di Werner Jaeger.
L’efficacia educativa della poesia greca nel caso d’Omero.
Un’efficacia siffatta è esercitata dalla poesia greca in genere, ma soltanto là dove in essa si esprime tutto l’insieme delle energie estetiche ed etiche dell’uomo.
Il contenuto normativo e la forma artistica dell’opera d’arte stanno in una relazione di reciprocità, anzi hanno in comune l’intima radice.
Lo stile, la composizione, la forma in ogni senso è condizionata e ispirata, nel suo specifico atteggiamento estetico, dai contenuti spirituali che incarna.
Educativa in senso proprio non può essere se non una poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi dell’essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio superiore dell’animo, un’immagine dell’umano che accomuni e vincoli gli uomini.
Per lo più, i valori supremi non divengono per gli uomini impressioni di valore permanente e d’efficacia suggestiva se non in quanto eternati dall’arte. L’arte ha in sé una illimitata capacità di comunicazione spirituale, di psicagogía, come dicevano i Greci. Essa sola possiede ad un tempo quella universalità e quell’evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell’efficacia educativa. L’insieme di queste due condizioni genera un’efficacia spirituale che supera tanto la vita reale quanto la riflessione filosofica. La vita possiede l’evidenza del sensibile, ma le sue esperienze mancano di universalità, sono troppo commiste d’accidentale perché la vivacità delle impressioni ricevute possa sempre conseguire il grado estremo di profondità. La filosofia e la riflessione, d’altra parte, si elevano bensì all’universalità e penetrano sino all’essenza delle cose, ma hanno efficacia solo su chi, mercé l’esperienza propria, può dare alle loro idee l’intensità interiore della vita vissuta. La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte le verità di ragione universali, ma anche rispetto alla mera esperienza accidentale del singolo. Essa è più filosofica della vita reale, ma è anche più piena di vita che la conoscenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale.
Non v’è alcuna epoca il cui contenuto ideale abbia realizzata la sua forma, e quindi la più alta efficacia formativa sulla posterità, in maniera così larga e insieme artisticamente universale come quella che ha per araldo Omero. L’epos è meglio di ogni altra poesia in grado di rivelare il carattere unico dell’attività educativa dei Greci.
Per quanto riguarda la maggior parte delle forme più tarde della letteratura greca, gli altri popoli non hanno generato da sé formazioni parallele. I successivi popoli civili non ne vengono in possesso che adottando la forma classica. Ci pervennero così la tragedia, la commedia, la dissertazione filosofica, il dialogo, il trattato scientifico sistematico, la storiografia critica, la biografia, l’oratoria forense, celebrativa e politica, la narrazione di viaggi, le memorie, l’epistolario, la confessione, l’autobiografia e il saggio.
Troviamo anche presso altri popoli, nella medesima fase di sviluppo, una divisione sociale in aristocrazia e popolo, paragonabile alla primitiva grecità, un ideale virile aristocratico e un’arte indigena del canto eroico quale espressione di un’imperante concezione eroica della vita. Dal canto eroico è sorto spesso anche altrove, come presso i Greci, un epos: così presso gl’Indi, i Germani, i Latini, i Finni e presso taluni popoli nomadi dell’Asia Centrale; ma non v’è popolo la cui epica abbia espresso in una creazione così esauriente e grandiosa come la greca quanto in sé racchiude di fatalità universale e di senso eterno della vita il grado eroico dell’esistenza umana, che nonostante ogni “progresso” borghese è, nel suo nucleo, imperituro.
Nemmeno una poesia eroica di tanta altezza umana e tanto vicina a noi può, per l’ampiezza e la durata della sua influenza, essere paragonata a Omero. Il divario tra la sua posizione storica nella vita del suo popolo e la funzione dell’epos medievale germanico e francese è evidente nel fatto che l’influsso d’Omero non s’interruppe mai , in un millennio intero di cultura greca, laddove i poemi epici aulici medievali caddero presto in dimenticanza dopo il tramonto dell’epoca cavalleresca.
La viva autorità di Omero diede luogo nel periodo ellenistico, in cui si studiava ogni cosa scientificamente , ad una scienza a sé per indagare la sua tradizione e la forma originaria dei suoi poemi: la filologia, la quale trasse vita esclusivamente dalla vitalità perenne del suo oggetto.
La Commedia di Dante Alighieri è l’unico poema del Medioevo che abbia acquistato un posto perenne nella vita non solo della propria nazione, ma dell’umanità, e ciò per la medesima ragione che nel caso d’Omero.
Omero è il rappresentante della cultura greca arcaica, è la “fonte” della nostra conoscenza storica della società greca primitiva. Ma l’eternare il mondo cavalleresco nell’epos è qualcosa di più che un involontario rispecchiare la realtà nell’arte. Quel mondo, con le sue alte esigenze e tradizioni, è la sfera della vita superiore onde la poesia omerica ha tratto il succo e di cui si alimenta. Il pathos dell’alto destino eroico del combattente costituisce l’atmosfera spirituale dell’Iliade, e l’ethos umano della cultura e del costume aristocratici anima l’Odissea, in quanto poema. La società che aveva generato tale forma di vita era condannata a perire; nessuna notizia storica ne fa più testimonianza; ma la sua immagine ideale, nell’incarnazione poetica d’Omero, rimase fondamento vivo d’ogni cultura ellenica.
La poesia delle epopee omeriche è un’entità spirituale complessa, che non si può ridurre a una formula unica, e accanto alle parti relativamente recenti, che rivelano un interesse pedagogico così spiccato, ve ne sono altre, d’altro genere, il cui andamento narrativo sobriamente aderente al soggetto scarta ogni idea d’un secondo fine morale del poeta. Nel nono canto dell’Iliade e nella Telemachia incontriamo un atteggiamento spirituale che, per il suo intento d’esercitare un’influenza, soggettivamente consapevole e logicamente motivato, già si avvicina all’elegia. Di questo dobbiamo distinguere un altro carattere educativo, per così dire oggettivo, che nulla ha a che fare con l’intento personale del poeta, ma è insita nell’indole stessa del canto epico.
Missione del cantore è tener vivo nella memoria della posterità il ricordo delle “gesta degli uomini e degli dèi”. La fama, la conservazione e l’incremento di essa è il vero senso del canto eroico.
Il cantore non narra solo fatti; egli vanta e loda ciò che v’è al mondo degno di lode e di vanto.
Il mito, la leggenda eroica, è la riserva inesauribile di modelli che la nazione possiede e dalla quale il suo pensiero attinge ideali e norme per la vita propria; è dunque insito in esso qualche cosa di universale; non ha mero carattere di fatto, sebbene originariamente, senza dubbio, abbia un tempo rispecchiato eventi storici, i quali nella fantasia esornatrice della posterità assunsero attraverso la lunga tradizione e l’interpretazione esaltatrice, una grandezza soprannaturale. Non altrimenti va inteso il legame della poesia col mito, che per i Greci è legge fissa. Esso dipende appunto dalla derivazione della poesia dal canto eroico, dall’idea della fama, dell’esaltazione e dell’imitazione degli eroi. L’epos è di sua natura un mondo ideale, e l’elemento idealità, nel pensiero greco arcaico, è appunto rappresentato dal mito.
Ciò influisce, nell’epos, sino ai particolari tutti dello stile e della struttura.
Gli aggettivi sono ora divenuti un mero ingrediente dell’atmosfera ideale in cui si immerge tutto ciò che tocca il racconto epico. Anche al di fuori dell’uso degli epiteti, nelle descrizioni e rappresentazioni, regna un tono laudativo, d’esaltazione e di trasfigurazione. Tutto ciò che è basso, spregevole e brutto è cancellato dal mondo epico. Omero ha lodato quasi tutto, gli animali e le piante, l’acqua e la terra, le armi e i cavalli. A nessuna cosa, possiamo dire, egli può passar davanti senza lodarla e vantarla non appena la nomina. Persino quell’unico, che ha spregiato, Tersite, egli lo chiama oratore di bella voce.
Il canto eroico è per natura sua idealizzatore, indirizzato a creare modelli eroici. Esso distanzia di molto, per importanza educativa, ogni altra specie di poesia, appunto perché rispecchia oggettivamente la totalità della vita e mostra l’uomo in lotta con la sorte e per il conseguimento di un’alta mèta.
L’epica sarebbe potuto nascere da canti eroici antichissimi, quali sono menzionati anche presso altri popoli come prima forma della tradizione e quindi che la singolar tenzone, l’aristia, risolventesi nella vittoria di un eroe famoso su un cospicuo avversario, sia stata la forma primitiva del canto epico. Il racconto di una singolar tenzone desta sempre un interesse più profondo mercé l’elemento personale ed etico che difficilmente può svilupparsi nella descrizione di battaglie di masse, e mercé il più forte legame intimo dei suoi momenti singoli con l’assieme della lotta.
Il racconto dell’aristia d’un solo eroe contiene sempre un elemento fortemente incitativo. Episodi del genere si trovano, sul modello epico, anche nella storiografia posteriore; nell’Iliade rappresentano i momenti culminanti della descrizione della guerra. Sono scene conchiuse, che anche quali parti dell’epos complessivo conservano una certa autonomia, lasciando così discernere che furono un tempo fine a se stesse o sono calcate su canti autonomi.
Nuovo scopo artistico della grande epopea è mettere in risalto tutti gli eroi famosi sull’avvenimento complessivo. Ciò che Omero ravvisa nella lotta intorno a Ilio è un imponente agone della somma areté di tanti eroi immortali.
Sullo sfondo ondeggiante delle sanguinose battaglie d’eroi spicca nell’Iliade un destino individuale di tragicità puramente umana, la vita eroica d’Achille. Alla sua figura tragica deve l’Iliade di non essere per noi soltanto un venerando incunabolo di preistorico spirito guerriero, ma anche monumento immortale d’esperienza eternamente umana e di dolorosa grandezza.
La descrizione dell’epos omerico, drammaticamente concentrata, che presenta sempre con evidenza gli avvenimenti ed entra “in media res”, non lavora che a sobri tratti. Invece d’una storia della guerra di Troia o di tutta la vita eroica di Achille, esso dà con meravigliosa sicurezza la sola crisi, momento di valore rappresentativo e di somma fecondità poetica, che gli permette di concentrare la guerra decennale con tutte le sue vicende e le sue lotte, il passato, il presente e l’avvenire in un breve spazio di tempo. Tale capacità fu già ammirata, a ragione, dai critici d’arte dell’antichità. Essa fa di Omero, per Aristotele e Orazio, non solo l’epico classico, ma addirittura modello supremo di sovrana creatività poetica. Egli scaccia l’elemento storico, smaterializza gli avvenimenti e fa che il problema si sviluppi interamente nell’intima necessità che vi è insita.
L’Iliade celebra la gloria della massima aristia della guerra di Troia, la vittoria d’Achille sul possente Ettore, in cui la tragedia della grandezza eroica votata alla morte si mescola alla sua, purtroppo umana, concatenazione di destino e contributo personale. La vera aristia vuole la vittoria dell’eroe e non la sua fine. La tragicità sta nel decidersi Achille a compiere su Ettore la vendetta di Patroclo caduto, pur sapendo che subito dopo caduto Ettore è sicura la sua stessa morte, non troverebbe il proprio compimento nel continuare dell’azione sino a tale catastrofe esteriore. Essa serve piuttosto, nell’Iliade, a elevare ulteriormente la vittoria di Achille, dandole maggior umana profondità. Il suo eroismo non è di quella ingenua sorta degli antichi eroi; culmina nella scelta, consapevolmente fatta, d’un grande gesto al prezzo prefissato della propria vita: tutti i Greci d’età più recente concordano in questa interpretazione e appunto in ciò ravvisano la grandezza morale e la massima efficacia educativa dell’epos.
ESIODO E IL SUO TEMPO
Accanto a Omero i Greci collocavano, come loro secondo grande poeta, il beota Esiodo. Con lui ci si schiude una sfera sociale ben diversa dal mondo dell’aristocrazia e dalla sua cultura. Esiodo ci dà un quadro perspicuo della vita del ceto contadino nella madrepatria greca sul finire del secolo VIII e reca un completamento essenziale alle nostre nozioni circa la vita del popolo greco nel periodo più remoto, ricavate da Omero, figlio della Ionia. Se Omero mette anzitutto in piena luce il fatto fondamentale che ogni cultura muove dalla formazione di un tipo di umanità aristocratica, che sorge col promuovere volutamente le qualità dell’eroe e del signore, in Esiodo si rivela la seconda grande sorgente della cultura: il valore del lavoro. Non solo lotta dell’eroe cavalleresco con l’avversario che l’osteggia in campo, ma anche lotta silenziosa e tenace del lavoratore con la dura terra e con gli elementi ha il suo eroismo e promuove qualità di valore eterno per la formazione dell’uomo.
Per Esiodo il mondo degli eroi è un’altra epoca, migliore del presente, “età ferrea”, mentre nulla caratterizza meglio il senso della vita totalmente pessimistico del popolo lavoratore, che la storia delle cinque età del mondo, che cominciano con l’età dell’oro sotto il regno di Crono per condurre via via , con progressione discendente, sino al basso livello in cui giustizia, costume e felicità umana versano nel duro presente.
Da un ambiente siffatto non sorge alcun puro ideale di cultura umana, come invece nelle condizioni, più propizie, dare dal tenore di vita dell’aristocrazia omerica. Essenziale è il fatto che la campagna non è ancora oppressa e posta sotto la tutela della città. La cultura arcaica feudale è in massima parte campagnola e legata alla terra. La campagna non è ancora sinonimo di arretratezza spirituale, non si misura con metro cittadino.
Naturalmente tutta la vita spirituale superiore viene, nelle campagne, dalla classe superiore. Nelle residenze dei nobili l’epos omerico fu dapprima cantato da cantori girovaghi, come già trovasi descritto nell’Iliade e nell’Odissea. Ma anche Esiodo, che è cresciuto in ambiente contadino ed ha lavorato da contadino, crebbe già nella conoscenza di Omero: non lo ha conosciuto soltanto quando si è fatto rapsodo di professione. La sua poesia si rivolge anzitutto a uomini del suo stato , ed egli può contare che i suoi ascoltatori intendano il linguaggio letterario dell’epos omerico, che egli usa. Il contatto con la poesia omerica, per l’uomo del mondo esiodeo, non significa soltanto un immenso accrescimento di mezzi espressivi formali: ad onta dell’estraneità da lui dello spirito eroico-patetico, con la precisione e la chiarezza che sono còlti in Omero i sommi problemi della vita umana, esso gli apre una via d’uscita intellettuale dall’angustia opprimente della propria dura esistenza, verso un’atmosfera di pensiero più libera.
Esiodo narra lunghi miti nella certezza così di far effetto sugli ascoltatori. Anche per il popolo il mito è oggetto di immenso interesse; suscita narrazione e riflessione senza fine, comprende tutta la filosofia di quegli uomini. E già nell’inconscia scelta della materia leggendaria si esprime la mentalità particolare dei contadini. Sono evidentemente prediletti quei miti che esprimono la concezione pessimistica e realistica di questa classe o trattano le cause dei travagli sociali che gravano su di essa: ad esempio il mito di Prometeo o il mito di Pandora. Nel mito ha preso corpo l’atteggiamento primitivo dell’uomo di fronte all’essere; perciò ogni ceto ha il proprio patrimonio di leggende.
Ma il popolo custodisce inoltre la propria antichissima saggezza pratica, acquistata mediante l’esperienza d’immemorabili e anonime generazioni, ora consigli e nozioni professionali, ora norme etiche e sociali, condensate in brevi sentenze affinché s’imprimano facilmente nella memoria. Esiodo ha tramandato nei suoi Erga una grande quantità di tale prezioso patrimonio. Abbiamo qui il perfetto contrappeso alla cultura dell’aristocrazia. All’educazione e alla saggezza popolare è ignota una formazione univoca dell’uomo nella totalità della sua personalità, l’armonia tra il corpo e la mente, la valentia universale nelle armi e nella parola, nel canto e nell’azione, come richiede l’ideale cavalleresco. Qui invece un’etica legata alla terra si compenetra con nativa vigoria col contenuto materiale della vita, da secoli immutato, e col quotidiano lavoro professionale. Il tutto è più realistico e più vicino alla terra, sebbene senza uno scopo ideale superiore.
Soltanto con Esiodo vi si aggiunge l’ideale che diventa il punto di cristallizzazione di tutti codesti elementi e permette loro di assumere figura di poesia in forma di epos: l’idea del diritto. Dalla sua lotta per il proprio diritto contro le sopraffazioni del fratello e contro la venalità dei giudici aristocratici si sviluppa l’appassionata fede nel diritto che anima il suo poema più personale, gli Erga. La grande novità è che il poeta parla in persona propria, in quest’opera. Sacrifica la tradizionale oggettività dell’epos e si fa banditore egli stesso della dottrina che l’ingiustizia è maledetta e la giustizia benedetta.
A quel modo che Omero rappresenta come un dramma di dèi e d’uomini la sorte degli eroi che lottano e soffrono, così Esiodo sente lo svolgimento semplicemente civile della sua lite col fratello come lotta delle potenze celesti e terrene per la vittoria del diritto. Egli innalza così l’evento reale della sua vita, per se stesso insignificante, all’eccelso livello e alla dignità di vera epopea. Certo non può collocare in cielo i propri uditori, perché nessun mortale può conoscere la futura sorte decisa da Zeus. Egli non può che invocare Zeus nelle proprie preghiere, affinché protegga il buon diritto. Qui compare Eris, divinità cui gli uomini, sebbene a malincuore, debbono pagare il loro tributo; ma oltre alla Eris maligna ve n’è una benigna, che non eccita lite, bensì emulazione. Zeus le ha assegnata dimora nelle viscere della terra. Essa incita al lavoro colui che nulla possiede e se ne sta neghittoso, quando vede con invidia il successo del vicino che si affatica onestamente e riesce a qualcosa. Qui emerge l’idea base insita nell’opera: il nesso tra giustizia e lavoro. L’Eris benigna, con la sua pacifica emulazione nel lavoro, è l’unica potenza esistente sulla terra contro il prevalere dell’invidia e della discordia. Il lavoro è, sì, un grave onere per l’uomo, ma è una necessità; e a chi, mercé sua, riesce a vivere, sia pure stentatamente, esso reca tuttavia più felicità che l’ingiusta avidità dei beni altrui.
Questa esperienza di vita si fonda per il poeta sulle leggi eterne che reggono il mondo, che Esiodo, in quanto pensatore, riconosce nella
Rappresentazione religiosa del mito
Nella Teogonia Esiodo esprime i tre concetti essenziali d’una dottrina razionale del divenire del mondo che si trovano nelle mitiche rappresentazioni del caos, spazio vuoto, della terra e del cielo, come base e tetto del mondo, che il caos separa, e dell’Eros quale primordiale forza cosmica, creatrice di vita.
Il pensiero della Teogonia non si accontenta di coordinare le divinità riconosciute, oggetto di culto, non si attiene all’elemento dato per tradizione nella religione corrente, ma, al contrario, pone i dati della religione nel senso più ampio – culto, tradizione mitica e interiorità personale – al servizio di un sistematico ripiegamento della fantasia e dell’intelletto sulle origini del mondo e della vita umana.
Il mito è come un organismo, la cui anima si trova in via di perpetuo rinnovamento e mutamento. Chi produce tale mutamento è il poeta; ma, ciò facendo, egli non obbedisce soltanto al proprio arbitrio. Il poeta è creatore di una nuova norma di vita per l’età sua ed interpreta il mito in base a questa nuova norma e viva certezza interiore. Il mito non si mantiene in vita se non mercé l’incessante metamorfosi della sua idea, ma la nuova idea poggia sul veicolo sicuro del mito.
Negli Erga oltre ai miti di Prometeo e Pandora e alle cinque età del mondo Esiodo ci presenta una terza storia: la favola dello sparviero e dell’usignolo. Lo sparviero rapisce l’usignolo, il “cantore”, e al suo lamento pietoso il ladrone pennuto, nel rapirlo in aria tra i suoi artigli, risponde: “Infelice, che giova il tuo grido? Ora ti ha in sua balia uno più forte di te, e tu mi seguirai dove voglio. Sta in me solo divorarti o lasciarti andare”. Esiodo chiama questa parabola animalesca un ainos. Favole siffatte furono sempre care al popolo. Esse assolvevano nel pensiero popolare un còmpito analogo a quello del paradigma mitico nei discorsi dell’epos: contengono una verità generale.
In tutta la prima parte della Teogonia parla una fede nella divinità che pone l’idea del diritto al centro della vita. Questo elemento ideologico non è prodotto originale della semplice vita contadina arcaica. Nella forma in cui lo troviamo in Esiodo dev’essere estraneo in genere alla madrepatria greca; presuppone, invece, al pari del tratto razionale che si afferma nell’esposizione sistematica dell’opera, le condizioni cittadine e il progredito sviluppo intellettuale della Ionia. La fonte più antica di tale pensiero è per noi Omero: in esso si trovano i primi elogi del diritto.
Negli Erga Esiodo compenetra della sua idea del diritto tutta la vita e il pensiero della gente di campagna. Abbinando l’idea del diritto con quella del lavoro, egli è riuscito a creare negli Erga l’opera che sviluppa secondo un criterio dominante e rende educativamente efficace la forma spirituale e il contenuto reale della vita dei campi. Dopo che nella prima parte è stata posta chiaramente sott’occhio all’ascoltatore la maledizione della discordia, nella seconda parte si vuol mostrare il pregio del lavoro. Esso è vantato come l’ardua ma unica via che conduca all’areté. Questo concetto comprende tanto la valentia personale quanto ciò che essa produce: prosperità, successo, considerazione. Non è l’antica areté guerriera e aristocratica, e nemmeno quella dei ceti proprietari terrieri, che presuppone la ricchezza, bensì quella del lavoratore, che trova la sua espressione in una modesta proprietà. Col sudore della fronte l’uomo mangerà il suo pane; ma non è per lui una maledizione, anzi una benedizione. A questo prezzo si può acquistare l’areté. Qui è perfettamente chiaro che Esiodo si propone a bello studio di affiancare all’educazione aristocratica , quale si rispecchia nell’epos omerico, un’educazione popolare, una dottrina dell’areté dell’uomo semplice. Giustizia e lavoro sono le colonne sulle quali essa riposa.
- Ma si può insegnare l’areté?
Esiodo risponde: “Certo, ottimo fra gli uomini è colui che tutto considera da sé e intende che cosa, in avvenire e da ultimo, sia più opportuno. Ma è anche bravo chi sa seguire un altro, il quale rettamente lo ammaestri. Sol chi né sa intendere da sé, né sa ascoltare e accogliere nell’animo gli insegnamenti altrui, è un buono a nulla”. Sono così stabiliti la legittimità e il senso di tutto l’ammaestramento. Nell’etica filosofica ulteriore questi versi furono considerati il primo fondamento di una dottrina e di una educazione etica.
Ed ora una serie di insegnamenti pratici di Esiodo che seguono alla seconda parte degli Erga.
- Sii pertanto memore della mia esortazione e lavora, o Perse, rampollo divino, affinché la fame ti odii, e t’ami la ben ghirlandata onesta Demetra e colmi di provviste i granai…. Chi vive inoperoso, dèi e uomini sono in collera con lui. Egli assomiglia nel suo contegno ai pecchioni, che consumano inattivi l’opera faticosa delle api. Possa tu avere buona voglia di compiere lavoro regolare in giusta misura, affinché ti siano pieni i granai di quanto ciascuna stagione ti offre di provviste”.
- “Il lavoro non è vergogna, vergogna è l’inoperosità. Se lavori presto l’ozioso ti invidierà, non appena tu abbia un guadagno. Al guadagno tien dietro rispetto e considerazione. Nella tua situazione il lavoro è l’unica cosa giusta, purché tu rivolga l’animo tuo desideroso, dal bene altrui al tuo lavoro e provveda al tuo sostentamento, come io ti consiglio”.
Col raccogliere Esiodo l’eredità di Omero, l’essenza dell’attività poetica creatrice fu trasferita decisamente, per tutte le età susseguenti e ben oltre i limiti della poesia meramente didascalica, nel suo significato modellatore, socialmente costruttivo. Questa forza costruttiva le deriva sempre. al di là d’ogni zelo d’ammaestramento meramente morale o pratico soltanto, da una volontà di penetrare l’essenza delle cose, volontà che tutto rianima e che è nata da profondissima conoscenza. La diretta minaccia dell’esistenza della patriarcale comunità delle classi, rappresentata dalla discordia e dall’ingiustizia, quale Esiodo ha presente, gli ha aperto gli occhi sulle fondamenta intangibili sopra le quali riposa tutto l’edificio della vita sociale e che sorreggono anche il singolo. Questo sguardo che coglie l’essenziale, riconoscendo dappertutto il senso originario e semplice della vita, è ciò che fa il vero poeta.
Qui si rivendica per la prima volta una supremazia che non si basa né sulla nobile discendenza, né su una posizione sancita dallo Stato.
Con Esiodo incomincia la supremazia dello spirito, che dà al mondo greco la sua impronta. È ancora lo “spirito” nel suo senso primordiale, vero spiritus, afflato divino, che il poeta secondo narra egli stesso come una reale esperienza religiosa, ricevette ai piedi dell’Elicona mediante l’ispirazione delle Muse. Le Muse stesse dicono della loro ispirazione, quando destinano Esiodo ad essere poeta: “Sappiamo bensì dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, se vogliamo, proclamare la verità”.
Anche questa consapevolezza d’insegnare una verità è, rispetto a Omero, cosa nuova, e il coraggio di parlare in prima persona deve in qualche modo riconnettervisi. È la vera auto-definizione del poeta-profeta greco, il quale, mercé la conoscenza approfondita della coordinazione del mondo e della vita, vuol guidare gli uomini sulla retta via.
EDUCAZIONE NELLA POLIS ARCAICA
L’educazione greca non consegue la propria formazione classica se non nell’assetto sociale della vita che si ha nella polis. Società aristocratica e popolo campagnolo, peraltro, non sono affatto semplicemente sostituiti dalla polis, poiché anzi la vita feudale e contadina si spinge dappertutto nella storia dei primi tempi della polis, perdurando anche ulteriormente accanto a questa. Ma la funzione direttiva spirituale passa alla cultura urbana. Anche là dove sorge, in tutto o in parte, su base aristocratica o agraria, rappresenta un principio nuovo, una forma più salda e conchiusa della vita collettiva, che più di ogni altra è caratteristica dei Greci.
Ancora nel linguaggio nostro le parole “politica” e “politico”, derivate da polis, sono patrimonio intellettuale vivo e rammentano come la polis greca sorga per la prima volta ciò che chiamiamo lo Stato, sicché dobbiamo tradurre il vocabolo greco, a seconda del contesto, con Stato o città. Stato, per i secoli che vanno dalla fine dell’età patriarcale sino alla fondazione dell’impero macedone di Alessandro, è quasi sinonimo di polis. Sebbene l’età classica producesse organismi statali di maggior estensione, essa non ne conosce se non in forma d’unione d’un certo numero di Stati-città con maggiore o minore autonomia. La polis è anche il centro supremo, movendo dal quale si organizza la storia di questo importantissimo periodo dello sviluppo della grecità.
La polis è il centro culturale inscindibile dal contesto complessivo, poiché essa comprende ogni sfera della vita intellettuale e personale ed esercita influenza decisiva sulla forma in cui questa si organizza. Tutti i rami dell’attività intellettuale, nel primo periodo della grecità, sorgono direttamente dalla comune radice della vita della comunità. Descrivere la polis greca significa dunque rappresentare la vita dei Greci nella sua totalità.
È d’importanza capitale come lo spirito della polis greca abbia trovato, nella poesia e nella prosa susseguente, la sua espressione ideale, che determinerà durevolmente il carattere spirituale della nazione. È d’obbligo rifarsi senz’altro a pochi tipi principali dello Stato greco, che hanno per esso valore rappresentativo. Già Platone, cercando nelle Leggi di tirar le somme del pensiero della grecità arcaica in fatto di pubblica educazione, ebbe a muovere, analogamente dai poeti, imbattendosi così in due forme fondamentali, le quali, associate, gli parvero rappresentare in complesso la cultura politica del suo popolo: lo Stato guerriero spartano e lo Stato secondo il diritto d’origine ionica.
Nella cultura aristocratica ionica e nelle condizioni del ceto contadino beozio, rappresentate da Omero e da Esiodo, il carattere etnico non ha avuto quasi alcun peso per noi che non abbiamo la possibilità di confronto con altre stirpi della stessa epoca. La lingua dell’epos, sorta dalla mescolanza di vari dialetti mostra invero che la raffinata struttura della poesia omerica si fonda già sulla collaborazione di genti diverse nella leggenda , nel verso e nello stile del linguaggio; Ma l’indurre da tali tracce diversità della loro indole intellettuale sarebbe impresa disperata, così come nessuna indagine riuscì mai ad enucleare da Omero interi canti di uniforme tinta dialettale eolica. Ben più nettamente si differenziano le peculiarità dorica e ionica nella forma della vita pubblica e nella fisionomia spirituale della polis. Entrambe confluiscono nell’Atene del V e IV secolo.
Mentre la vita pubblica reale d’Atene riceve dal modello ionico le influenze decisive, nella sfera intellettuale, mediante l’influenza aristocratica della filosofia attica, l’idea spartana ha una rinascita e nell’ideale culturale di Platone si fonderà in un’unità superiore con l’idea fondamentale dello Stato costituzionale ionico-attico, toltane la forma democratica.
Nelle elegie di Tirteo si eterna la volontà politica che fece grande Sparta. L’essersi creata la sua figura spirituale nella poesia, è la miglior prova della sua forza idealizzatrice, che opera ben oltre la durata storica dello stato spartano, né è spenta fino ad oggi. Per quanto sia singolare e temporalmente limitato nei particolari della vita spartana quale la conosciamo più tardi, l’idea di Sparta, che riempie di sé tutta l’esistenza dei suoi cittadini e cui tutto tende in questo stato con ferrea coerenza, è qualcosa d’imperituro, perché ha fondamento profondo nell’umana natura. Essa conserva la sua verità e il suo valore anche quando il suo incarnarsi esclusivo in tutto il tipo di vita di questo popolo appare ai posteri unilaterale. Tale sembrava già a Platone la concezione spartana dell’uomo-cittadino, della sua missione ed educazione; ma egli stesso ravvisava nell’idea politica, quale la trovava eternata nei versi di Tirteo, uno dei fondamenti duraturi d’ogni civiltà politica.
L’elegia di Tirteo è impregnata d’un grandioso ethos educativo. L’entità di quanto vi si esige dallo spirito di solidarietà e di sacrificio del cittadino è sì giustificata dal momento speciale in cui il poeta affaccia tali esigenze, cioè dal pericolo in cui versava Sparta nelle guerre Messeniche. Tirteo, con le sue elegie si sentiva un vero Omerida. Ma ciò che conferisce a questi discorsi alla nazione spartana la loro grandezza propria, non è l’imitazione più o meno congeniale del modello omerico, sia nel complesso, sia nei particolari, bensì l’energia spirituale con la quale si compie la trasposizione delle forme e contenuti dell’arte epica nel mondo contemporaneo. Se anche poco sembra dapprima resti a Tirteo di sua proprietà spirituale, a togliere dai suoi carmi tutte le eredità omeriche in fatto di lingua, verso e idee, pure il suo diritto al riconoscimento d’una vera originalità aumenta non appena intendiamo come egli ponga sempre, dietro alle forme tradizionali e dietro agli antichissimi ideali eroici, un’autorità etico-politica del tutto nuova, che li ricrea: l’idea della collettività della polis, che regge i singoli tutti e per la quale tutti vivono e muoiono. L’ideale omerico dell’areté eroica è riplasmato nell’eroismo dell’amor patrio, e il poeta compenetra di questo spirito l’intera cittadinanza. Ciò che egli vuol creare è un popolo, uno stato intero di eroi. Bella è la morte, quando un uomo l’incontri da eroe; e da eroe l’incontra morendo per la Patria. Solo questo pensiero conferisce alla sua fine il significato ideale di sacrificio di se stesso per un bene superiore.
“E quand’anche egli fosse più bello di Titone e più ricco di Mida e di Cinira, e più regale di Pelope, figlio di Tantalo, e avesse una lingua di favella più grata che Adrasto, non per questo l’onorerei, avesse pure la più grande fama del mondo, se non possiede coraggio guerriero; ché non farà buona prova in battaglia, se non sopporta la vista della sanguinosa strage guerresca e non si fa addosso al nemico nella lotta corpo a corpo. Questa è areté – esclama il poeta con impeto – questo è il premio più alto e glorioso che un giovane possa ottenere tra gli uomini. Questo è un bene per la comunità, per la città e per tutto il popolo: che un uomo tenga duro combattendo in prima linea, scacciando ogni idea di fuga”.
L’efficacissimo affollarsi di negazioni, che riempie i primi dodici versi stimolano in sommo grado l’attesa dell’ascoltatore, rinnega volutamente tutte le idee correnti; e, dopo aver abbassati d’un gradino tutti gli alti ideali dell’antica nobiltà greca , pur senza rinnegarli o abbandonarli del tutto, il poeta, da vero profeta del nuovo, sobrio severo civismo, proclama: non v’è che un’unica misura della vera areté, e cioè lo stato e ciò che ad esso giova o nuoce.
“Ma chi cade tra i combattenti e perde la sua cara vita, dopo aver coperto di gloria la sua città, i suoi concittadini e suo padre, quando giace trafitto davanti da molti dardi attraverso il petto e il convesso scudo e la corazza, colui piangono tutti quanti giovani e vecchi, e con doloroso rimpianto tutta la città si duole per lui, e il suo tumulo e i suoi figli sono onorati tra gli uomini, e i figli dei suoi figli e i suoi tardi discendenti, e giammai perisce l’alta sua fama né il suo nome, ma, sebbene giaccia sotterra, egli diviene immortale”.
Che è mai la gloria dell’eroe omerico, proclamata dal cantore epico, per quanto lontano si spanda sulla terra, a petto di quella del semplice guerriero spartano, così profondamente radicato nella comunità civile dello stato come lo ritrae Tirteo in questi versi?
Nell’elegia di Tirteo ci troviamo agli inizi dell’etica della polis. Come essa, proteggendo nella morte l’eroe caduto, lo accoglie in mezzo alla comunità, così innalza anche il guerriero che ritorna vincitore.
“Giovani e vecchi l’onorano, la sua vita gli vale distinzione e considerazione in copia, nessuno gli nuoce né gli fa torto. Quando è vecchio, è considerato con reverenza, e tutti gli fanno largo dovunque si presenti”.
Nella stretta comunità della polis greca arcaica, queste non sono belle parole soltanto. Questo stato è piccolo ma ha nell’esser suo qualcosa di eroico e insieme di schiettamente umano. Per la grecità e per tutta l’umanità classica, l’eroe è la forma superiore dell’uomo puro e semplice. Il fondare la nuova virtù civile sul bene collettivo non è, per il pensiero greco, mero utilitarismo di natura materiale; questa comunità, la polis, poggia invece su un fondamento religioso. Di fronte all’areté dell’epos il nuovo ideale politico dell’areté è anche espressione di un mutato atteggiamento religioso dell’uomo. Lo stato diviene compendio di tutte le cose umane e divine.
Tirteo infuse per sempre nei suoi concittadini la nuova idea di comunità, e l’eroismo che egli insegnava diede allo stato spartano la sua impronta storica. Quale instillatore dell’idea eroica dello stato, egli oltrepassò ben presto i confini di Sparta. Dovunque, tra i Greci, si coltivò o fu promosso dallo stato un virile civismo, dovunque si volle onorare la memoria degli Eroi, Tirteo rimase il poeta classico di tale ideale “spartano” anche in stati non spartani, e persino anti-spartani come Atene. Egli mostra come debba fare i conti con lui anche chiunque non sia Spartano e non consideri perfetta né definitiva tale concezione dell’essenza dello stato e dell’eccellenza suprema dell’uomo. Tale processo non poteva arrestarsi a Tirteo. Così il filosofo Senofane di Colofone, modificando Tirteo a cent’anni di distanza, cercò di dimostrare che solo la forza spirituale merita di tenere il primo posto nello stato, laddove Platone, continuando quest’evoluzione, pone la giustizia accanto e sopra l’intrepidità, e nello stato ideale, che costruisce nelle Leggi, vuole che Tirteo sia rifatto in tal senso, per adattarlo allo spirito di questo stato medesimo.
La critica di Platone , del resto, si rivolge non tanto a Tirteo quanto agli eccessi dello stato forte della Sparta contemporanea, il quale scorgeva in quella poesia guerresca il documento della propria fondazione. Infatti si può osservare come nella genuina antica Sparta dell’età eroica del VII sec. vi fosse posto per una vita più ricca e come essa fosse esente affatto dalla posteriore povertà di spirito, che tanto contribuì a formare la figura storica di Sparta. Nelle arti e nella musica quell’antica Sparta non si isola con rigore ostile dalla lieta vita degli altri Greci. Gli scavi hanno messo in luce, precisamente di quell’epoca primitiva, avanzi di un’intensa attività architettonica e di un’arte che risente l’influenza di modelli della Grecia orientale. Ciò concorda con l’importazione, dovuta a Tirteo, dell’elegia di origine ionica.