a cura di Gianluigi Prato.
1 – Ebraismo ed ellenismo: possibilità e limiti di un confronto.
Potremmo essere indotti a stabilire un confronto tra un “ebraismo” e un “ellenismo” intesi come due realtà autonome e ben definite. Si tratta invece di due correnti storiche e culturali su cui è opportuno fare qualche precisazione.
“Ellenismo” è un termine coniato da Johann Gustav Droysen nell’Ottocento: egli ha proposto di considerare l’epoca che inizia con Alessandro Magno come un nuovo periodo della grecità: quello in cui il mondo greco è venuto a contatto con le civiltà dell’Oriente antico, uscendo dai propri confini tradizionali, non solo geografici. Questa prospettiva è però viziata dal fatto che Droysen, con diversi altri studiosi del suo tempo, vedeva nella classicità greca, giunta alla sua massima fioritura nel periodo precedente a quello che si voleva definire “ellenistico”, rappresentava un punto di riferimento normativo e concluso, per cui l’ellenismo non avrebbe potuto far altro che porre questo patrimonio a confronto con quello di altre civiltà. Se ciò fosse vero, un accostamento tra ellenismo ed ebraismo risulterebbe del tutto legittimo e promettente, ma a costo di sacrificare ogni potenzialità creativa della cosiddetta “epoca ellenistica”, la quale non può essere ridotta a un semplice canale propagandistico della cultura greca.
D’altra parte, se si guarda al modo con cui dal versante dell’ebraismo si conduce di solito il confronto con la grecità, si può constatare facilmente come i confini cronologici e culturali tracciati da Droysen non siano rispettati, poiché si spazia normalmente su tutto l’arco della civiltà greca, soprattutto quando il confronto riguarda concezioni religiose generali. Anche se ciò dipende spesso dal fatto che i biblisti ignorano la definizione di Droysen e i presupposti su cui si fonda, questa loro prassi rivela a suo modo quanto sia artificiosa la concezione di un “ellenismo” così inteso. Ai fini di un confronto occorre tuttavia tener presente che anche l’ebraismo, nel momento storico in cui ormai convenzionalmente si colloca l’ellenismo (dalla fine del sec. IV a.C. in poi), è ancora in via di formazione. Esso non esiste ancora come realtà definita, sia pure dai contorni piuttosto sfumati. Esso non va confuso con quanto si può dedurre dagli scritti biblici che in qualche modo si riferiscono a quel periodo, perché ne rappresentano solo un’interpretazione: il fatto che siano divenuti “canonici” conferisce loro un valore normativo che vale su un piano teologico, e non li rende perciò stesso fonti storiche attendibili, o per lo meno non ci autorizza ad assumere come esclusiva l’immagine dell’ambiente storico e religioso che ci trasmettono. Volendo evitare perciò di porre a confronto due realtà che non è possibile racchiudere entro definizioni globali preconcette, si può tentare di percorre una via più sicura per capire in che modo può essere avvenuto il loro incontro o la loro conoscenza reciproca: rintracciare l’immagine che ciascuna di esse ha lasciato nella controparte, interrogando le testimonianze storiografiche che ci sono pervenute. Anch’esse, ovviamente, possono essere deformanti e vanno comunque sottoposte al vaglio critico dello storico, ma sono essenziali per ricostruire un dialogo o uno scontro culturale, che si rendono possibili solo quando una parte si rende accessibile alle categorie interpretative di cui l’altra dispone.
2 — Le testimonianze più antiche sugli Ebrei
Iniziamo allora cercando di vedere come gli Ebrei sono entrati nell’ottica storiografica greca, nelle prime testimonianze che conosciamo.
È curioso il fatto che gli autori più antichi che hanno scritto qualcosa in greco sugli Ebrei li considerino “filosofi”, e non ne parlino da un punto di vista etnico e neppure religioso, o tutt’al più racchiudano le caratteristiche della loro religione in questa loro definizione. La testimonianza più antica ci proviene da Teofrasto (sec. IV-III a. C.), che nel suo De pietate, riportato nel De abstinentia (II, 26) di Porfirio, afferma appunto categoricamente che gli Ebrei sono filosofi. Megastene, verso il 300 a. C., in una sua opera sull’India (Indica), citata da Clemente Alessandrino negli Stromata (I, 15,72,5) afferma che quanto è stato detto dagli antichi sulla natura si trova anche presso i filosofi che sono fioriti fuori della Grecia, e tra questi vi sono i bramani dell’India e in Siria coloro che vengono chiamati Giudei (si noti anche l’appellativo del territorio in cui si ritiene che vivano questi Giudei: la Siria, che nella prospettiva di Megastene si estende anche all’area costiera palestinese).
Una testimonianza ancora più ampia è in Clearco di Soli (anch’egli attivo verso il 300 a.C.) che nel suo De somno, riportato da Giuseppe Flavio nel Contra Apionem (I, 176-183) narra che Aristotele avrebbe incontrato un uomo dei Giudei della Cele-Siria, i quali discendono dai filosofi indiani, e come in India i filosofi sono chiamati Calani, così in Siria essi ricevono la loro denominazione dal territorio in cui abitano: si chiamano dunque Giudei perché vivono in Giudea. Inoltre – così afferma ancora Aristotele secondo Clearco – quest’uomo non solo parlava greco, ma aveva anche ‘l’anima (psyche) di un Greco”, e alla fine Aristotele stesso riconosce di aver imparato molto da lui.
