Il bene sostiene la libertà

Spesso parliamo di libertà, sempre la sogniamo; ma se ci chiedessero che cos’è effettivamente le cose si complicherebbero di molto.

Per il sentimento immediato la libertà appare spesso consistere nell’affermazione della propria volontà: fare ciò che piace e torna utile si presenta come indipendenza e perciò libertà. 

Ma l’esperienza morale mostra che ciò porta a essere prigionieri del proprio io e schiavi delle cose. Ciò conduce, peggio, al contrario della libertà, alla vera e propria ed essenziale illibertà. 

Ciò che è pervertito, falso, ingiusto, cattivo è semplicemente schiavitù, asservimento della persona, che in definitiva può sopravvivere solo nel bene e nella giustizia. Queste conseguenze sono più inesorabili di quelle della natura. 

La coscienza, ecco il centro in cui si trovano le fondamenta della libertà. Essa è su un piano più elevato, in essa risiedono i cosiddetti valori spirituali che sono gli effettivi valori umani.

Conoscere significa anzitutto comprendere come la realtà sia conformata sotto un certo punto di vista, come essa si comporti, come possa recarci utilità e danno e come dobbiamo comportarci con essa; una interpretazione dunque per cui è possibile quell’agire che rende giustizia alle cose. Ma inoltre conoscere significa che comprendiamo l’essenza di questa realtà e ne afferriamo il senso. A questo tende la vera conoscenza e, quando essa è rettamente intesa, non può essere voluta per un fine pratico, sia pure il più urgente, né per una elevazione della vita, sia pure la più nobile, ma solo per la elevatezza del suo valore. 

Fu un errore fatale del tempo passato, preparato da Nietzsche e dal pragmatismo, credere che il senso della verità consista nella sua capacità di rassicurare, di rafforzare e potenziare la vita. Allora sarebbe vero il pensiero che serve alla vita; falso quello che le porta danno. La verità viene così subordinata alla vita e distrutta nella sua essenza. 

Ma la verità ha il suo senso puramente in se stessa, nella sua interna validità e altezza. Vero non è ciò che è utile, ma ciò che è vero. E proprio qui è la vera «utilità» che la verità porta alla vita poiché per la vita è di importanza decisiva giungere a qualche cosa che non la serva e davanti a cui essa debba inchinarsi; inchinarsi non a causa della sua potenza o delle sue prerogative, ma a cause della sua altezza. Se colui che conosce fa questo, allora egli approda al regno della verità. Fino a che egli non lo riconosce, gli enti sono per lui dei meri fenomeni e l’ampiezza del significato della verità gli rimane preclusa. Ancor peggio, quando egli tiene per giusto ciò che è falso, e quindi sbaglia, allora, nella confusione degli enti, il senso apparente lo inganna e lo conduce nella direzione opposta. 

Quando si conosce rettamente, il reale viene messo nella luce della sua essenza e si dischiude lo spazio significante della verità. Colui che conosce vi entra, si rialza, respira, si dispiega. Questo rialzarsi e dilatarsi e consolidarsi, questo divenire libero dello spirito nella verità è ciò che riempie così potentemente gli scritti platonici. 

Qualcosa di analogo avviene nell’incontro con una vera opera d’arte. Essa può avere differenti funzioni, ma il suo senso vero consiste nel fatto che l’opera d’arte rappresenta un mondo nel quale l’essenza delle cose e, contessuta a essa, quella dell’uomo creatore, si rivela più pura e più piena che nella realtà, mentre il frammento di questa realtà che viene rappresentata, si trasforma in una totalità che si eleva a simbolo della vita. Colui che contempla penetra in questo piccolo mondo di essenziale chiarezza e intuisce questa totalità che non è mai dato di afferrare immediatamente. 

Nel rapporto con gli altri uomini, così come nel rapporto col proprio io, si sviluppa un’ulteriore forma di libertà: quella personale.

Da un lato quella della comunità, che avverto quando mi accosto all’altro uomo secondo il modo esatto che è assegnato a me e a lui. Incontrarsi è più che il reciproco imbattersi di una cosa o di un vivente con un altro, da cui nascono azioni e reazioni scambievoli determinate dalla struttura delle relazioni di volta in volta ricorrenti. 

