La grande spedizione di Alessandro Magno per la conquista dell’Oriente (334-323 a.C.) fu un avvenimento che fece epoca, nel senso più forte dell’espressione, giacché chiuse un’era e ne aprì una nuova. Il crollo della polis e della filosofia platonica e aristotelica che la giustificava, fu provocato da Alessandro, che le tolse ogni libertà formale e sostanziale al fine di realizzare il suo disegno di una monarchia universale divina che avrebbe dovuto riunire non solo Città, ma paesi e razze diverse. Questo progetto non fu portato a termine a causa della prematura morte del macedone nel 323 a.C., e così il potere politico del dissolto impero passò ai nuovi regni che si formarono in Egitto, in Syria, in Macedonia e a Pergamo, e le poleis cessarono di fare storia. I monarchi accentrarono tutto il potere nelle loro mani, non tollerarono alcuna limitazione, si identificarono con lo Stato in modo pressoché totale e cancellarono ogni forma di libertà politica. Veniva così distrutto quel valore fondamentale della vita spirituale della Grecia classica, che Platone nella Repubblica e Aristotele nella Politica avevano teorizzato e presentato come paradigma ideale. Il Greco dell’età classica aveva sempre considerato la polis come l’orizzonte unico della vita morale, al di là del quale l’uomo non poteva concepire la propria esistenza né in rapporto con gli altri né in rapporto con sé, in quanto identificava quasi per intero l’uomo e il cittadino.
Con la rivoluzione di Alessandro l’uomo diventa suddito disperdendo le più antiche virtù civiche e portando in auge l’apparato di funzionari e di mercenari per l’amministrazione della cosa pubblica. Perciò il cittadino non specialista perde interesse per la Città se non prova avversione. La filosofia teorizzerà questa realtà in maniera esplicita e collocherà lo Stato e la politica o fra le cose neutre o addirittura fra le cose negative, perché fonte di ambizioni, di passioni, di preoccupazioni e inutili turbamenti. Nel 146 a.C. la Grecia perderà ogni sua libertà, diventando una provincia romana, e come la storia greca anche la filosofia greca non vide fra la polis e la sua negazione una nuova possibilità concreta, rifugiandosi in un cosmopolitismo che divenne tesi dominante senza antitesi né reale né ideale. La rottura dell’identificazione fra uomo e cittadino ebbe anche un risvolto positivo: l’uomo fu costretto dalla forza degli eventi a chiudersi in sé stesso e a cercare nel suo intimo nuove energie, nuovi contenuti morali e nuovi scopi del vivere. In questo modo l’uomo si scoprì come individuo. L’educazione civica del mondo classico formava dei cittadini; la cultura dall’età di Alessandro in poi ha foggiato degli individui. Nelle grandi monarchie ellenistiche i legami e i rapporti fra l’uomo e lo Stato divengono sempre meno stretti e imperiosi; le nuove forme politiche, il cui potere è tenuto da uno solo o da pochi, sempre più concedono ad ognuno di formare a suo modo la propria vita e la propria persona morale, e anche nelle città in cui perdurano, come in Atene, gli antichi ordinamenti, l’antica vita civica ormai degradata, pare sopravviva a sé medesima, intimidita, senza seguito. L’individuo è ormai libero di fronte a sé stesso. L’avventuriero in cerca di fortuna viene ritratto con simpatia. Le nuove monarchie dell’Asia e dell’Egitto, coi loro fascini di favolose ricchezze, con l’occasione data ad ogni ingegno di farsi luce, la facilità di viaggi e di commerci nel penetrato Oriente, traggono a sé i più vari spiriti, offrono loro momentanee patrie mutevoli ove si addensa una folla che ha per supremi dei la rinomanza o il danaro o l’avventura. Ognuno vale, non più come membro della città in cui è nato, di cui debba dividere la fortuna, la grandezza, la sventura, ma quanto vale il suo ingegno, l’intimo genio del suo spirito. L’uomo pare tutto ormai: unico artefice del suo valore e del suo destino, signore a sé stesso. La distinzione dell’individuo dal cittadino attenua e in certi casi fa scomparire il senso civico, comportando in filosofia la radicale distinzione e la netta separazione fra etica e politica. La cultura ellenica, diffondendosi tra tutte le razze e tutti i popoli, divenne ellenistica. Si formarono nuovi centri di cultura quali Pergamo, Rodi e soprattutto Alessandria con la sua famosa biblioteca e del Museo dovuta ai Tolomei.
La filosofia diviene la fonte da cui l’uomo ellenistico attinge i valori che prima attingeva dalla polis e dalla religione della polis: offre nuovi contenuti di vita spirituale, illumina le coscienze, aiuta l’uomo a vivere e gli insegna come essere felice anche nella tragica età in cui vive, nella quale tutti gli antichi valori sembrano sovvertiti. I filosofi dell’età ellenistica sono sostanzialmente dei grandi moralisti, sono dei predicatori di un credo etico, sono a loro modo, apostoli e missionari.
L’ellenismo perde il senso della trascendenza, del sopra sensibile, del meta-fisico, dello spirituale e quindi non può pensare se non per categorie immanentistiche, fisicistiche e materialistiche. Al filosofo ellenistico e ai suoi seguaci, non importava la sophía ma la phrónesis; importava cioè risolvere il problema della vita. Solo una parte esigua di quanto essi dissero e scrissero all’infuori di questo problema ha validità autonoma e significato specifico. Tuttavia, nel risolvere il problema della vita, i filosofi di quest’età crearono qualcosa di veramente grandioso: il Cinismo, l’Epicureismo, lo Stoicismo e lo Scetticismo stabilirono modelli di vita cui gli uomini continuarono ad ispirarsi per oltre mezzo millennio e che poi restarono veri e propri paradigmi spirituali. La concezione della filosofia come “arte del vivere”, ossia come saggezza pratica, doveva necessariamente portare in primo piano le istanze socratiche a cui si ispirò chiaramente Epicuro, definendo la filosofia come arte medica che “cura i mali dell’anima” e dichiarando tutto il resto verbalismo inutile. Socratici si dichiararono anche tutti gli altri ma profondamente socratica fu soprattutto la convinzione di tutti che il vero filosofo è tale solo nella misura in cui sa realizzare una piena coerenza fra dottrina e vita o, meglio ancora, fra teoria e modo di vivere e di morire. Diviene dominante, in tutte le scuole, l’idea di autarchia, del bastare a sé stessi, con cui estendono l’istanza di totale affrancamento addirittura nei confronti del Destino, della Tyche, dell’Inevitabile. L’individuo viene sciolto da ogni dipendenza e viene quasi assolutizzato.
Tutte le tesi essenziali dell’Epicureismo acquistano il loro giusto stato storico e teoretico nel contesto della polemica antiplatonica e antiaristotelica. Epicuro ritiene che la sensazione costituisca il più solido criterio di verità e che sia sempre e solo verace e che, dunque, colga l’essere. La visione della phisis, della realtà, da lui proposta, diviene un vero e proprio materialismo, in conseguenza della negazione chiara ed esplicita del soprasensibile, dell’incorporeo dell’immateriale. Epicuro mentre riafferma la necessità dell’ontologia come fondamento dell’etica, capovolge la gerarchia platonico-aristotelica e dichiara l’etica superiore alla fisica. Alla scienza e alla sophía, viene sovraordinata la phrónesis, la saggezza. Epicuro contesta definitivamente l’identificazione dell’uomo col cittadino; anzi condanna addirittura la politica come inutile affanno e proclama la validità e l’eccellenza del vivere nascosto. Anche la scelta del luogo dove sorse la Scuola è espressione di questa novità rivoluzionaria: è un luogo fuori dal comune, un edificio con giardino nei sobborghi di Atene. Nel Giardino si gustava la pace della natura e la bellezza del paesaggio. Il verbo che veniva dal Giardino può riassumersi in poche proposizioni generali:
- la realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall’intelligenza dell’uomo;
- nelle dimensioni del reale c’è spazio per la felicità dell’uomo;
- la felicità è mancanza di dolore e turbamento, è pace dello spirito;
- per raggiungere questa felicità e questa pace, l’uomo ha bisogno solo di sé stesso;
- non gli servono, quindi, la Città, le istituzioni, la nobiltà, le ricchezze, le cose tutte e nemmeno gli dei: l’uomo è perfettamente autarchico.
Il Giardino volle aprire le sue porte a tutti e l’unico legame ammesso come veramente fattivo, al suo interno, era l’amicizia, intesa come un libero legame fra individui che pensano e vivono in modo identico. Nell’amico l’Epicureo vede quasi un altro sé stesso, l’amicizia muove dall’utile ma, una volta sviluppatasi, diventa un bene per sé in quanto è e dà piacere, essa è infatti il coronamento e il suggello della felicità del saggio.
La filosofia morale, a partire da Socrate, aveva fissato adeguatamente lo statuto dell’etica. Essa deve stabilire quale sia l’essenza dell’uomo, quale sia la sua peculiare aretè, il suo specifico bene, e quindi il suo modo di vivere per raggiungere questo bene che lo rende felice. E, da Socrate ad Aristotele, concordemente, la speculazione morale aveva stabilito che il bene morale dell’uomo altro non è che l’attuazione della sua essenza, il realizzare pienamente ciò che egli è, e che la felicità si raggiunge sempre e solo per questa via della compiuta realizzazione della propria essenza. Anche Epicuro condivide questa formale impostazione dell’etica, ma egli se ne stacca nettamente nella determinazione dell’essenza dell’uomo, cioè nella determinazione del fondamento stesso dell’etica. Secondo i suoi principi di fisica, se materiale è l’essenza dell’uomo, materiale sarà anche il suo specifico bene, quel bene che, attuato e realizzato, rende felici. E quale sia questo bene, la natura – considerata nella sua immediatezza – ce lo dice esplicitamente mediante i sentimenti fondamentali del piacere e del dolore, così come esplicitamente, mediante la sensazione ci dice che ciò è vero. Epicuro ammette che lo stato di quiete, cioè assenza di dolore, possa essere un piacere, e gli annette grandissima importanza. Egli ritiene il piacere catastematico come il supremo e più genuino piacere, poiché corrisponde allo stato di assenza di dolore (aponía) e assenza di perturbazione (atarassía), mentre l’altro reca sempre, assieme al movimento, anche turbamento. A chi riteneva che i piaceri fisici fossero superiori ai piaceri dell’animo, Epicuro sagacemente obiettava che la carne gode solamente di ciò che è presente, mentre l’anima, col ricordo, gode del piacere passato e può anche anticipare, con l’attesa, quello futuro. Ecco perché i piaceri dell’anima sono superiori a quelli del corpo. Per Epicuro, la funzione di regia nella vita morale non è già esercitata dal piacere come tale, bensì dalla ragione, dal ragionamento, dal calcolo applicato ai piaceri per stabilire quali producano solo piaceri e quali invece dolori, e quindi quali siano utili e quali dannosi. Il calcolo delle utilità, il giudizio che dissipa gli errori e la giusta valutazione dei piaceri dipendono dalla phrónesis, dalla saggezza. In tal modo la saggezza viene proclamata come virtù suprema e viene rovesciata la gerarchia di Aristotele che all’apice metteva la sapienza o sophía (e quindi la scienza pura), nella dimensione della pura contemplazione, e non la saggezza, che invece è strutturalmente collegata alla vita pratica dell’uomo. Quali sono i concreti suggerimenti circa la valutazione e l’elezione dei desideri e dei piaceri? Dapprima bisogna distinguere tre grandi classi di piaceri:
- piaceri naturali e necessari;
- piaceri naturali ma non necessari;
- piaceri non naturali e non necessari.
Noi dovremo accontentarci di soddisfare sempre il primo tipo di desideri e di piaceri; dovremo limitarci nei confronti dei secondi; non dovremo mai cedere ai terzi. E qui Epicuro manifesta una presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata molteplicità dei piaceri. Infatti, fra quelli del primo gruppo, egli pone unicamente i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell’uomo. Fra quelli del secondo gruppo, egli pone invece tutti quei desideri e piaceri che costituiscono, per così dire, le variazioni superflue dei piaceri naturali. Infine, nel terzo gruppo, Epicuro pone i piaceri vani, nati cioè dalle vane opinioni degli uomini, quali sono tutti i piaceri legati al desiderio di ricchezza, potenza, onori e simili. È una gioia, questa dei piaceri naturali e necessari, la quale, più che dall’azione delle cose su di noi, deriva dalla limitazione che noi poniamo alle sollecitazioni e agli effetti delle cose su di noi. E, per conseguenza, è una gioia che può essere a disposizione di tutti, purché si voglia seguire la natura. Sfrondiamo dunque i nostri desideri, riduciamoli a quel nucleo essenziale, e ce ne verrà ricchezza e felicità copiosa, perché per procurarci quei piaceri noi bastiamo a noi stessi, e in questo bastare a sé stessi (autarchía) sta la più grande ricchezza e felicità. “A chi non basta poco, nulla basta” e “Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta“, queste sono le due massime morali dell’Epicureismo.
EPICURO (n.Samo 341aC – m.circa 270 a.C.)
Fondatore della grande “Scuola del Giardino” di matrice ellenistica.