La forma più semplice è conoscere il nome dell’essenza divina e pronunciarlo con la volontà di costringerlo: evocazione quindi e scongiuro. Più complesse sono le pratiche di culto che esprimono in forma simbolica la cosa desiderata e credono di ottenere così con la forza la sua realizzazione. Anche tali pratiche tendono a limitare la gratuità del comportamento divino.
Fra il diritto e la costrizione magica sta il modo con cui l’ascesi e la contemplazione cercano sovente di esercitare il proprio influsso. Attraverso la purificazione, la rinuncia, la concentrazione, il religioso si pone in una condizione che, essendo gradita a Dio, o conforme a Lui, rappresenta una pretesa di fronte al nume. In questa condizione inoltre si raccoglie e si accentua la potenza religiosa personale dell’uomo e si genera il sentimento di possedere un potere sul nume cui l’asceta si volge.
Tutti questi atteggiamenti tanto più allargano il proprio ambito, quanto più profondamente decadono di dignità le idee e i sentimenti religiosi. Essi possono prendere il sopravvento a tal punto da distruggere il vero carattere della religiosità e da ridurre tutto l’atteggiamento a una pura pratica.
Tratto da «LIBERTÀ, GRAZIA, DESTINO» – 1948