L’incontro significa invece che l’uomo avanza verso una cosa o un essere vivente, soprattutto verso un’altra persona, scorge la sua figura, sente la potenza del suo essere, viene toccato dal suo carattere di valore. L’essere colpito e individuato è reciproco e con l’attuarsi di questo rapporto egli diviene sempre di nuovo e sempre di più se stesso. Da questo punto di vista l’essere se stesso in maniera immediata, irriflessiva, coincide sempre con l’essere prigioniero di se stesso. Realizzare l’incontro spezza questa prigionia. Si determina fra coloro che si incontrano una totalità che è più che la somma degli individui singolarmente considerati. Ognuna di queste totalità rappresenta una particolare struttura di valore. Nell’attuarla l’io si libera dalla prigionia in se stesso e dalla solitudine. La forma più intensa della esperienza della libertà personale è l’amore.

Di contro, la forma di libertà della solitudine. Anch’essa è essenziale. Quando la comunità determina tutta la vita, l’uomo diviene un minorenne, un essere impersonale. L’esclusivo dominio della collettività soffoca la vita personale: tutta la vita viene resa pubblica, dovunque vigilano e comandano le autorità; la regolamentazione di tutte le forme di vita spegne l’iniziativa, poiché per ogni cosa c’è pronto il modello. L’uomo disimpara a stare in se stesso e diventa semplice elemento di meccanismi regolati dall’alto. L’uomo ha bisogno del polo contrario rispetto alla comunità: la solitudine. Qui egli rientra in se stesso. 

L’io dell’uomo non è bello pronto, come il concretarsi dell’animale; sempre di nuovo egli deve prendere certezza di sé, osare con sé, farsi. Questo avviene nella solitudine che gli permette di volgersi a sé, di esaminarsi e rispondere di sé, di impegnarsi. Nella solitudine è racchiuso il nucleo vitale. 

L’uomo che viva sempre con gli altri perde il suo nucleo e diviene semplice elemento della collettività. Così la solitudine, rettamente vissuta, viene sentita come una liberazione personale. Questa esperienza di vita diviene tanto più forte ed essenziale quanto più grande è l’uomo; e l’uomo ne ha tanto più bisogno quanto più le sue disposizioni lo sospingono all’azione. Questo inoltrarsi nella solitudine, nello spazio «dell’io con me stesso», è dovere, e spesso assai pesante, poiché l’uomo viene qui in contatto con le potenze e le tensioni del suo intimo, con le esigenze incalzanti della sua coscienza. Egli si pone in contatto anche con quel singolare vuoto che rende così faticoso e insopportabile il rimanere col proprio io e fa apparire accettabile ogni attività che ne allontani.

Infine, la vera solitudine può essere realizzata solo davanti a Dio. Appena si dimentica questo, la vediamo trasformarsi nell’atteggiamento dell’autonomia e dell’ebbrezza panica e divenire nuova rovina.

Esiste un’altra forma della libertà vista nel suo contenuto, la quale abbraccia tutte le rimanenti e dà a esse la definitiva determinazione: si tratta della libertà morale. 

Ciò che è morale è il complesso di quello che dovrebbe essere fatto, del bene. Questo atto procede esclusivamente dalla libertà. Il bene non si deve fare perché una cosa diversa sarebbe sgradita o dannosa, ma perché esso vale per se stesso. Esso non è ordinato a una inclinazione biologica e nemmeno psicologica, né a una forza di creazione culturale, ma a una particolare ricettività o appellabilità della persona, alla coscienza.

Il modo in cui il bene afferra questa coscienza non si può tradurre nelle parole: «Se vuoi raggiungere questa o quella cosa, devi fare questo o quest’altro»; ma: «Questo e quello tu devi fare, questo o quest’altro non ti è lecito fare, semplicemente, senza se e ma». L’appello del bene non indica delle possibilità, né dà dei consigli, ma obbliga. Il dovere è l’obbligo che procede dalla validità in sé di ciò che è obbligante. 

Certo qui hanno una loro parola da dire anche opportunità e vantaggi, poiché il bene è anche ciò che è conforme all’essenza e giusto e, come tale, evidente alla ragione e gradito al sentimento naturale. Ma l’obbligazione morale si riferisce essenzialmente alla potenza di significazione del bene come tale. 

