Archiloco e lo schiudersi del sé

di Werner Jaeger.

Il rinnovamento dello stato sulla base comune del diritto per tutti creò il nuovo tipo umano del cittadino e fece della creazione di una norma generale della vita civile una necessità urgentissima per la nuova comunità. Ma, se l’ideale della società aristocratica della Grecia arcaica aveva trovato nell’epos la sua espressione oggettiva, se nella sua poesia Esiodo aveva plasmato in forma imperitura la sobria saggezza dell’esperienza e dell’etica del lavoro degli agricoltori, e Tirteo le severe esigenze dello spirito statale spartano, ci manca invece sulle prime un’analoga piena espressione della nuova idea della polis nella poesia dell’epoca. Per quanto pronta fosse la cultura della polis ad accogliere in sé la cultura precedente, assumendo in servizio proprio, con questa, l’alta poesia quale mezzo della sua rappresentazione ideale, non altrimenti che la musica e la ginnastica della passata epoca aristocratica, tuttavia non si trattava affatto d’una incarnazione del suo particolare contenuto essenziale in creazioni poetiche sue, le quali potessero competere con la poesia del passato, divenuta già classica. 

Caratteristico del nuovo stadio della comunità umana è che la lotta politica per la norma ideale della vita e dell’attività rigorosamente legale spinge con somma decisione a fissarne i comandamenti in principi chiari e validi per tutti. Di fronte a quest’esigenza morale, così vivamente sentita, il bisogno di una figura poeticamente evidente dell’uomo nuovo restò dapprima eclissata. I fattori poeticamente fecondi della vita della polis parevano esauriti già in Omero, Callino, Tirteo. Tutto l’ambito della vita cittadina quotidiana rimaneva necessariamente inaccessibile alla poesia sublime e l’eroismo di Solone, interno alla polis, che doveva diventare fonte di una nuova alta poesia, non si affacciò alla mente d’alcun figlio della Ionia o dell’Eolia.

In compenso si dischiude un nuovo ambito della poesia prodotto dal dinamismo della volontà di vivere individuale, soffocata dalla crescita dell’invadenza dello stato. I poeti esprimono per la prima volta, in nome proprio, sentimenti e opinioni proprie. La comunità rimane per loro nell’ombra. Anche dove toccano frequentemente di politica, questa non si presenta come norma generale che esiga rispetto, come in Esiodo, Callino, Tirteo e Solone, ma quale passione di parte spiccatamente personale, come in Alceo, o insistenza del singolo del suo diritto, come in Archiloco.

È sommamente caratteristico del tipo d’individualità che per la prima volta in questa poesia prende a muoversi con meravigliosa scioltezza quale sentimento tutto ripiegato sull’interiorità, immerso in se stesso, dell’Io nel suo legame o distacco dal mondo, quale effusione di puro sentimento. Forse questo moderno tipo consapevole d’individualità poetica non è che un ritorno dell’arte all’originaria forma naturale d’ingenua espressione del sentimento individuale, quale si trova presso gli uomini delle epoche e delle razze più diverse e indubbiamente sin da un grado di cultura remotissimo.

Pensiero e sentimento del poeta greco conservano tuttavia, entro la sfera dell’Io di nuova conquista, un certo riferimento a un elemento normativo, a un dover essere. È difficile intendere con precisione che cosa dobbiamo precisamente intendere per individualità in Archiloco e simili: non è certamente il senso moderno post-cristiano dell’Io, inerente all’anima singola conscia dell’intimo suo valore. Presso i Greci, l’Io è concepito sempre in un nesso vivo con tutto il mondo circostante, con la natura come con la società umana, non già staccato da essa. Ciò toglie alle manifestazioni di tale individualità l’elemento propriamente soggettivo; si potrebbe anzi dire che, in una poesia come quella di Archiloco, l’Io singolo ha appreso ad esprimere e a rappresentare in sé l’intero mondo oggettivo e le sue leggi. L’individuo greco non consegue la sua libertà e lo spazio in cui muoversi sicuro di sé, con l’abbandonare semplicemente le redini all’elemento soggettivo, bensì con l’oggettivarsi spiritualmente. Nella misura in cui si contrappone, come un mondo a sé, alla legge esteriore, esso scopre per così dire le sue proprie leggi interiori.