Per incontrare però affermazioni un po’ più consistenti sugli Ebrei bisogna ricorrere a quella corrente storiografica greca che può essere definita “etnografica”, ed è rappresentata soprattutto da Erodoto ed Ecateo di Mileto, personaggi che hanno viaggiato e mostrano un reale interesse, da parte greca, verso gli altri popoli e le altre culture. Costoro non parlano degli Ebrei, ma sono gli iniziatori di un genere di storiografia che in un suo sviluppo posteriore viene chiamata da alcuni studiosi “apologetica”: essa, scritta sempre in greco (poiché i Greci difficilmente conoscevano o tendevano a imparare altre lingue), vuol presentare al mondo greco altre civiltà sviluppatesi prima di quella greca, e finora pressoché sconosciute dai Greci, che pur ne sono debitori.
I due esponenti maggiori di questo filone “apologetico” della storiografia greca, o almeno scritta in greco, sono Berosso per le civiltà mesopotamiche (con la sua opera intitolata Babyloniaka) e il celebre Manetone per l’Egitto (con l’analogo Aigyptiaka). A quest’ultimo è toccato in sorte un singolare destino, poiché persino l’egittologia scientifica moderna è stata influenzata in maniera decisiva dalla sua opera e ne ha accolto la categoria classificatoria fondamentale, ossia la collocazione dei faraoni entro dinastie (con i problemi che ne sono derivati per l’individuazione di alcune). Il primo invece è stato pressoché dimenticato, e la moderna riscoperta archeologica delle civiltà mesopotamiche ha dato luogo a una loro ricostruzione storica che non si è lasciata influenzare dai frammenti che di lui sono sopravvissuti: essi sono interessanti solo per capire come quelle civiltà sono state conosciute e interpretate dai Greci, su un piano che ha fuso insieme storia e mito (si pensi ad esempio alla famosa Semiramide). Possiamo collocare infine in questa corrente storiografica anche Alessandro Polistore (vissuto nel I sec. a. C.), ma solo per il fatto che, come indica già il suo nome, ha raccolto testimonianze di altri storici, alcuni dei quali hanno scritto opere sugli Ebrei. E naturalmente non va dimenticato in questo contesto Giuseppe Flavio, e in particolare le Antiquitates judaicae e il Contra Apionem.
3 – Ecateo di Abdera
Ecateo di Abdera (300 a. C. circa) si colloca a metà strada in questa evoluzione della storiografia greca: non si interessa più soltanto di etnografia, ma non è ancora un “apologeta” nel senso voluto da coloro che preferiscono mantenere distinta e quasi autonoma questa corrente storiografica. Egli si interessa dunque delle altre civiltà ed è il primo che attesta una presenza ebraica piuttosto ampia nel mondo greco, tanto da descriverla in termini che, come vedremo, sono strettamente legati alla polis greca e alla sue istituzioni. Di lui sappiamo solo che era di Abdera, una località della Tracia antica, situata fra le odierne città di Kavala e di Alessandropoli, e in precedenza colonia della ionica Teos. Alcuni ritengono addirittura che Ecateo fosse proprio di Teos.
Da citazioni di autori antichi sappiamo che egli ha composto un “Peri poieseos Omeru kai Esiodu”(un’opera sulla poesia di Omero ed Esiodo), un “Peri Yperboreon”(sugli Iperborei, mitica popolazione delle estremità settentrionali, che è entrata poi nell’orbita della civiltà greca: si pensi alla loro presenza a Delo, isola-tempio dedicata soprattutto al culto di Apollo). Ma la sua opera principale resta quella dedicata all’Egitto (Aigyptiaka), conservata nella Bibliotheca di Diodoro Siculo (I sec. a. C.). Il materiale relativo agli Ebrei, risalente ad Ecateo e conservato in Diodoro (XL, 3,1-8), è ritenuto autentico, mentre è molto discusso quello, parimenti attribuito ad Ecateo, che ci è stato trasmesso da Flavio Giuseppe nel Contra Apionem (I, 183-204; I, 43), e per il quale si preferisce parlare di uno Pseudo-Ecateo (suddiviso talvolta in Pseudo-Ecateo I e Pseudo-Ecateo II). Secondo questo materiale non autentico, Ecateo avrebbe composto anche un’opera sui Giudei (Peri Iudaion). Va infine ricordato che secondo Clemente Alessandrino (Stromata 5, 14, Il 3,1) Ecateo avrebbe scritto anche un’opera su Abramo.