In ultima istanza l’uomo non deve fare il bene perché così egli aumenta il suo benessere e potenzia la sua vita o sviluppa la sua personalità, ma perché esso è buono. È l’altezza del bene stesso che pone questa esigenza e questa obbligazione.

Ma che cos’è il bene? La prima e decisiva risposta suona: il bene è un dato primo, che non può essere determinato in funzione di nessun altro elemento dell’esistenza, di nessun altro valore, ma viene attestato per se stesso.  

Si potrebbe ritenere che il bene sia semplicemente il vero, in quanto esso diviene un imperativo, la verità essenziale delle cose e delle relazioni, dei bisogni e delle forze, in quanto divengono compito dell’agire. Ma una simile concezione trascurerebbe qualcosa di centrale: l’essenza del bene stesso. Essa farebbe del contenuto proprio del bene qualcosa di formale, ne farebbe cioè il modo in cui la verità del singolo ente viene a porre le proprie esigenze. 

Ma il bene non è solo una forma, bensì qualcosa di infinita ricchezza di contenuto e di valore assoluto. Questa essenza del bene non può essere fatta derivare da altra fonte, ma è il bene stesso, stabilito nell’altezza del proprio significato e obbligante per la propria validità.

In ultima analisi il bene è fondato in Dio. È una qualità di Dio; più esattamente un aspetto significante primo del suo essere vivente e insieme una direzione della sua intenzione vivente. Dio è il bene che afferma e ama se stesso in quanto bene: questo legame del bene morale con la bontà essenziale di Dio, Platone lo ha presagito e s.Agostino riconosciuto con perfetta chiarezza.

Questa bontà ha in Lui un particolare carattere, il carattere divino; per parlare più esattamente, il carattere della sua vivente divinità; che non è una manifestazione particolare di una divinità universale, ma è Lui stesso, che noi conosciamo solo in quanto Egli si rivela a noi. Questo carattere è la santità, intendendo la parola ancora una volta nell’autentico senso della Rivelazione. Ciò che si presenta alla coscienza morale come bene morale è la santità di Dio, in quanto penetra nella coscienza e si pone come dovere dell’azione.

Che l’uomo sia toccato dal senso del bene e impegnato dalla sua validità, costituisce il suo carattere in quanto uomo. Anche questo fatto è un dato primo, che non può né deve essere fatto derivare da altro. Così è semplicemente una cecità di fronte ai fenomeni voler spiegare l’obbligatorietà del bene per mezzo di presupposti psicologici e sociologici per non parlare di quelli biologici. 

L’uomo è l’essere che viene obbligato dal bene. Qui non si possono dare ulteriori spiegazioni. Perciò la capacità di accogliere il bene non deriva fondamentalmente, come negli altri valori, dai talenti e dall’educazione, ma è data con la natura dell’uomo in quanto tale. Essa ne fonda il senso e la dignità, in modo assoluto. 

Quando l’uomo diviene indifferente di fronte al bene, o addirittura lo rifiuta in quanto tale, ciò non significa che gli manchi una determinata disposizione, e che ne abbia un’altra in compenso, ma significa che egli abbandona il suo carattere fondamentale.

D’altro lato è evidente che il bene si riferisce all’essere e al suo contenuto. Esso ne ha bisogno per sviluppare se stesso, sia nella realtà sia nella parola. Senza la pienezza dei contenuti ontologici, il bene rimarrebbe paralizzato e muto. Questo diviene chiaro quando ci domandiamo quali sono i suoi rapporti con l’azione realizzatrice.

Il bene è per sé infinito come contenuto e semplice nella forma. Come tale esso non ha perciò nessun immediato rapporto con i giudizi e le azioni concrete. Io so sempre che devo fare il bene. La consapevolezza del mio essere impegnato e incalzato dal bene è sempre presente. Può mutare di carattere e di intensità, esaltare o deprimere, incoraggiare o inquietare, essere chiara o confusa, più forte o più debole, evidente o nascosta, ma non manca mai del tutto. Essa costituisce un elemento fondamentale della coscienza umana e indispensabile per la sua sanità e la sua unità: non può mancare in nessun uomo, neppure nel delinquente o nel degenerato, anche se qui può assumere le forme più singolari. Forse si deve persino dire che le forme peggiori del male procedono da impulsi di bene che si sono pervertiti. 