Spesso, ciò che a prima vista ci appare in Archiloco puro soggettivismo non è che un’emanazione d’una mutata concezione generale del decente e dello sconveniente e d’una ribellione contro gli idoli dell’opinione pubblica e l’autorità della tradizione. Né si tratta soltanto di una comoda elusione di norme tradizionali, ma è la seria lotta per una nuova norma. L’ordine sociale antichissimo non conosceva istanza di giudizio più elevata, quanto all’uomo, che la pubblica fama. Essa è semplicemente inappellabile. Nel profondo rispetto di essa il mondo aristocratico omerico s’incontra con la morale esiodea dei contadini e degli operai. Archiloco indica uno stadio più libero quando, di fronte al giudizio del demos circa il giusto e l’ingiusto, la gloria e l’onta, si sente affatto indipendente:

“Se ci si volesse occupare delle querule ciance della gente, allora nessuno avrebbe gran soddisfazione dalla vira”

Certo, in questa emancipazione la pigrizia dell’umana natura ha avuto la sua parte da non sottovalutare; la motivazione lo indica chiaramente. Una certa trascuratezza accompagnava dappertutto la nuova libertà e naturalezza. Ma non furono solo moventi edonistici a condurre la ribellino contro di essa. Si dice che la polis riservi onorata memoria di un uomo benemerito verso di essa oltre la sua morte – lo proclamavano infatti tutti i poeti, a cominciare da Omero, quale premio sicuro del merito – ma:

“tra la gente di questa città nessuno dopo morte incontra più riverenza né onorato ricordo. Sinché viviamo, noi corriamo dietro al favore di chi è vivo, ma per il morto la va sempre nel modo peggiore”.

L’opinione umana è mutevole come il giorno che Zeus suscita: così insegnava già Omero. Anche Archiloco pone questa nozione omerica nel mezzo della vita che lo circonda. Che ci si può aspettare di grande da siffatte creature effimere? L’antica etica aristocratica poteva ancora venerare nella fama un’autorità superiore, intendendo per essa altra cosa: la gloria di grandi azioni e il suo lieto riconoscimento nella cerchia degli uomini d’alto sentire. Trasportato alle chiacchiere del volgo denigratore, che misura ogni grandezza sulla propria meschina misura, questo senso diventa un non-senso. Così il nuovo spirito della polis, per necessario antidoto alla maggior sfrenatezza di pensieri ed azioni, suscita la critica pubblica. Così sorge la poesia satirica letteraria ed assume importanza sempre maggiore nella vita della polis arcaica sancendo il ruolo sempre maggiore del demos.

L’essenza del genuino vituperio popolare sorse in funzione soprattutto sociale. Non fu biasimo morale nel senso nostro, né rancore arbitrariamente personale che abbia semplicemente a sfogarsi su ogni vittima innocente. La forte influenza di questa nuova poesia derivava da un bisogno profondo dell’epoca. Penetrava così per la prima volta nella poesia greca un elemento che si stacca stranamente dallo stile elevato della forma omerico-epica, quale mostrano ancora le elegie stesse di Archiloco. Questa nuova maniera è un tributo dello stile poetico allo spirito della polis, le cui violente passioni non si potevano frenare col solo epainos dell’educazione aristocratica omerica. Invero, come notarono gli antichi, la “volgare natura” dell’uomo abbisogna più del biasimo che della lode per stimolo. 

Archiloco si espresse anche in componimenti ammaestrativi e riflessivi. Egli esorta gli amici a sostenere con virile pazienza la sventura o consiglia di rimettersi in tutto agli dèi. Tutto viene agli uomini dalla Tyche e dalla Moira. La lotta dell’uomo col destino è trasferita qui, dal mondo grandioso degli eroi, nella regione quotidiana del presente. Sua scena è la vita del poeta il quale, attraverso il modello dell’epos, acquista egli stesso coscienza di sé quale persona che soffre ed agisce e riempie la propria esistenza del contenuto della concezione epica del mondo. Quanto più liberamente e consapevolmente l’Io umano apprende e dirige i passi del suo pensiero e della sua azione, tanto più saldamente si sente legato al problema del proprio destino.