L’interesse che Ecateo ha mostrato verso il mondo giudaico è stato rilevante, o per lo meno tale da polarizzare attorno al suo nome anche altra letteratura che trattava il medesimo argomento: trasmessa sotto il suo nome, essa doveva avere per gli antichi la stessa forza autorevole di quella autentica, mentre è l’occhio critico dei moderni che la relega in secondo piano collocandola nella categoria (letteraria e valutativa) degli scritti “pseudepigrafi”. Va detto inoltre che il presunto antigiudaismo che si vuoi vedere in alcune affermazioni di Ecateo (quello autentico) deriva in gran parte dall’idea preconcetta che quasi tutti gli autori antichi che parlano degli Ebrei assumono nei loro confronti un atteggiamento polemico, e tale idea può essere rafforzata anche dal modo con cui gli stessi autori ebrei riportano i loro testi. Si discute pertanto se Ecateo debba essere collocato già in questa linea polemica. Vi sono però ragioni sufficienti per mostrare che egli non è ancora influenzato da alcuni luoghi comuni che potevano circolare sugli Ebrei; per lo meno, egli scrive in un periodo in cui questi ultimi non si sono ancora formulati chiaramente, e del resto le attestazione che possediamo al riguardo sono tutte posteriori.
4 – L’uscita dall’Egitto e la costituzione politico-religiosa degli ebrei secondo Ecateo
Se ci limitiamo al solo materiale di Ecateo ritenuto autentico, dobbiamo esaminare dunque quanto è riferito da Diodoro Siculo in Bibliotheca XL, 3,1-8, integrandolo però con altri passi dello stesso Diodoro. Va precisato inoltre che per quanto riguarda il nome stesso di Ecateo, la testimonianza manoscritta attraverso cui ci è pervenuta l’opera di Diodoro (un’opera di Fozio [IX sec. d. C.] intitolata anch’essa Bibliotheca) parla di “Ecateo di Mileto”, non di “Ecateo di Abdera”. Gli studiosi però sono concordi nel ritenere che si tratta di un errore di Fozio, o dello stesso Diodoro: l’uno o l’altro avrebbero confuso lo scrittore del 300 a.C. con l’altro, vissuto circa 200 anni prima di lui e anche più famoso, e forse la confusione sarebbe stata facilitata dal fatto che Ecateo di Mileto aveva scritto un’opera di geografia, che a sua volta è quasi un commento a una carta geografica da lui redatta.
a) L’espulsione dall’Egitto e le sue cause; l’associazione con i Greci
Il brano di Ecateo (di Abdera) che qui ci interessa (XL, 3,1-2) inizia dicendo che in Egitto era sopravvenuta una peste, inviata da una divinità a causa di una presenza straniera nel territorio, in seguito alla quale si era notato nel paese un decadimento del culto tradizionale egiziano. Ora, già queste affermazioni richiedono di essere accolte con qualche cautela.
È certo una cosa singolare che si inizi a parlare degli Ebrei raccontando di una peste che avrebbe causato, almeno indirettamente, la loro espulsione dall’Egitto. Ecateo afferma però anche che si è consultata la divinità per accertare le cause della peste. Questi due elementi, ossia la presenza di una peste e il ricorso alla divinità per chiarirne le cause, suggeriscono un confronto con un testo ittita molto più antico. Si tratta di una preghiera rivolta dal re ittita Murshili Il a una divinità, per conoscere quali siano le cause di una pestilenza che ha invaso il paese. La divinità risponde dicendo che una delle cause di questo male sta nel fatto che più anticamente erano stati portati in territorio ittita dei prigionieri egiziani. Anche in questo caso, pertanto, è una presenza straniera nel territorio ciò che scatena il malanno, che può essere eliminato solo se gli stranieri vengono allontanati. Non si dice che gli stranieri abbiano fatto qualcosa di particolare, da cui è derivata la peste, e neppure che essi fossero appestati quando sono stati portati nel paese degli Ittiti. La loro semplice presenza è ora collegata con quel male. Analogamente, in Egitto gli Ebrei sono causa passiva della peste, e ciò spiega, la loro rapida espulsione: difficilmente si può vedere in questo un argomento che giustifichi un qualche atteggiamento antigiudaico.
Del resto, gli Ebrei non sono i soli a subire questo trattamento da parte degli Egiziani. Ecateo afferma infatti che gli stranieri espulsi dall’Egitto sono i Giudei guidati da Mosé, ma anche i Greci, rappresentati da due dei loro eroi: Danao e Cadmo. Questa associazione tra Ebrei e Greci ritorna anche altrove nell’opera di Diodoro. In 1,28 si dice che coloro che erano andati via con Danao, anch’essi partiti dall’Egitto, fondarono la città più antica della Grecia, Argo, e inoltre che i popoli dei Colchi nel Ponto e quello dei Giudei fra l’Arabia e la Siria erano composti da alcuni coloni provenienti dall’Egitto. Diodoro aggiunge che questi due popoli hanno in comune la circoncisione, un’istituzione che vale per i loro figli maschi e che essi hanno importato dall’Egitto.