Ma appena chiediamo in che cosa consista, momento per momento, concretamente, il bene, non riceviamo risposta. Il bene è semplice e deve perciò essere articolato, abbraccia tutto e deve essere individuato, se deve costituire il contenuto di un giudizio e di una azione pratica. Ciò avviene attraverso la situazione.

Quello che attualmente ci obbliga non è il bene in generale, ma il bene che ora è urgente; più particolarmente, ciò che giusto in questo luogo, in questo momento, e questo essere giusto non significa naturalmente soltanto l’immediata esigenza pratica, ma anche l’interiore verità delle cose, l’uomo con tutto il suo essere, e tutto questo davanti all’altezza della santità di Dio. Così il mondo dei valori trapassa in esigenza di bontà.

Fare il bene significa perciò fare quello che rende la vita feconda e ricca: è il bene ciò che custodisce la vita e la porta alla sua ricchezza; ma solamente tuttavia quando è fatto solo per se stesso. 

Il pragmatismo ha detto che il bene morale sarebbe ciò che promuove la vita. In tal modo il bene viene subordinato a questa vita. Prescindendo completamente dalla questione del criterio col quale si debba allora misurare ciò che promuove la vita, in che cosa consista quindi la vera vita, ricca di valore, questa tesi rende impossibile il servizio effettivo che il bene può rendere alla vita: elevare al di sopra di essa l’altezza del significato di ciò che non è sottomesso alla vita.

Comprendere, riconoscere, fare questo è la condotta morale. Da essa procede l’esperienza di una intima libertà. Quando riconosce che devo fare una cosa, perché essa è buona in sé; quando il movente finale, sia pure implicito, del mio farla non è l’utilità o la soddisfazione, ma questa sua interiore bontà, proprio in questo io divento libero.

È una particolare libertà, la libertà morale appunto, che si realizza nel distaccarsi dall’immediatezza del proprio io con i suoi desideri e nel trapassare nella pura esigenza del dovere, spesso attraverso la lotta, il superamento di sé, il sacrificio.

Questa esperienza di libertà ha parecchie gradazioni. Da un lato il fatto che l’adempiere ciò che è imposto ne abolisce l’oppressione. Vengono poi il superamento di legami e ostacoli che spesso penetrano sin nel profondo e quel particolare sentimento di vittoria e di dominio che lo accompagna. Inoltre la consapevolezza di stare nel giusto, nell’ordine, nel regno delle essenze, nella verità. E infine quel che di particolare si dà nel valore morale in quanto tale. È l’ampiezza in senso assoluto.

Attuare quel valore è penetrare nella libertà dell’ultimo e autentico «si», nella libertà originaria del bene che si definisce solo attraverso se stesso. Essa diviene tanto più grande quanto più pienamente l’uomo riconosce l’imperativo del bene, quanto più profondamente egli lo afferma nei suoi sentimenti, quanto più puramente il suo agire trapassa nell’essere, diviene «virtù».

La sua mèta, mai raggiunta sulla terra, è l’uomo che non agisce semplicemente di volta in volta nella libertà morale, ma è moralmente libero, ha acquistato una «natura morale», la cui azione procede con facile e bella spontaneità motivata dal fatto che il bene è divenuto perfettamente manifesto e l’essere dell’uomo si trova in un puro accordo con esso e non sussiste più nessun motivo, neppure apparente, di fare del male.

L’uomo libero dalla coscienza, l’uomo amorale, che vive nella innocenza del farsi e del fare, non esiste. L’obbligatorietà del bene, sperimentata nella coscienza, fonda l’essenza e la dignità dell’umanità. Che da questa caratterizzazione morale derivino gravi problemi e che false soluzioni possano compromettere tutta l’esistenza è cosa certa. Ma è anche altrettanto certo che tali problemi non possono essere mai risolti col fare dell’uomo un essere di natura, ma devono essere essi stessi elevati sul piano etico personale. Con tutti i raffinamenti delle analisi psicologiche e delle tecniche critiche, l’immagine nietzschiana dell’uomo è di una estrema primitività, che deve essere considerata essa stessa come segno di decadenza, se non di malattia.

(liberamente tratto da: R.Guardini – Libertà, Grazia, Destino)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *