L’ellenismo e la Bibbia

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a cura di Lucio Troiani.

Un nome subito, Alessandro. Non poteva essere altrimenti. Da quando lo storico tedesco J.G.Droysen introdusse nel lessico storiografico ottocentesco il termine “ellenismo”, un dato è sempre rimasto fuori discussione: il punto di partenza. Si è invece discusso molto su quale sia il periodo in cui farlo terminare. Inizialmente infatti questa parola indicava l’epoca estesa tra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la caduta dell’ultimo regno ellenistico, quello di Cleopatra in Egitto, ridotto sotto il potere di Roma nel 30 a.C. La successiva storiografia – specie quella che ha compreso nell’ellenismo l’età della “conversione” alla nuova religione cristiana – ha ampliato i confini cronologici del periodo includendo nell’età ellenistica la cultura e la filosofia latine dei primi secoli dell’era volgare in cui sono stati ripresi e svolti temi presenti nella precedente cultura greco-ellenistica. Si potrebbe dire che, rispetto a queste due alternative cronologiche, optiamo per la seconda assumendo il termine “ellenismo” in senso esteso. Tutto prende l’avvio dal grande Alessandro. Molti sono i modi per dirlo; qui ne scegliamo uno di carattere politico-culturale-religioso (e la cosa più importante sta proprio nel convincersi dell’opportunità di questi tre trattini). A.J.Festugière in un suo classico libro di ormai mezzo secolo fa, La Révélation d’Hermès Trismégiste, riporta un frammento di Teo­frasto – successore di Aristotele a capo della scuola peripatetica verso la fine del IV secolo a.C. – che per dimostrare l’empietà di sacrificare animali prospettava l’esistenza di una parentela universale fra tutti i viventi. Se si parla di affinità fra greco e greco, barbaro e barbaro, e più in generale fra tutti gli uomini, lo si dice in quanto appartengono alla stessa stirpe. In questo senso diciamo che tutti gli uomini sono parenti, non solo tra loro, ma anche con gli animali a cui assomigliano sia per il corpo sia per l’anima. Aristotele escludeva ogni comunanza di natura tra greci e barbari, figuriamoci se l’ammetteva fra uomini e animali; qui invece essi sono accomunati in quanto nati dagli stessi genitori: il Cielo e la Terra. Tra l’epoca del maestro e quella del discepolo è avvenuto un fatto nuovo, e tutto porta a credere che esso sia la volontà di Alessandro di unire gli uomini come fratelli perché figli dello stesso padre, il Cielo. L’idea di considerare tutti gli uomini come un solo popolo perché nati dallo stesso dio, il Mondo o il Cielo, è un’idea di Alessandro. La religione del Mondo conveniva tanto alla Grecia conquistata quanto ai disegni del conquistatore macedone; inoltre, all’Oriente rapidamente ellenizzato, ove il greco e il barbaro dovevano unificarsi in nuove città, esso offriva un dio che tutti gli uomini possono pregare in comune perché estendeva su tutti la stessa filantropia. Se prendiamo le mosse da Alessandro, non va dimenticato che il suo orizzonte privilegiato resta legato all’asse biblico. Quale confronto fra Bibbia ed ellenismo? Questo tema lo si può esporre con una domanda formulata più o meno così: in che modo rapportarsi a questo universalismo politico-cosmico da parte di una tradizione come quella ebraica che, pur non ignorando l’universalità, connette anche quest’ultima alla particolarità storica del popolo di Israele? Questo interrogativo trovò in quell’epoca molte risposte teoriche e pratiche, esse vanno dalla drammatica lotta dei Maccabei alle più raffinate elaborazioni culturali del giudaismo alessandrino. È persino superfluo sottolineare l’attualità di una siffatta situazione in cui sia l’universalismo sia la tutela della diversità, tanto la multiculturalità quanto la difesa della propria identità vogliono avere voce in capitolo. Non fosse altro che per questo, le grandi sapienze della Bibbia e dell’ellenismo hanno ancora molte cose da dire a chi è in grado di ascoltarle.