È comunque un po’ sorprendente che in questa testimonianza provengano dall’Egitto non tanto i Greci con Danao, ma i Greci con Cadmo. E anche su questo punto Diodoro fornisce qualche spiegazione. In I,23,4 egli afferma che Cadmo era un cittadino di Tebe egiziana. Ciò è in contrasto con il mito più noto di Cadmo, che fa partire questo personaggio dalla Fenicia, alla ricerca della sorella Europa: egli vaga per tutto il Mediterraneo, e in tal senso diventa quasi il simbolo di una certa unità culturale che gravita attorno a questo grande mare. Ma nel contesto (I,22-23) Diodoro in realtà vuole difendere l’origine egiziana di Dioniso e del suo culto e si contrappone a coloro che affermano che sarebbe stato Orfeo a trasferire la nascita del dio a Tebe egiziana. Poiché dunque Dioniso è originario dell’Egitto, così anche Cadmo, sempre secondo Diodoro, proviene dall’Egitto. Per il mito greco, invece, Cadmo ha fondato in territorio greco la città di Tebe in Beozia. Diodoro ha potuto sostenere le origini egiziane di Cadmo fondandosi su una facile confusione tra le due città (Tebe di Egitto e Tebe di Beozia), che è divenuta possibile solo dopo che la città egiziana (la quale ovviamente in egiziano aveva un altro nome) era stata chiamata Tebe proprio dai Greci (si ricordi l’omerico “Tebe dalle cento porte”). Tutto questo adattamento del mito di Cadmo spiega dunque la presenza dell’eroe in Egitto e il suo affiancarsi ai Giudei al momento dell’espulsione. Quanto però sia artificioso il collegamento di Cadmo con la Tebe egiziana lo si constata ancora dal fatto (non esente da una qualche contraddizione) che egli viene mandato via dall’Egitto perché “straniero”, al pari dei Giudei. Anche in questo caso, tuttavia, la causa per così dire occasionale che viene utilizzata per giustificare il fatto dell’uscita dall’Egitto è ancora la peste, che non implica alcun giudizio negativo né sugli eroi che guidano il gruppo (Danao e Cadmo) né sulla popolazione uscita con loro.
b) L’insediamento nella terra come processo di colonizzazione alla maniera greca
Proseguendo nell’esame del testo di Ecateo, troviamo scritto (XL,3.3) che il gruppo guidato da Mosé, molto più numeroso di quello greco, si è trasferito in Giudea, una terra non molto lontana dall’Egitto. Ma tutto questo dislocamento geografico e l’insediamento nella nuova terra viene presentato come un vero e proprio processo di colonizzazione: lo conferma il fatto stesso che nel testo viene usato il termine apoikia, di solito reso con “colonia”, sebbene qui sia detto non dell’insediamento, ma del gruppo ancora in cammino. I Giudei imitano perciò tutti quei Greci che, lasciata la loro madrepatria, hanno fondato altre città in diverse zone del Mediterraneo. Presentando la migrazione in questa veste, Ecateo si mostra chiaramente consapevole del fatto che i Giudei provengono dall’esterno e che la Giudea è un territorio non occupato militarmente, ma “colonizzato”. In questa consapevolezza si cela un’interpretazione greca di ciò che i testi biblici descrivono come una “conquista” della terra. Del resto in Ecateo il territorio su cui ci si stabilisce non è più quello fertile e rigoglioso celebrato dai testi biblici, ma è solo un deserto che i nuovi arrivati trasformano e rendono abitabile. Parallelamente, l’insediamento e la relativa bonifica sono fenomeni pacifici, e si sorvola perciò su tutte le lotte feroci e le distruzioni dei possenti centri urbani che i testi biblici enfatizzano. Siamo di fronte a una civiltà che nasce in forma del tutto nuova, e non si afferma nel suo contesto geografico e culturale attraverso una dialettica esaltatrice che sottomette la controparte conquistata, ossia i potenti popoli dell’antico Canaan, di cui non si fa neppure menzione. Bisogna aggiungere tuttavia che il motivo della colonizzazione di una terra deserta ricompare anche altrove nella storiografia greca: Erodoto (Storie IV, 11,4) parla degli Sciti che nei loro spostamenti trovano un territorio praticamente senza vita, anche se in questo caso è stato ridotto così dai Cimmeri che lo hanno prima abbandonato.
Mosè fonda poi Gerusalemme. Se è vero che può apparire alquanto sorprendente questo “falso storico”, che emerge però da un indebito confronto con i testi biblici, è doveroso ricordare ancora che anche altrove Mosè è posto in relazione diretta con questa città: in Strabone (Geografia XVI,2,36) egli ne prende possesso, ed essa è situata in una località fornita di acqua, ma situata in un contesto desertico e roccioso. A Ecateo non interessa del resto concordare le proprie asserzioni con la storia biblica, poiché nel collegare Gerusalemme con Mosè vuole solo rilevare che, se questa città è così centrale nella storia del popolo di cui si sta occupando, deve necessariamente risalire al personaggio che ha dato origine alla “colonia”. Perciò egli – ancora secondo Ecateo – fonda anche il tempio, le forme di culto, le leggi e le “istituzioni politiche” (così si può tradurre il complesso termine politeia di XL,3,3); inoltre, Mosè divide il popolo in dodici tribù, secondo i mesi dell’anno. Se volessimo riassumere tutti questi elementi con una terminologia cara alla nostra tradizione culturale, potremmo dire che Mosè fonda non tanto una città e i suoi addentellati sociali, politici e religiosi, ma semplicemente una civitas, la quale anche solo territorialmente non si restringe alle mura di un insediamento urbano. Mosè provvede infatti, sempre in quest’ottica, a distribuire il popolo su un territorio più vasto: la divisione in 12 tribù, che per i testi biblici è un riferimento al numero dei mesi dell’anno. Forse questo richiamo al calendario intende spostare il criterio che presiede alla suddivisione demografica dall’ambito geografico a quello cronologico. Il calendario, che qui di fatto si ispira al modello egiziano dei dodici mesi, diviene emblema di ordine e quindi garanzia di politeia.
c) Il culto e le istituzioni religiose e politiche
Subito dopo Ecateo afferma (XL,3,4-6) che Mosè vieta le immagini degli dei, perché Dio non ha forma umana, e ritiene inoltre che solo il “Cielo” sia divino e signore di tutte le cose. Mosè introduce pertanto il culto di una sola divinità, a cui però non si dà il nome proprio con cui egli si è rivelato allo stesso Mosè (Es3,14-15), ma viene attribuito l’appellativo “Cielo”. Si accentua comunque, con la caratteristica di questo culto aniconico, la “diversità” degli Ebrei, che viene ribadita dall’affermazione successiva, secondo la quale i loro sacrifici e il loro modo di vivere differiscono da quelli degli altri, poiché, in conseguenza della loro espulsione, Mosè ha introdotto uno stile di vita che è apanthropon e misoxenon: il primo di questi due aggettivi può essere inteso nel senso di “appartato dagli uomini”, o anche “asociale”, mentre il secondo, pur non indicando una vera e propria “intolleranza”, denota comunque il fatto di non gradire la presenza o la vicinanza di altri. Di solito si vede qui il riflesso, da parte giudaica, di un atteggiamento anti-giudaico di cui il testo di Ecateo sarebbe testimonianza indiretta; va notato però che la separazione di cui qui si parla è essenzialmente cultuale ed è motivata espressamente da Ecateo con il richiamo all’espulsione dall’Egitto dell’elemento “straniero” (xenelasia).
Mosè istituisce poi i sacerdoti come capi, giudici e custodi delle leggi, e pertanto i Giudei non hanno mai avuto un re; l’autorità suprema spetta al sacerdote più sapiente e virtuoso: costui è il sommo sacerdote. Ecateo ignora dunque il sacerdozio per discendenza genealogica e affermando che presso i Giudei non vi è (ossia, con proiezione retroattiva, non vi è mai stata) monarchia egli ha in mente la società ebraica del post-esilio: è una società di tipo sacrale, governata dall’elemento sacerdotale, nella quale (idealmente!) il sommo sacerdozio non si possiede per prerogative familiari, ma è acquisito per sapienza e virtù. Anche su questo punto particolare si cerca dunque di assimilare la società ebraica a quella greca, nella quale secondo i dettami delle proprie teorie politiche dovrebbe governare colui che è più sapiente.
Questa posizione dei sacerdoti, inoltre, è più vicina a quella dei sacerdoti di un’isola utopica di nome Panchaia, di cui parla ancora Diodoro nella sua opera (V,45,4), che non a quella descritta nel libro del Deuteronomio (cfr. 17,8-11), dove pure ai sacerdoti viene riconosciuta una certa preminenza sociale, almeno fittiziamente in epoca mosaica. A Panchaia la società si suddivide in tre classi: sacerdoti, contadini e guerrieri, e il potere spetta alla prima. È un’isola tipica della tradizione dell’utopia: compare anche in Evemero e corrisponde all’isola dei Dipsoti (o Assetati) dell’Utopia di Tommaso Moro. Tuttavia rispetto a questa società tripartita in Ecateo l’autorità del sommo sacerdote si fonda sul fatto che egli è “messaggero” dei comandamenti divini (XL,3,5): egli li espone (o anzi “interpreta”: hermeneuonta, XL,3,6) al popolo, il quale addirittura si prostra a terra davanti a lui quando esercita questa sua funzione. In un certo senso, il sommo sacerdote sembra essere il successore di Mosè legislatore e garantisce perciò la conservazione e la stabilità della società da lui fondata.
d) Le istituzioni militari, l’incremento demografico, il matrimonio e gli usi funebri
A Mosè sono fatte risalire anche le istituzioni militari (XL,3,7), al pari di quelle civili e religiose, per cui la società che ne risulta è perfetta (ancora forse secondo lo schema dell’utopia). Egli, nell’esplicare questo suo compito, conduce spedizioni nei territori vicini e distribuisce le terre conquistate ai cittadini, riservando però le parti più grandi ai sacerdoti, perché possano dedicarsi al culto. I cittadini non possono vendere le parti loro assegnate, per evitare che i più ricchi opprimano i poveri. Nelle leggi bibliche non si dice che, nonostante i loro privilegi, i sacerdoti debbano avere la parte maggiore dal lato quantitativo, mentre secondo Diodoro (V,45, 5a) a Panchaia i sacerdoti posseggono il doppio. È evidente che qui Ecateo riunisce insieme tre filoni culturali: la legislazione sui sacerdoti che si rispecchia negli scritti biblici, il modello previsto per le società ideali e la prassi della distribuzione ai combattenti delle terre conquistate.
Infine, Mosè prescrive che coloro che abitano nella terra allevino i figli, e poiché ciò avviene a basso costo, i Giudei diventano un popolo numeroso (XL,3,8). Il motivo della crescita demografica, oggetto primario della promessa ai patriarchi, viene ricondotto qui a un fattore economico, che ricupera il suo valore teologico solo più dal contesto, per via della natura della società di cui questo fattore demografico viene a far parte. Forse si può intravedere qui anche una qualche storicizzazione degli usi giudaici che Ecateo sta descrivendo. E questo è ancora più evidente nelle ultime affermazioni con cui Ecateo, secondo Diodoro, conclude la sua descrizione: Mosè fonda anche le istituzioni matrimoniali e quelle funebri, le quali più tardi, sotto il dominio dei Persiani e dei Macedoni, sono state stravolte. Con questo brusco passaggio alla realtà storica coeva (Ecateo scrive proprio agli inizi del dominio dei cosiddetti Diadochi, e comunque solo qualche decennio dopo l’avvento dei Macedoni), e sia pure per segnalare che le istituzioni di un tempo non esistono più nella loro struttura originaria, si accentua ancora di più la distanza, non solo cronologica, tra l’epoca ideale del fondatore e quella presente. E probabilmente, per questo dislivello forse voluto, la società fondata da Mosè assume la funzione di un archetipo che come tale funge da modello, ma resta irripetibile nelle sue forme e nelle sue istituzioni specifiche. Se così fosse, sarebbe interessante constatare che la storia degli Ebrei, come nella tradizione interna che ha dato luogo alla Bibbia si è perpetuata idealmente divenendo il modello di riferimento della tradizione religiosa successiva, così di fronte a un osservatore esterno, in questo caso di ambiente greco, ha assunto connotati altrettanto ideali, sebbene di altra natura, e in questo caso perché inquadrata in una corrente storiografica che ha elevato quel tipo di società a un prototipo che di fatto risulta difficilmente attuabile nella storia concreta.
5 — Il significato “ecumenico” del nome divino “Cielo”
Tra le affermazioni di Ecateo, che abbiamo passato in rassegna, ve n’è una che merita forse qualche ulteriore chiarimento. Il dio di Mosè si chiama “Cielo”, o meglio: “Il Cielo che circonda la terra è l’unico dio e signore di tutte le cose” (XL, 3,4). Perché questo nome? Nella Bibbia tale appellativo compare solo in epoca abbastanza tardiva, e soprattutto nel libro di Daniele, e per lo più nei testi in aramaico. A Nabucodonosor, ad esempio, viene detto che il suo regno sarà ristabilito quando egli avrà riconosciuto che al Cielo appartiene il dominio (Dan4,23; cfr. anche 1 Mac12,15). Più frequente è l’espressione “dio del cielo”, che segna quasi un passaggio verso questo appellativo (Dan 2,18s.37.44; Esd 5,11s.; 6,9s.; 7,12.21.23; preceduto dal nome divino YHWH in Esd 1,2; 2 Cron 36,23) ed equivale a “signore del cielo” (Dan 5,23) e “re del cielo” (Dan 4,34). Il nome “Cielo”, usato semplicemente per indicare la divinità, si ritrova anche in autori non ebrei: oltre ad Ecateo, è testimoniato in Strabone (Geografia XVI, 2,35, Giovenale (Satire VI, 542-545) e Celso (in Origene, Contra Celsum V, 6): è interessante il fatto che costoro, quando parlano dei Giudei, anche solo per inciso, affermino che essi venerano il “Cielo”.
Nell’ambito del mondo classico greco-romano questa denominazione rientra in quel processo attraverso cui una divinità si assimila ad altre assumendone il nome e le funzioni, e che si chiama di solito “polionimia”. In tal modo, i popoli e le civiltà si incontrano tra loro e dialogano dal lato culturale trasferendo questi loro rapporti storici al piano divino e stabilendo equivalenze tra i nomi dei loro dei. Ma all’interno del mondo semitico l’appellativo “Cielo” richiama il nome del dio Baalshamin (letteralmente “Signore del cielo”, o anche “Signore Cielo”), diffuso in area fenicio-aramaica a cominciare dalla prima metà del I millennio a.C. Dal punto di vista tipologico, Baalshamin rientra nella sfera del dio Baal e delle sue prerogative, che conosciamo soprattutto dai testi ugaritici: è un dio attivo che anche all’interno di un pantheon, pur non essendo il dio supremo, resta più a contatto con il mondo e con gli uomini, ai quali si manifesta soprattutto attraverso i potenti fenomeni atmosferici (tempesta, uragani, fulmini ecc.).
Si discute se il “Cielo” dei testi biblici sia da intendersi secondo il processo assimilativo del mondo classico o secondo la tipologia del Baalshamin semitico, ma va tenuto presente che anche il semitico Baal può rivestire i connotati di altre divinità, e d’altro lato il suo non è un nome proprio, ma esprime solo una funzione (egli è “signore”, dominus). Ma per quel che riguarda Ecateo, si può ritenere che egli, ricorrendo a questa denominazione, tende a collocare la divinità dei Giudei in un contesto culturale in cui all’assimilazione tra divinità corre parallelo un incontro tra civiltà, che si attua anzitutto sul piano ermeneutico: in questo caso la civiltà dei Giudei, nelle sue istituzioni originarie, è descritta nell’ottica della polis greca, governata e regolata dall’alto da una divinità propria, ma in qualche modo accessibile anche ad altri.
6 — Le possibili interpretazioni globali del testo di Ecateo
Dopo aver passato in rassegna il lungo brano di Ecateo, riportato da Diodoro, possiamo ora chiederci quale sia il senso complessivo di queste sue affermazioni, e da dove egli tragga le sue informazioni, senza con questo dover pensare necessariamente a fonti letterarie precise che egli utilizza. Si possono raggruppare le opinioni espresse al riguardo in quattro punti.
a) Ecateo potrebbe descrivere la situazione reale della Giudea dei suoi tempi (300 a.C. circa). Se ciò fosse vero, bisognerebbe chiarire come mai nel suo testo vi siano così tanti disguidi storici, o per lo meno come mai l’ambiente giudaico sia visto in una prospettiva che non è certo quella testimoniata direttamente dalle istituzioni giudaiche, in Palestina e nella diaspora. È pur vero che tali disguidi a noi risultano evidenti in relazione al testo biblico, e che questo procedimento critico non è del tutto corretto, come si è detto sopra, ma la visione che Ecateo ha dei Giudei è comunque distante da quel che sappiamo del mondo giudaico di quel periodo, e non solo per il rivestimento interpretativo che qui viene posto in atto.
b) Ecateo ha stravolto i dati con la sua interpretatio graeca: la sua visuale ha talmente permeato il contenuto delle sue informazioni da travisarlo radicalmente e lasciar trasparire solo la prospettiva greca. Egli tuttavia avrebbe presentato le cose in modo tale che l’interpretazione da lui fornita tornasse a vantaggio dei Giudei, i quali perciò potevano venir conosciuti anche dagli altri. Detto in altre parole: Ecateo ha reso accessibile, e anche comprensibile su un più ampio orizzonte, un mondo giudaico tendenzialmente chiuso in se stesso.
c) La fonte delle informazioni di Ecateo sarebbe rappresentata da gruppi sacerdotali, e perciò gerosolimitani, che rispecchiano l’ambiente noto dai testi biblici di Esdra e Neeemia; in tal senso, egli ha adottato la categoria greca della politeia, ma ha inteso descrivere una vera e propria politeia giudaica. Certamente si può intravedere nello scenario di Ecateo quella società che almeno in base ai testi biblici (peraltro molto problematici se assunti come fonte storica) si colloca nella cosiddetta epoca di Esdra e Neeemia. Tuttavia la generalizzazione richiesta dal rivestimento interpretativo greco non permette di cogliere le strutture tipiche di quella società, la quale continua a restare poco nota se la si vuole ricostruire alla luce di una rigorosa metodologia storica, e non parafrasando semplicemente il testo biblico.
d) Ecateo — e questa è forse l’ipotesi più attendibile — scrive secondo i canoni della storiografia greca, ripensando liberamente un materiale non codificato che, come abbiamo detto all’inizio, era ancora in via di formazione, ed è confluito poi (e neppure nella sua totalità) in quelli che sono divenuti per noi i testi biblici, oppure è stato trasmesso in quel vasto ed eterogeneo complesso di scritti che chiamiamo letteratura “apocrifa” (o “pseudepigrafa”). Le difficoltà nascono dal fatto che il nostro confronto viene operato partendo da questi scritti (biblici e non biblici) assunti nella loro forma definitiva, e anche dietro il condizionamento della loro autorità canonica (ovviamente per i testi biblici), e difficilmente ci rendiamo conto dello sfasamento letterario e storico che deforma un tale accostamento.
7 — La prospettiva complementare: gli altri nell’ottica storiografica giudaica
Se fin qui abbiamo presentato un esempio significativo di interpretazione esterna del mondo giudaico, è opportuno procedere brevemente a integrarlo con una prospettiva opposta e complementare, chiedendoci quali valutazioni ha espresso la storiografia giudaica nei confronti del mondo greco e romano.
Un primo esempio (che si colloca nel II-I sec. a. C.) ci è fornito dal primo libro dei Maccabei, quando descrive il tentativo di Giuda Maccabeo di allacciare relazioni con Roma, dopo aver ottenuto i suoi trionfi sul piano bellico e organizzativo. Nel presentare in 8,12-16 le istituzioni romane, si registrano anche qui dei fraintendimenti, se si confrontano le affermazioni del testo con la situazione storica effettiva. Ad esempio, il governo dei Romani è affidato a una sola persona, e non a due consoli; il senato è composto da 320 consiglieri (e viene pensato quindi sul modello della gherusia giudaica) e si riunisce ogni giorno. Il rapporto che si cerca di instaurare con i Romani viene definito con i termini philia e symmachia: non si usa la parola diatheke, che caratterizza l’alleanza religiosa tra Dio e Israele. All’accorta definizione del rapporto di alleanza (politica), che si vuole stabilire con i Romani, corrisponde una presentazione delle loro istituzioni che li rende più vicini al mondo giudaico e anche qui in certo modo più comprensibili. E non è escluso neppure un tentativo di accostare la situazione socio-politica creatasi con i Maccabei (esaltata ancora di più dalla storiografia che l’ha seguita) alla grandezza di una Roma che nel II sec. a.C. ha iniziato a far sentire il proprio peso in Oriente: trattando tra pari, anche la minuscola “nazione” giudaica acquista e vuole fare acquistare una maggiore considerazione di sé.