L’evoluzione dell’idea della Tyche procede dipoi per i Greci sempre di pari passo con quella del problema della libertà umana. Aspirare ad un massimo di indipendenza significa tuttavia rinunciare a molte cose che sono date all’uomo quale dono della Tyche. E così troviamo non a caso in Archiloco, per la prima volta, con piena chiarezza, la professione di fede personale di un uomo interiormente libero, indirizzata ad una determinata forma di vita liberamente scelta, una vera “scelta di vita”, nei famosi versi nei quali si ricusa d’aspirare alle ricchezze di Gige, di oltrepassare coi propri desideri il limite tra l’uomo e la divinità e di stender la mano verso il potere della tirannide. “Che lungi è essa dai miei occhi”. In questo primo grande monologo della letteratura greca viene applicata l’apostrofe esortativa già vista nell’Odissea, cui Archiloco si riallaccia quanto all’idea e alla situazione. Ma che egli ha fatto del detto tante volte citato d’Odisseo:

Cuore, sopporta, ben altro hai sopportato più cane!”.

Egli esorta il proprio coraggio ad emergere dal vortice di sofferenze disperate nelle quali è sommerso, ad opporre arditamente il petto ai nemici e a difendersi con atteggiamento sicuro.

Né devi, da vincitore, pavoneggiarti di fronte a tutti, né, da vinto, a casa, gettarti a terra e gemere; ma allégrati di quanto è lieto, non ceder troppo alla sventura, e riconosci quale ritmo tenga vincolati gli uomini”.

La considerazione dalla quale muove questo ethos sovrano si solleva qui al di sopra del consiglio meramente pratico di moderazione tratto direttamente dalla vita, all’idea universale di un ritmo insito in tutta l’esistenza umana. Su questa Archiloco fonda la sua esortazione a padroneggiarsi e il monito contro ogni eccessivo abbandonarsi al sentimento di gioia o di dolore, cioè, per lui, alla fortuna o alla sventura che viene dall’esterno, dal destino. In questo ritmo par già sentire qualche cosa dello spirito della filosofia naturale e della riflessione storica ionica, che prima si spinse ad una rappresentazione oggettiva della regolarità nel corso naturale dell’esistenza. Erodoto parla addirittura del “ciclo delle cose umane” intendendo soprattutto l’alto e basso della umana fortuna. Ritmo non si tratta di una parola che i Greci hanno tratto dalla musica, ma la intendono come “schema”, all’opposto del fluire, la saldezza e la rigorosa limitazione del movimento. 

In Archiloco assistiamo al miracolo d’una nuova cultura personale, che si basa sul consapevole riconoscimento di un’ultima, salda forma fondamentale e comune, data da natura, della vita umana. Un adeguarsi cosciente ai suoi limiti, libero dell’autorità della vera tradizione, si annuncia. Il pensiero umano assume direttamente la difesa della propria causa e, come nella convivenza della polis tende a fissare per legge le norme valide per tutti, così, oltre questo limite esteriore, si spinge ormai nella sfera dell’interiorità umana, per serrare là dentro, in salde barriere, anche il caos delle passioni. 

Nei secoli seguenti, il vero campo di questa ricerca è la poesia; solo più tardi, e in seconda linea, vi si aggiunge la filosofia. Il cammino della poesia, movendo da Omero, appare evidente, in Archiloco, nel suo indirizzo spirituale. La poesia dei tempi nuovi è nata dall’intimo bisogno che prova l’individuo, movendosi più liberamente, d’un progressivo affrancamento dei problemi generalmente umani dal contenuto mitico dell’epos, che ne era stato sin d’allora l’unico rappresentante. Facendo letteralmente proprio il contenuto ideale e problematico dell’epos, i poeti, nell’elegia e nel giambo, gli conferivano l’autonomia dei nuovi generi poetici particolari e lo trasformavano in vita personale.

