di P. Courcelle.

Il precetto “Conosci te stesso” ha goduto di una fortuna ininterrotta dall’Antichità classica fino all’età moderna, attraversando il Medioevo. 

Sicuramente la fortuna del precetto delfico non può essere ricondotta alla fama del suo autore, dato che già nell’Antichità se ne ignorava il nome. Il precetto è stato talvolta attribuito ad Apollo, altre volte alla Pizia Femònoe o Fanotèa, oppure ai sette saggi o a uno solo di essi: come probabili autori venivano, infatti, indicati Chilone, Talete, Solone o Biante, oppure ancora si faceva risalire la massima delfica a Omero o all’eunuco Labione.

Qualunque sia l’origine della sua formula, è difficile revocare in dubbio che il successo del “Conosci te stesso” dipenda in misura rilevante tanto dal costante uso letterario che ne è stato fatto quanto dalle svariate interpretazioni filosofiche cui si è prestato. Nei testi più antichi il precetto viene inteso come un invito rivolto all’uomo perché si riconosca un semplice mortale e non presuma di potersi paragonare a un dio.

È tuttavia a Socrate che deve essere riconosciuto un ruolo fondamentale nel conferimento di un significato più filosofico al gnosci sautón, che fino ad allora era stato interpretato in senso essenzialmente religioso; procedendo in tal senso, Socrate finisce per urtare la sensibilità di alcuni dei suoi contemporanei. In ogni caso, al contrario di quanto è sembrato fare ad Aristofane nelle Nuvole, i discepoli di Socrate hanno guardato con ammirazione alla sua dottrina del “Conosci te stesso” e a loro dobbiamo la cospicua mole di informazioni a nostra disposizione.

Platone nell’Alcibiade primo, scritto al tempo del suo soggiorno a Megara, poco dopo la condanna di Socrate avvenuta nel 399 a.C., rappresenta in Alcibiade il giovane presuntuoso con ambizioni politiche ma con attitudini contrarie al precetto che definisce che per sapere qualcosa della realtà che ci circonda bisogna innanzitutto conoscere se stessi. La cura di sé non richiama alla conoscenza del proprio corpo o dell’insieme anima e corpo, ma della sola anima la cui natura consiste precisamente nel governo del corpo. Sulla stessa linea di pensiero troviamo l’Apologia di Platone in cui Socrate è alle prese con la malevolenza dei suoi nemici, irritati da certe idee che questi professa pubblicamente. Socrate dice infatti di possedere la scienza che più di ogni altra riguarda l’uomo, ovvero la conoscenza di se stessi, la sola che permette di scoprire il nulla della nostra sapienza. Diversamente da lui, tutti gli uomini con cui Socrate ha avuto modo di discutere, politici, poeti o artigiani credevano sempre di sapere qualcosa. La condotta di Socrate è coerente con il precetto delfico anche quando, comportandosi in modo opposto alla maggior parte degli uomini, decide di non sottrarsi alla condanna a morte semplicemente perché sostiene di ignorare se la stessa morte sia un bene o un male. Egli si mantiene fedele alla dottrina del “Conosci se stesso” allorché indica il bene più grande, in vista del quale la vita merita di essere vissuta, nella possibilità di discutere sulla virtù o su qualsiasi altro argomento, sottoponendo se stessi e gli altri a un’incessante analisi filosofica.

Il Socrate descritto da Senofonte nei suoi “scritti socratici”, probabilmente posteriori all’anno 370 a.C., ribadisce la dottrina socratica come un invito a misurare sempre le propri capacità e le proprie azioni in base alla credibilità sociale che sono in grado di farci riscuotere. Le nostre imprese devono limitarsi alle sole attività in cui siamo abili se si vuole trarne miglior partito, perché a questo modo tutti ci desidereranno come comandante grazie al successo ogni volta ottenuto. Secondo il Socrate di Senofonte il precetto è dunque un consiglio dettato dalla saggezza umana, utile soprattutto alla formazione del futuro uomo politico.

Con Isocrate il precetto delfico diventa la caratteristica principale della condotta di ogni uomo saggio, in grado di raccogliersi in se stesso meditando ogni suo pensiero, diversamente da come sono fatti i giovani, sempre agitati e presuntuosi.

Aristotele ne parla in tono vagamente sprezzante considelandolo diventato ormai un luogo comune assieme ad altre massime del tempo tipo “Nulla di troppo”. Lo Stagirita, nei suoi trattati di morale, espone una serie di riflessioni sul senso profondo di questo precetto. Nell’Etica Nicomachea descrive i due opposti difetti che possono derivare dall’ignoranza di se stessi, vale a dire la pusillanimità e la vanità. Il pusillanime dimentica infatti la naturale grandezza della sua anima, mentre il vanitoso pecca per un eccesso di autostima, lasciandosi invadere da una grande presunzione. Aristotele nota ancora che alcuni filosofi avrebbero considerato l’esame di se stessi come il compito più piacevole ed insieme più difficile. Noi spesso rimproveriamo agli altri delle azioni che poi finiamo di compiere in prima persona, dando così prova di un’imperdonabile cecità riguardo alla nostra natura e di un’eccessiva indulgenza verso la nostra condotta. Noi uomini siamo come occhi che vedono ogni cosa all’infuori di se stessi. L’unica soluzione proposta da Aristotele per questa debolezza umana consiste nel munirsi di un “altro se stesso” costituito dalla figura dell’amico, in grado di riflettere le nostra immagine come uno specchio.

Con la meditazione dei Cinici, il “Conosci te stesso” finisce poi nel contesto della diatriba. Antistene  intende però il precetto delfico in senso individualistico e non come uno speciale tipo di conoscenza. Secondo lui, il profitto principale che è possibile trarre dagli studi filosofici consiste nella progressiva acquisizione della capacità di intrattenersi con se stessi e con i propri pensieri.

Diogene procede oltre, affermando che se il bene coincide con l’utile, per conoscere la natura del proprio utile conviene innanzi tutto conoscere se stessi.

A sua volta Crisippo, uno dei grandi scolarchi della Stoà, in coerenza con i principi della propria dottrina, mette il “Conosci te stesso” in rapporto con la fisica, disciplina che insieme alla dialettica considera alla stregua di una virtù. Una dottrina del genere chiaramente comporta una consapevole reintroduzione, a dispetto dell’esplicita condanna socratica, della possibilità di dedicarsi a ricerche fisiche, con la conseguente elaborazione di un dogmatismo relativo al sistema del mondo. Una controversia per molti aspetti insanabile ha quindi inizio tra scettici e dogmatici sul “Conosci te stesso”. Gli Accademici, dal canto loro, negheranno ogni valore conoscitivo ai sensi, incoraggiati dal passo del Fedro in cui Socrate dice non solo di non essere in grado di conoscere ciò che gli è estraneo, ma neppure di saper conoscere se stesso.

Tertulliano rimprovererà, in seguito, agli Accademici il loro agnosticismo esasperato, che avrebbe alla lunga comportato la totale eliminazione di ogni ricerca fisica o metafisica. A suo avviso, il precetto delfico è soprattutto un invito a riflettere sulla nostra grandezza di uomini. Infatti è proprio conoscendosi che l’anima può scoprire il suo autore e giudice, comprendendo quale sia la sua vera condizione.

Cicerone, come Platone nell’Alcibiade primo, nel De legibus del 52 a.C., si dice convinto che conoscere se stessi costituisca un compito molto difficile, aggiungendo che l’autore di questo precetto non sarebbe stato un uomo qualunque, ma lo stesso dio di Delfi. La forza del precetto consiste nel privilegio concesso all’uomo che si conosce, la cui “anima è in grado di vedere se stessa”. Per conoscere se stessi non è necessario conoscere il proprio corpo, noi non siamo dei semplici corpi e con i nostri discorsi non ci rivolgiamo al corpo del nostro interlocutore. La conoscenza di sé è una specie di scienza divina posseduta dall’anima, e mediante esercizi di introspezione siamo in grado di conoscere il daìmon interiore e la sua scoperta ci mette in grado di procurarci la felicità.

Filone di Alessandria cita espressamente il precetto delfico e ne sottolinea uno dei corollari più importanti, ovvero che la conoscenza di sé sarebbe fonte di felicità. La massima delfica invita gli uomini ad abbandonare non solo lo studio del cielo, ma anche l’osservazione del mondo fisico per consacrarsi all’esame di se stessi. La nostra vera dimora risiede innanzi tutto nel nostro spirito ed è la conoscenza di noi stessi che ci manifesta la potenza dell’intelletto, che governa il nostro essere proprio come un Intelletto superiore presiede al governo dell’universo. L’uomo saggio, sempre intento a esaminarsi, intraprende un cammino che, partendo dalla sua anima, gli dischiude la speranza di scoprire il Padre dell’universo. La conoscenza di sé non è fine a se stessa, ma al contrario invita a conoscersi per poi riallontanarsi da sé e così conoscere l’Uno. Il vero santo, essendo consapevole della propria natura di uomo, vede con lucidità il suo puro nulla di essere creato e così rinuncia a sé stesso per acquisire la conoscenza di Colui che è. Il santo non dimentica mai, per arroganza, l’inconsistenza della razza mortale e, pensando a se stesso come polvere, riesce a intravedere la trascendenza divina. Questo ricordarsi è un dimenticare quello che si era prima, è un sentiero di rinuncia e di raccoglimento estatico, che si compie lontano dallo spettacolo del mondo, ed è sempre guidato dall’amore dell’essenza divina.

Secondo il neoplatonico Plutarco, sacerdote di Apollo a Delfi, il gnòsci sautòn, per la sua straordinaria densità di significato, è sempre stato il più divino degli oracoli delfici. Secondo una tradizione attestata dallo stesso Aristotele, Socrate avrebbe letto questa massima nel corso di un viaggio a Delfi e meditando sul suo significato avrebbe sollevato il problema della natura dell’uomo. Lo stesso Epicuro si è del resto dedicato a lunghe e faticose ricerche sulla natura dell’anima e sull’essenza dell’uomo. Plutarco insiste a più riprese sulle implicazioni morali del gnòsci sautòn. Questo precetto di verità ci istruisce sulle deficienze della nostra natura e della nostra educazione, ci preserva dalla presunzione e ci sottrae alla tentazione di ascoltare gli adulatori e di giudicare gli altri. Plutarco prende infine in esame l’ipotesi stando alla quale la massima, originariamente, sarebbe stata una formula di benvenuto rivolta dal dio di Delfi a chi lo consultava per invitarlo a essere temperante, a questo saluto si sarebbe dovuto rispondere pronunciando l’E di Delfi, con cui l’uomo consapevole di sé avrebbe detto alla divinità:”Tu sei”; le due formule sarebbero state complementari cosicché, se da un lato, il dio ricordava all’uomo la sua natura fragile e la sua intrinseca debolezza, dall’altro, l’uomo rispondeva al dio con timore e rispetto, proclamandone l’eternità.

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