Un secondo esempio può essere desunto ancora dal primo libro dei Maccabei, al capitolo 12. Sotto Gionata Maccabeo, successore di Giuda, si cerca per una seconda volta di stabilire contatti con Roma e in quella circostanza viene inviata un’ambasceria anche a Sparta. Ma verso quest’ultima città ci si comporta in un modo alquanto singolare. Nella lettera affidata agli ambasciatori si accenna anzitutto a una lettera precedente che un certo Areo, re degli Spartani, aveva inviato al sommo sacerdote Onia, e nella quale erano contenute dichiarazioni di philia e symmachia nei confronti dei Giudei e si attestava di essere loro fratelli (adelphoi; 12,7-8). In risposta, i Giudei affermano ora che sono disposti a rinnovare volentieri i sentimenti di fraternità (adelphotes) e di amicizia (philia), pur non avendone bisogno, perché hanno a loro conforto le Scritture sacre (12,9-10). Le Scritture vengono qui considerate un bene religioso proprio, che all’occasione funzionano anche sul piano politico, annullando gli effetti di una eventuale alleanza con altri gruppi o popoli. Non è chiaro, allora, perché si invii questa ambasceria a Sparta, nei confronti della quale non si adotta certo un atteggiamento corretto dal lato diplomatico, affermando di non aver bisogno del suo aiuto. Ma una così palese incoerenza può venire spiegata se si tiene presente che questa ricerca di un contatto con Sparta (di cui non si ha affatto notizia in altre fonti storiche) è dovuto anzitutto all’intento di presentare a un pubblico più vasto e famoso il proprio assetto politico raggiunto con sforzi eroici: l’altro viene rimodellato in modo da assumere adeguatamente la funzione di controparte politica in questo scambio fittizio di dichiarazioni.
8 – Conclusioni
a) Gli esempi a cui ci siamo limitati sono alquanto distanti tra loro nel tempo, ma possono costituire le premesse di fondo per illuminare il confronto tra istituzioni religiose e culturali che si operano presso gli autori giudaici, e anche negli scritti biblici, a cominciare dal 300 a.C. Su questa linea si muoveranno in seguito da parte giudaica autori come Eupolemo, il cosiddetto Pseudo-Eupolemo, Artapano, e il più noto di tutti, Flavio Giuseppe, e tra gli scritti biblici soprattutto quelli definiti “sapienziali”. Ognuno di questi autori e di questi scritti presenta il mondo giudaico e vede la controparte sotto un profilo particolare, e sarebbe interessante vedere sino a che punto ciascuna delle due parti in dialogo è responsabile dell’immagine che l’altra si è formata di lei.
b) Il confronto assimilativo che abbiamo illustrato è positivo e va mantenuto distinto da quello polemico, dovuto anche a reazioni contro affermazioni anti-giudaiche, sorte in particolari ambienti e relative quasi sempre alle stesse tematiche. L’anti-ellenismo globale di parte giudaica è dovuto talvolta al mascheramento, in termini culturali, di una lotta politica combattuta per una liberazione nazionale che ha fatto apparire l’ellenismo come una sorta di paganesimo ante litteram. L’ellenismo è stato pertanto demonizzato per motivi politici, trasformando in lotta ideologica quella che in realtà era solo una controversia politica. Ma dobbiamo anche rilevare, sul piano opposto, che la cultura greca ha ottenuto una sua piena rivendicazione diffondendosi ampiamente in territorio palestinese, come ci attesta anche solo uno sguardo superficiale alla situazione archeologica di quel periodo storico. Lo splendore architettonico e artistico raggiunto dalla Palestina nella tarda epoca ellenistica, e soprattutto in età erodiana, non si è mai più ripetuto.
c) Le immagini degli Ebrei che si deducono dal confronto con il mondo greco sono molteplici. La canonizzazione di alcune testimonianze scritte, trasformate perciò stesso in libri “biblici”, ha avuto un’incidenza psicologica sulle generazioni posteriori, che hanno rivisitato il passato della storia ebraica uniformandolo il più possibile alla storia biblica, la quale per così dire è divenuta più normativa, sul piano storiografico, di quanto lo sia divenuta legittimamente sul piano teologico. Per la ricostruzione della storia degli Ebrei, la Bibbia tende ad assumere di solito una preminenza monopolistica che dal punto di vista storico non è per nulla giustificata. Dal contesto culturale del raffronto con il mondo greco possiamo concludere che essa va ritenuta semplicemente un’antologia molto selettiva di opere letterarie eterogenee, che hanno bisogno di essere situate integralmente nel loro ambiente storico per poter essere capite in se stesse, se si vuole intendere correttamente anche il messaggio teologico a cui sono state poi destinate e per il quale sono divenute così famose.
Bib. Elias J.Bickerman, Gli Ebrei in età greca, Il Mulino, Bologna 1991,185-371.
Gabba G., La Palestina e gli ebrei negli storici classici fra l V e il III sec. a.C., in Rivista Biblica 39 (1986) 127-141.