1 – Frammentazione del giudaismo

L’età persiana, in pratica il periodo che intercorre tra la presa di Ba­bilonia da parte di Ciro il Grande (539a.C.) e le battaglie vittoriose di Alessandro Magno al Granico, ad Isso e Gaugamela, vede già avviato quel processo di articolazione e di differenziazione, al suo interno, del giudaismo che sarà caratteristico dell’età greca. Il territorio dell’ex-re­gno del nord o d’Israele, con centro a Samaria, ospita ora una comunità di popolazioni miste in cui, accanto all’elemento indigeno, coesiste una popolazione d’origine assira, i discendenti dei coloni impiantati da Sargon II dopo la presa della capitale del regno d’Israele (722a.C.). Quelli che, nella tradizione successiva, sono definiti “cutei”. Come appare perspicuo agli anonimi redattori dei biblici Libri dei Re come pure delle Cronache, questo regno aveva tradizioni culturali, civili e religiose differenti da quello del sud. Il territorio dell’ex-regno del sud, con capitale Gerusalemme, accoglie ora, accanto all’elemento indigeno, una comunità di giudei della diaspora babilonese. In età persiana, la Giudea è un quadrilatero con centro Gerusalemme, sperduto nella satrapia persiana di “Oltre il fiume”. I libri biblici di Esdra e Neemia, qualunque siano l’autore, l’epoca e l’ambiente cui la primitiva redazione appartenga, testimoniano il faticoso, lento processo di coesistenza, di collaborazione, di assimilazione dei giudei della diaspora babilonese e persiana con i nativi. Neemia, coppiere di origine giudaica alla corte di re Artaserse intorno alla metà del V secolo, che si reca in Giudea con il delicato incarico di ripristinare alcune tradizioni forse desuete, è personaggio sintomatico e rappresentativo di un processo storico sicuramente più lungo c articolato. Come avverrà anche in età greca, l’elemento propulsivo ed innovatore del giudaismo si trova fuori delle patrie mura e dei confini della terra di Giuda. Gli emigrati, da Susa, da Babilonia come pure dall’Egitto, portano in Giudea le loro esperienze, i loro costumi ed il loro patrimonio di tradizioni e di cultura. Nel V secolo, così, il giudaismo è una civiltà e una cultura che si estende ben oltre i confini della terra di Giuda. Ad Elefantina, un’isoletta sul Nilo, esisteva, dai giorni degli ultimi Faraoni, una colonia militare composta da soldati d’origine giudaica che adoravano il loro dio nazionale insieme con altre divinità del luogo. Qui i coloni militari adottano forme di sincretismo, non solo religioso, che non cessano di essere discusse dalla dottrina moderna. Già a partire da questo periodo, le autorità di Gerusalemme si trovano a gestire la complessa ed intricata trama dei rapporti con la periferia. Si avvia quel processo di osmosi tra centro e periferia che contraddistingue tutta l’età successiva. La terra di Giuda riceve linfa vitale dalle complesse sorgenti della diaspora che a sua volta ne è condizionata. Com’è noto, il giudaismo babilonese ed egiziano non è estraneo alla redazione di taluni libri della Bibbia. Un autore giudeo d’età greca, autore di uno scritto familiare alla dottrina moderna sotto il titolo di Lettera di Ari­stea, arriverà a sostenere che le tradizioni sacerdotali del dottissimo Egitto avrebbero molto da dire sulle origini della nazione giudaica. Nella prima età imperiale, Filone alessandrino, in un’opera apologetica del giudaismo, presenta il fondatore della nazione come “l’antenato caldeo”.

Pluralità di tradizioni comportò pluralità di centri di culto. L’adorazione del dio dei patriarchi sul monte Garizim troverà espressione nella fondazione del tempio che, accanto al tempio di Gerusalemme, costituì per secoli un centro e un punto di riferimento costanti per taluni seguaci della legge di Mosè. Lo storico Giuseppe, sul finire del I secolo d.C., quando ormai da secoli il tempio sul Garizim è un cumulo di rovine a seguito della distruzione ordinata dal sovrano asmonaico Giovanni Ir­cano I, conosce comunità samaritane in terra d’Egitto che si rimettono, per il contenzioso con i “giudei”, all’autorità del sovrano allora regnante, Tolemeo VI Filometore (circa la metà del II secolo a.C.). I seguaci della legislazione mosaica sono dunque dispersi in diversi paesi. In età greca questa varietà di tradizioni culturali e religiose si esprime nei tre santuari di Gerusalemme, Samaria e Leontopoli, in Egitto. Giuseppe, registrando la chiusura di quest’ultimo tempio ad opera del prefetto romano d’Egitto nel 74 d.C., non ha commenti da fare sulla sua esistenza secolare (era stato fondato nei momenti convulsi della guerra civile maccabaica); santuario che (egli dice) riproduceva perfettamente, ma solo in dimensioni più piccole, quello di Gerusalemme. Il movimento essenico-qumranico non è che la spia più eclatante delle diverse posizioni in seno al giudaismo. Non fosse per la testimonianza di Filone alessandrino, noi non sapremmo nulla su un movimento monastico egiziano di seguaci della legge mosaica che aveva il titolo (che appartiene al linguaggio religioso e rituale pagano) di “servitori” (terapeuti).