Della poesia ionica del primo secolo e mezzo dopo Archiloco ci rimane giusto abbastanza per riconoscere come essa proceda del tutto su queste rotaie; nessuno, tuttavia, eguaglia in larghezza di mente il grande innovatore. È soprattutto la forma riflessiva del giambo di Archiloco e dell’elegia ad esercitare la sua influenza sui posteri. 

Quanto più severamente la polis piegava la vita dei cittadini alla costrizione della legge, tanto più necessariamente il “bios politico” chiedeva in compenso un allentamento delle redini nella sfera della vita privata. È quanto Pericle, nel suo quadro ideale dello stato ateniese, contenuto nell’elogio funebre, presenterà poi quale divario tra la libera umanità attica e i troppo rigidi vincoli spartani: “Noi non prendiamo in mala parte se il nostro prossimo si concede a volte uno spasso per conto suo, e non glielo facciamo scontare amaramente facendogli il viso dell’armi”. Questa libertà di mosse è il margine necessario, lasciato al singolo dalla legge della polis, che tutti vincola, ed è anche troppo umano che l’impulso ad estendere il campo dell’esistenza individuale si presenti in quell’epoca, per il volgo, quale esigenza d’un più intenso e consapevole godimento della vita per parte del singolo. Ciò non è vero individualismo; non mette capo al conflitto con le potenze super-individuali. Ma entro le loro barriere si espande e si estende sensibilmente la sfera del bisogno personale di felicità. La parte spettante a ciascuno pesa ora di più sulla bilancia della vita. Nella cultura attica dell’età di Pericle, tale delimitazione delle due sfere della vita è fondamentalmente accettata dallo stato e dall’opinione pubblica; ma questo riconoscimento ha dovuto conquistarselo e questo passo fu fatto nella Ionia. Ivi sorge per la prima volta una poesia edonistica, che proclama con appassionata insistenza la legittimità del desiderio di felicità e bellezza sensibile e la vanità d’una vita priva affatto di tali beni.

Nella storia delle idee, la poesia edonistica rappresenta uno dei momenti più importanti dello sviluppo della grecità. Basta ricordare come, nel pensiero greco, il problema dell’individuo nell’etica e nella struttura dello stato si sia sempre presentato. nel senso che il motivo del piacevole cerca di prendere il sopravvento sull’eletto. Nella sofistica scoppia il conflitto aperto di questi due moventi d’ogni azione umana, e la filosofia di Platone culmina nel superamento della pretesa del piacere ad essere il bene supremo dell’umanità. Per portare al parossismo i contrasti come avvennero nel V sec., per superarli come si cercò di fare nella filosofia attica da Socrate a Platone, e per condurli all’armonia, come voleva l’ideale aristotelico della personalità umana, era necessario che l’umana sete di una piena gioia di vivere e di un godimento consapevole ottenesse prima la sua conferma in linea di massima di contro all’esigenza del calón, quale è rappresentata dall’epos e dall’elegia arcaica. Ciò ha luogo dalla poesia ionica di Archiloco in poi. Il significato dell’evoluzione spirituale che vi si compie è indubbiamente centrifugo. Essa libera le forze e allenta l’impalcatura sociale della polis di tanto almeno, quanto contribuì al suo consolidamento con l’istituire l’impero della legge.

Per portare alla discussione e all’accettazione pubbliche tali esigenze, occorreva la forma ammaestrativa della riflessione, che è propria dell’elegia e del giambo post-archilochèi. L’edonismo non vi si presenta quale casuale tendenza individuale del singolo; i poeti motivano invece in principi generali il “diritto” dell’individuo al godimento della vita. Il pensiero investe la poesia, che era stata sempre rappresentante delle idee etiche, e le infonde il proprio spirito. Il poeta si presenta al suo uditorio quale filosofo della vita. Anche nel suo passaggio dall’elemento eroico all’elemento umano privato, la poesia conserva il suo atteggiamento educativo.

Se la poesia post-archilochèa della Ionia, intorno al trapasso dal VII al VI sec., si diffonde, in forma di riflessioni generali, sui naturali diritti alla vita che l’uomo ha, nella lirica eolica di Saffo e d’Alceo, ambedue di Lesbo, prorompe la vita interiore individuale.

A questo fenomeno, unico nel campo della vita spirituale greca, quella che più si avvicina è la forma della manifestazione individuale di Archiloco, la quale presenta non solo pensieri generali, ma reali esperienze personali, con la sfumatura colorita del sentimento individuale. Con Archiloco si consegue, nel dar forma generale a ciò che sembrerebbe totalmente soggettivo ed informe, una sicurezza dalla quale sorgerà in Saffo il dono mirabile di elevare anche l’elemento personalissimo ed eternamente umano, senza togliergli l’attrattiva dell’immediatezza della vita vissuta. 

Il vivo nesso dei canti bacchici d’Alceo col simposio mascolino, quello del canto nunziale e amoroso di Saffo con la musica delle giovani compagne, che si raccolgono attorno alla poetessa, acquista un’importanza ancora più profonda e positiva. Il simposio, con la sua scioltezza di contegno, ma anche con l’alta sua tradizione intellettuale, è per l’elemento mascolino la sede principale d’una libera espansione del nuovo atteggiamento e della nuova comunicabilità individuale. 

Oltre alla poesia bacchica v’è la forma culturale dell’inno e della preghiera, ma anch’essa non è che un’altra forma primordiale dell’espressione umana, che la poesia riprende. Appunto nella preghiera l’uomo, nel suo isolamento, sta di fronte all’Essere quale nudo Io, in un atteggiamento originario. Per il soggetto orante, l’apostrofe alla potenza divina quale Tu invisibilmente presente si fa sempre più organo d’espressione dei propri pensieri o di libera effusione del proprio sentimento senza testimoni auricolari umani, di che il più bell’esempio ci è dato dalle preghiere di Saffo.

Par quasi che lo spirito greco avesse bisogno di questa donna per compiere l’ultimo passo penetrando nel mondo della nuova interiorità del sentimento soggettivo. Che ciò fosse qualche cosa di grande, sentirono i Greci, onorando Saffo, secondo il detto di Platone, quale decima musa. 

La lirica di Saffo è concentrata sul mondo della donna che la circonda, ma questo medesimo in quella parte soltanto che è costituita dalla vita che la poetessa ha in comune con la cerchia delle sue fanciulle. La donna quale madre, amata e sposa dell’uomo, quale più spesso si presenta nella poesia greca ed è esaltata da poeti d’ogni epoca, perché in questa forma vive nella fantasia virile, non appare nei canti di Saffo se non a volte, all’affacciarsi o al partire di una delle fanciulle del suo gruppo. Essa non è oggetto per Saffo di ispirazione poetica. La donna compare nella sua cerchia quale giovinetta che comincia a staccarsi dalla madre. Sotto la custodia della donna non sposata, la cui vita, come quella di una sacerdotessa, è tutta consacrata al culto delle Muse, riceve la consacrazione del Bello nella danza collettiva, nella musica e nel canto. Allo spirito virilmente eroico della tradizione Saffo univa l’ardore e la grandezza dell’animo femminile nei propri canti, dove vibra l’orgoglio particolare della consona vita comune del suo ambiente. Tra la casa paterna e l’ingresso nella vita coniugale s’inserisce qui una sorta d’ideale sfera intermedia, che non possiamo intendere se non quale educazione della donna alla più alta nobiltà dell’anima femminile. Per la donna, l’esperienza amorosa sta al centro della sua esistenza, ed ella soltanto l’accoglie con l’unità della sua natura indivisa. Nella relazione con l’uomo, in quell’epoca, cui era estraneo ancora il concetto del matrimonio d’amore, ciò doveva essere molto difficile da conseguire; così come, d’altra parte, l’amore dell’uomo nella sua più alta spiritualizzazione non si atteggiò poeticamente nella relazione con la donna, bensì in forma di eros platonico. 

L’arte suprema di Saffo sta nella sobrietà, spoglia di sentimentalismo come è il canto popolare, e nella immediata verità sensuale dell’interiorità rappresentata. 

Gli uni dicono che la cosa più bella della terra sia un gruppo di cavalieri, altri uno di fanti guerrieri, altri ancora di navi. Ma io dico: la cosa più bella è l’essere amato, che il cuore brama”.

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