Data questa situazione, il pericolo di una dispersione del patrimonio rituale e religioso della nazione, accompagnata dall’assimilazione alle singole culture locali, sarà stato periodicamente avvertito.

Come ammonisce Giuseppe, dopo avere descritto quelle che, a suo giudizio, sono le principali scuole di pensiero in seno al giudaismo (es­senismo, fariseismo e sadduceismo), l’aderenza alle tradizioni patrie e la sistematica ripulsa di ogni innovazione rappresentano l’unico argine contro una rovinosa dissoluzione per quanti egli qui definisce “i convenuti”; che convengono, cioè, da territori geograficamente distanti. Già i profeti, in particolare Isaiah ed Ezechiele, manifestano questa preoccupazione quando auspicano la conversione dell’Israele disperso tra le nazioni. Nel libro biblico di Neemia, il funzionario imperiale distingue i giudei (come ethnos delimitato nei suoi angusti confini territoriali) dal più generale ed eterogeneo complesso di quanti si riconoscono nella legge di Mosè.

Senza tenere nel debito conto quest’inesauribile linfa proveniente dalla diaspora, sembra difficile valutare le dimensioni e lo spessore del giudaismo antico. Uomini che vivevano a Susa, a Babilonia, ad Alessandria da generazioni, che conoscevano le tradizioni native ed erano stati insieme educati, ugualmente da generazioni alla lettura della Bib­bia, portavano a Gerusalemme la ricchezza e la varietà dei rispettivi patrimoni di cultura. La circostanza può servire a spiegare perché Babilonia e Alessandria siano state centri d’irradiazione della cultura giudaica. II giudaismo si colora variamente della fisionomia delle diverse nazioni presso di cui vive. Secondo la testimonianza dei papiri, in Egitto, già nel primo ellenismo, personaggi d’origine giudaica si qualificano come “macedoni”. Gli atti pubblici di Alessandria, di Antiochia, di Efeso, di Sardi registravano come “alessandrini”, “antiocheni”, “efesini”, “sardiani” i concittadini di nascita giudaica. Da ambienti della diaspora, insediata da generazioni in terra di Egitto e, in particolare, ad Alessandria, il primo storico greco, che tratta appositamente dei giudei, Ecateo d’Abdera, vissuto nell’ultima parte del IV secolo a.C., ricava la notizia (che doveva concludere l’excursus sulla loro storia e civiltà) secondo la quale “al tempo degli imperi successivi, a seguito del contatto con gli stranieri durante l’impero dei persiani e dei macedoni che lo rovesciarono, molti dei costumi patri dei giudei furono stravolti”. Egli notava diffusamente il fenomeno delle emigrazioni del popolo e ricordava come molte decine di migliaia di giudei fossero state deportate a Babilonia dai persiani e come non poche miriadi fossero emigrate in Egitto e in Fenicia. Un editto, promulgato da re Tolomeo II Filadelfo d’Egitto nella metà del III secolo a.C., ricorda che “parecchi giudei furono stabiliti nel nostro paese, dopo essere stati deportati da Gerusalemme ad opera dei persiani”.

L’identità dei giudei di Gerusalemme e della terra di Giuda comincia a distinguersi da quella delle altre nazioni della diaspora. Neemia, il funzionario imperiale che racconta in prima persona il suo viaggio a Gerusalemme per ricostituire quelle che sono, a suo giudizio, le basi religiose e culturali d’Israele, parla dei “giudei che abitano nelle vicinanze”. Egli, prospettando a re Artaserse il viaggio a Gerusalemme, chiede che gli sia consentito “di inviarlo in Giuda, nella città delle memorie dei miei padri”. Quando Alessandro Magno appare in Oriente come l’erede dell’impero persiano, soldati di origine giudaica militavano nei suoi eserciti, secondo un’antica tradizione raccolta dallo storico Ecateo. II giudeo appare subito “greco nell’anima e non solo nella lingua” al più celebre intellettuale del primo ellenismo, Aristotele.

In questo stato di frammentazione, è comprensibile che la tradizione abbia recepito il tempio di Gerusalemme come momento unificante della storia del giudaismo antico. Non è un caso che, dopo la distruzione del 70 d.C., la storia del giudaismo si disperda in vasi non più comunicanti e che l’ultimo storico del giudaismo antico sia stato un sacerdote. Riprendere le fila della complessa trama del giudaismo divenne sempre più problematico dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme; il quale non è solo il simbolo della religione di un ethnos; è punto d’incontro e di raccordo di diversi popoli con costumi e tradizioni diversi. Esso si sottrae, così, ad un ambito nazionale. Nei libri biblici relativi, che echeggiano speculazioni più tarde, l’iniziativa di ricostituire il santuario e le tradizioni nazionali prescinde da qualunque apporto locale. Filone alessandrino e Giuseppe commenteranno all’unisono che le sacre solennità di Gerusalemme sono un’ottima occasione perché le mille anime del giudaismo possano arrivare a conoscersi e a capirsi. Giuseppe ricorda che in epoca imprecisata alcuni fedeli d’oltre Eufrate, dopo un lungo viaggio e dopo avere affrontato peripezie e sostenuto spese rilevanti, non furono ammessi al pasto sacrificale nel tempio. I loro riti e le loro tradizioni sacre non erano “patrie” ai giudei. Per questo motivo, la riforma del culto e, in genere, della vita religiosa, introdotta a Gerusalemme nel 167 a.C., trovò un’eco non solo all’interno dei confini della terra di Giuda, ma anche a Cirene come pure in altre città della diaspora greca. Una guerra così lacerante e traumatica, quale fu quella condotta dalla Giudea contro Roma nel 66-73 d.C., lasciò il segno tanto nell’ecumene romana quanto presso le comunità che vivevano entro i confini dell’impero partico, come testimonia la primitiva stesura in aramaico della Guerra Giudaica da parte di Giuseppe.

 2 – “Giudaismo”

 Nel momento in cui la civiltà ellenistica, con sfilata di eserciti, uomini d’affari, mercanti, intellettuali, si affaccia sulle montagne di Giuda, quello che noi definiamo “giudaismo” è fenomeno articolato e diffuso fra le nazioni; è un conglomerato di diverse culture. In Egitto, nella Babilonia, in Media e Persia esistevano comunità di seguaci della legge mosaica. Quando la nuova amministrazione greca e macedone si afferma e si consolida in Oriente, comunità che si riconoscono nella legge di Mosè sono diffuse dalla Galilea all’Egitto, dall’Asia Minore a Susa. Com’è naturale, l’impatto della civiltà greca e della sovranità macedone sul mondo ebraico variò da regione a regione. La rivolta di Samaria contro il nuovo padrone macedone, che si concretizzò nella feroce uccisione di Andromaco preposto da Alessandro sulla Siria, si risolse in vantaggi territoriali per la limitrofa Giudea. Lo scisma samaritano, realizzatosi forse nella primissima età greca, testimonia che l’avvicendamento dell’autorità politica poteva ripercuotersi sulla vita religiosa delle comunità. Conflitti latenti potevano, in queste circostanze, venire alla luce più facilmente. In Giudea, il problema principe che si presentava ai poteri costituiti era l’applicazione della legislazione di Mosè. L’autorità politica, tanto quella tolemaica prima (fino al 198 a.C.), quanto quella seleucidica dopo (fino al 142 a.C.), doveva assumere come punto di riferimento le leggi patrie dei giudei che essa sola poteva applicare e fare rispettare; tanto Ciro il grande quanto Antioco III promulgano la legge di Mosè nella regione di Giuda. La sua “costituzione”. Ma, in Egitto come pure in Samaria, nella Perside come pure nella Babilonia, la legge di Mosè non era la legge della comunità civile. “La costituzione di Mosè” venne assumendo sempre di più, in queste contrade, un senso lato che comprendeva precetti etici. Essa finiva per so­vrapporsi alla costituzione cittadina e investiva in larga misura la vita spirituale e non pubblica del singolo. Essa era prevalentemente osservata nel segreto della coscienza e delle mura domestiche. Mentre in Giudea abrogare tale costituzione significava abrogare l’ordine civile vigente, nella diaspora, la sua osservanza era affidata alla compattezza ed alla buona volontà delle singole comunità o, meglio, di singoli appartenenti alle comunità. Nella diaspora persistere “nel giudaismo” era motivo di benemerenza, come dimostrano ad esempio il libro biblico di Tobit oppure le iscrizioni. A Gerusalemme era un dettato costituzionale. Perciò, negli ambienti della dispersione, “giudaismo” finisce per designare una condotta di vita secondo la legge di Mosè e non l’appartenenza ad una nazione. Nella Lettera ai Galati, Paolo ricorda la sua precedente militanza e i suoi trascorsi progressi nel “giudaismo”. In questo brano, l’apostolo non vuole certamente dire che era diventato giudeo; semplicemente che presso la sua città di nascita (Tarso) aveva adottato una rigida vita giudaica a fronte dei coetanei. Giudaismo non esprime un’etnia, ma l’applicazione  di una serie di precetti e di regole. Alla diaspora il compito, difficile e delicato di conciliare le esigenze della vita pubblica locale con l’osservanza della costituzione mosaica. Per questo motivo, il cittadino d’origine giudaica di una città greca si presta alle critiche più o meno pungenti degli autori satirici che deridono lo scrupolo e la superstizione di chi si sente legato a prescrizioni di rilevanza sulla vita pubblica come il sabato. In un quadretto, Persio nota il comportamento contraddittorio di un aspirante all’edilità (carica che insegue roso dall’ambizione), che oscilla fra un atteggiamento di soddisfazione e d’esuberanza per i compiti, che lo attendono e che gli assicureranno fama, e il terrore per certe osservanze imposte dalla costituzione d’Israele. All’avvicinarsi “dei giorni d’Erode”, egli sarebbe preso da sgomento e, fra i preparativi del sabato e formule di preghiera bisbigliate, non riesce a nascondere il suo pallore. Epitteto noterà la proverbiale ambiguità di un’identità giudaica. Nella lettera agli efesini, Paolo parla a persone “che sono divenute estranee alla costituzione d’Israele”. Come dimostrano tanto il proemio del Il Libro dei Maccabei quanto quello dell’Ecclesiastico, redatto dal nipote dell’autore, Ben Sira, “vivere secondo la legge” era una delle esigenze e preoccupazioni più sentite fra la diaspora. Egli puntualizza che la sua traduzione in greco del libro dello zio sarà un contributo per una vita secondo la legge così come ­recepita da quanti abbiano desiderio di imparare. Nello stesso spirito, l’anonimo autore della Lettera di Aristea colloca il bisogno di imparare fra i motivi fondanti del suo libro e delle informazioni qui contenute su Gerusalemme e sulla Giudea.

La diaspora condizionava ed era condizionata dal regime di volta al potere a Gerusalemme. Lo stato sacerdotale, finché manteneva le sue caratteristiche di “teocrazia” (per usare le parole di Giuseppe), svolgeva specialmente un ruolo d’indirizzo spirituale. Come dimostra la Lettera di Aristea, i ceti benestanti della diaspora amavano vagheggiare a Gerusalemme un regime di santi e di puri, volti alla perfezione morale e ispirati dal timore di Dio. Le gesta di Giuda maccabeo contro l’esercito seleucidico e il cosiddetto partito della riforma furono così diversamente celebrate nei diversi ambienti. In Giudea, esse diedero l’occasione ad un anonimo scrittore di redigere una vera e propria cronaca di corte che esalta lo spirito guerriero della nazione predestinata ad essere liberata dalla “schiavitù dei greci” ad opera della discendenza di Mat­atia. Nella diaspora, esse furono viste come una guerra santa per il tempio, mentre la loro rilevanza politica finisce ridimensionata. La xenofobia del nostro anonimo scrittore (autore del cosiddetto I Libro dei Maccabei) si rivela nella condanna degli eterni nemici cananei; la preoccupazione della diaspora è invece preservare il culto e l’identità religiosa dalla soverchiante influenza dell’ellenismo. In questi ambienti specialmente si conia il termine “giudaismo” come antidoto ai pericoli dell’assimilazione. L’anonimo epitomatore dell’opera di Giasone di Ci­rene (autore del cosiddetto II Libro dei Maccabei) celebra solennemen­te nel proemio l’eroismo di Giuda in favore del “giudaismo”. Il termine non ha connotazione etnica e diventa espressione di un’ideologia all’in­terno dei seguaci della legge, tanto degli abitanti di Giuda quanto della dispersione. Esso non designa la collettività dei figli d’Israele e si costituisce e si precisa sui parametri della mescolanza. L’ellenismo, come fattore esterno che aggredisce un giudaismo unitario e monolitico, è un luogo comune. Quando l’ellenismo si affaccia sul mondo giudaico con il suo patrimonio d’idee e di culture, quest’ultimo era già articolato in regioni e ideologie. Quando nel 175 a.C. furono coinvolte in una guerra civile che terminò con la creazione di uno stato ellenistico in terra santa, Gerusalemme e la Giudea erano divise già da generazioni all’interno della classe dirigente. Dalle fonti antiche apprendiamo che il conflitto si focalizzò sul grado di adesione alle civiltà limitrofe. Ma queste medesime fonti sono divise sulla natura del conflitto. Il mondo giudaico allora era troppo articolato e diviso per lasciar filtrare una tradizione univoca sulle origini della rivolta maccabaica. Il dato certo è che una parte della classe dirigente avviò una radicale politica di apertura al mondo esterno. Come sembra essere mostrato dal I Libro dei Maccabei, il giudaismo locale interpretò le origini del conflitto senza alcuna particolare preoccupazione per l’ellenismo che, dal punto di vista del nostro autore, è fenomeno lontano ed ostile. La guerra per il tempio di Gerusalemme, scatenata da Mattatia e figli, per lui, è guerra contro la servile assimilazione ai costumi dei popoli limitrofi. Come per gli autori “biblici”, per il nostro scrittore, tanto ai tempi dei sovrani di Giuda e d’Israele quanto nei giorni dei re greci, il laccio viene dall’elemento ca­naneo. L’abbandono della Torah e della religione nativa non è opera del re macedone che ha semplicemente offerto il braccio armato. Per questo giudaismo, ancorato ai valori patri della terra d’Israele, l’ellenismo è lo straniero. Il nemico che alberga in seno al popolo è, ancora, l’eterno nemico cananeo. Per questo il santuario di Gerusalemme è trasformato dai riformatori, secondo la narrazione di I Maccabei, nel tradizionale tempio semitico a cielo aperto; per questo il nostro autore parla di una bamà innalzata sull’altare dei sacrifici all’interno del tempio di Gerusalemme. Invece, l’autore di II Maccabei è un giudeo di impronta e di formazione greca; per lui, che vive nella città greca, è stato I’ellenismo il vero responsabile della guerra civile che insanguinò la Giudea nei giorni dei Maccabei. Sono “le idee greche” a minacciare di sgretolare l’identità della nazione. Per lui “giudaismo” si identifica nella difficile e faticosa adesione ai propri principi patri durante l’esercizio dell’attività quotidiana di cittadino. Egli studia accanto alla Bibbia i classici della sua cultura nativa. I giudei, per lui, non sono solo gli abitanti della Giudea; sono tutti quanti si riconoscono nella legislazione di Mosè. Dalle colonne d’Ercole al Tigri. Ellenismo non evoca lo straniero; ma una cultura e una civiltà nella quale è stato allevato dall’infanzia. Il suo problema è conciliare la condotta quotidiana nella città greca con le norme della Torah, con “la vita giudaica”.

 3 – Mescolanza/non mescolanza

 Perciò, il problema cruciale e secolare, che i giudei avevano da affrontare in età greca e romana, fu quello del grado di assimilazione alle differenti culture in mezzo alle quali vivevano da generazioni. Mescolanza e non mescolanza sono i due assi su cui ruota la storia passata. L’anonimo epitomatore dell’opera di Giasone di Cirene rievoca i tempi antecedenti a quella che definisce la “non mescolanza”. Durante questi infausti tempi, si potevano incriminare patrioti, quali un certo Razis, del reato di “giudaismo”. Per lui l’eroismo di Giuda Maccabeo avrebbe posto fine ad un’indiscriminata politica di apertura verso il mondo esterno. Perché sulla mescolanza e non mescolanza si giocava l’identità giudaica dalle colonne d’Ercole all’Elam. Qui avevano la parola non solo l’autorità gerosolimitana ma anche le autorità ufficiali disseminate nella città greca, in Grecia come in Macedonia, in Asia Minore come in Egitto, ad Antiochia come a Cirene: quelle che Luca situa nella “sinagoga dei giudei”. La politica della classe dirigente, di volta in volta al potere a Gerusalemme, avrà assorbito (come pure alternativamente respinto) lo spirito e gli apporti delle diverse provenienze della diaspora. Il progressivo adeguarsi della dinastia maccabaica ai principi e alle regole della diplomazia internazionale avviò un processo di ellenizzazione delle strutture politiche ed amministrative del paese che veniva anche incontro a taluni settori della diaspora. Sovrani come Alessandro Gianneo oppure Erode il Grande avranno portato all’estremo questo processo. D’altra parte, la politica imperialistica dei sovrani di Giuda sollecitava le preoccupazioni e le diffidenze della diaspora pia e tradizionalista. È stato notato come il sovrano modello sia delineato dall’au­tore della Lettera di Aristea sotto la spinta del timore che sul trono di Davide salgano personaggi che spregiano ogni virtù e remora di carattere morale. Da ambienti della diaspora autori greci, come Diodoro e Strabone, ricavano l’accento sul carattere teocratico e sacerdotale dello statuto giudaico. La Giudea, però, divenendo sede di un potentato ellenistico, finisce per alimentarsi delle infinite risorse della diaspora. È a mio avviso problematico comprendere la fitta ragnatela d’iniziative in politica estera, tessuta da re Erode, senza considerare le comunità disperse dall’Italia fino all’Eufrate. L’apporto della diaspora più ellenizz­ata al regno avrà dato a quest’ultimo un’impronta tale da suscitare la reazione scandalizzata delle generazioni successive. Giuseppe in piena reazione ricorda il ruolo nefasto svolto alla corte di re Erode da parte di personaggi della risma di Euricle spartano. Lo stesso Nicolao di Dama­sco, il consigliere del principe, portavoce e autorevole patrocinatore degli interessi della diaspora presso I’autorità romana, è fortemente ridimensionato nell’opera del nostro storico. All’interno dei paese cominciò a scavarsi più profonda la frattura fra tradizioni patrie e novità. Il re non aveva disdegnato quelle iniziative di facciata (opere edilizie che che evocavano lo spirito dell’ellenismo: teatri, anfiteatri, palestre, ginnasi, porticati) che promuovevano l’opera di riconciliazione con l’autorità occupante.

Il quadro che i Vangeli offrono della presunta ristrettezza e miopia della classe dirigente contemporanea di Gesù, dimostra quanto quest’ultima abbia tenuto a differenziarsi da quella politica d’apertura, di mescolanza che aveva caratterizzato il passato regime. Secondo la testimonianza concorde degli evangelisti, la classe dirigente della Giudea dei giorni di Pilato guarda con sussiego e disprezzo alla diaspora, si trovi in Galilea o in Grecia. I giudei di Matteo, Marco, Luca e Giovanni rappresentano il sedimento di un plurisecolare processo di differenziazione in seno a quanti si riconoscevano nella legislazione mosaica. Gli autori neo-testamentari distinguono la massa del popolo dai “giudei” i quali si farebbero i rappresentanti di un’ideologia della legislazione mosaica. Alla loro epoca, nell’universo di quanti si riconoscevano nella legge – dalla Galilea all’Idumea, dall’Egitto alla Grecia e alla provincia d’Asia – i giudei dovevano costituire una minoranza. Nell’età di Gesù, secondo un processo avviato dalle differenti reazioni all’ellenismo secondo i luoghi, il giudaismo e i giudei non sono che una componente del mondo che si riconosceva nella legge mosaica. Come appare chiaro dall’elenco dei popoli presenti al miracolo della Pentecoste secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, i giudei erano solo una componente all’interno di quanti si richiamavano alla costituzione di Israele. Quando Giuseppe sottolinea come i “timorati di Dio” abbiano contribuito al tesoro del tempio di Gerusalemme accanto ai giudei, egli non designa improbabili pagani simpatizzanti, quanto quella fascia d’osservanza della legge mosaica che si ritrovava dispersa nell’ecumene esattamente come i giudei.

I “giudei” del Nuovo Testamento sono così la risultante di una lunga evoluzione e di un secolare processo di differenziazione all’interno dell’universo ebraico.

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